La domenica della nonviolenza. 15



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 15 del 3 aprile 2005

In questo numero:
1. Karol Wojtyla: Il concetto di "prossimo"
2. La pace difficile. Una testimonianza di Giuseppe Dossetti (1995)
3. Letture: Hannah Arendt, Responsabilita' e giudizio
4. Riletture: Sylvia Plath, Lady Lazarus e altre poesie
5. Riletture: Sylvia Plath, La campana di vetro
6. Riletture: Sylvia Plath, Diari

1. RIFLESSIONE. KAROL WOJTYLA: IL CONCETTO DI "PROSSIMO"
[Da Karol Wojtyla, Persona e atto, Rusconi, Sant'Arcangelo di Romagna (Rn)
1999, p. 683. Karol Wojtyla, nato a Wadowice (Krakow) il 18 maggio 1920, dal
16 ottobre 1978 papa con il nome di Giovanni Paolo II, e' deceduto la notte
scorsa. Il libro Persona e atto, pubblicato nel 1969 quando era docente di
etica all'Universita' Cattolica di Lublino, e' ritenuto il capolavoro di
Wojtyla come filosofo]

... nel concetto di "prossimo" si nota... la fondamentale relazione
reciproca di tutti gli esseri umani nell'umanita'. Il concetto di "prossimo"
indica dunque la realta' piu' universale e anche il piu' universale
fondamento della comunita' tra gli esseri umani. La comunita' nell'umanita'
e' infatti il fondamento di tutte le altre comunita'.

2. DIALOGHI. LA PACE DIFFICILE. UNA TESTIMONIANZA DI GIUSEPPE DOSSETTI
(1995)
[Da Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario della pace.
Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001, pp. 323-336
riprendiamo questa conversazione di  don Giuseppe Dossetti dell'11 giugno
1995. Ringraziamo gli amici carissimi Enrico Peyretti (per contatti:
e.pey at libero.it) per avercela rammemorata e per averne proposto la
pubblicazione anche su questo foglio, e Giovanni Benzoni (per contatti:
gbenzoni at tin.it) per avercela messa a disposizione. Giuseppe Dossetti, una
delle figure piu' vive della cultura della pace e della dignita' umana, e'
nato a Genova nel 1913 ed e' scomparso nel 1996. Giurista e canonista,
dirigente della lotta partigiana, deputato alla Costituente e alla Camera,
vicesegretario della DC, lascia la politica nel 1952. Si dedica alla ricerca
storico-teologica e da' vita ad una comunita' monastica. Ordinato sacerdote
nel 1959, stretto collaboratore del cardinal Lercaro al Concilio Vaticano
II. Nel 1994 e' stato il promotore dei Comitati per la difesa della
Costituzione. Opere di Giuseppe Dossetti: segnaliamo almeno Scritti
politici, Marietti, Genova 1995; La parola e il silenzio, Il Mulino, Bologna
1998; La ricerca costituente, Il Mulino, Bologna 1994; Con Dio e con la
storia, Marietti, Genova 1986. Opere su Giuseppe Dossetti: Giuseppe Trotta,
Giuseppe Dossetti, Camunia, Firenze 1996]

Una premessa, di Isabella Adinolfi e Paolo Bettiolo
Chi percorre l'autostrada che conduce da Bologna a Firenze, passato Sasso
Marconi, poco oltre il capoluogo emiliano, si trova a risalire la Val di
Setta. In quell'incipiente tratto appenninico, prima di giungere a
Rioveggio, sulla destra potra' scorgere i pendii boscosi e la brulla, dolce
cima di Monte Sole, neppure 700 metri d'altezza. Dall'altra parte, chi vi
salisse per una ripida, stretta strada, scenderebbe verso la valle del Reno,
non troppo lontano da Marzabotto. E' qui che nel 1944 le SS uccisero
anziani, giovani, donne, raccolti spesso nelle chiese con i loro sacerdoti.
A questi luoghi, decenni piu' tardi, un presbitero della chiesa di Bologna,
Luciano Gherardi, che pazientemente ricostruiva la storia di quelle
comunita' martiri, condusse don Giuseppe Dossetti. Di quella visita serba
traccia il volume che raccolse nel 1986 il frutto delle ricerche di mons.
Gherardi, sotto il titolo: Le querce di Monte Sole, edito da Il Mulino e
introdotto da un'ampia meditazione di don Dossetti, appunto; ma da quella
visita in qualche modo procede anche la decisione dello stesso don Giuseppe
di fissare su quel monte la dimora della comunita' monastica che intorno a
lui si era raccolta, per una ministero di memoria e preghiera strettamente
connesse a quegli eventi. Di qui anche, piu' tardi, il progetto, affatto
indipendente e mai perfettamente compiuto, di una struttura che rendesse
quegli spazi ormai deserti sede di una scuola di educazione alla pace,
nutrita di quel passato, dei suoi orrori, delle sue ragioni, in ordine ad
una sempre piu' accurata e scaltra vigilanza in questo nostro difficile
presente.
Bastino queste note a presentare il testo qui riprodotto, frutto della
trascrizione di una conversazione, svoltasi a Monte Sole, l'11 giugno del
1995, tra don Dossetti e un gruppo di giovani, guidato da don Giandomenico
Cova, che lavoravano appunto a quel progetto di una scuola di pace. Il testo
della registrazione, dattiloscritto e policopiato, ha avuto allora una
qualche diffusione; non e' mai stato pubblicato, pero'. Quella che qui se ne
offre e' dunque la prima, provvisoria edizione, resa possibile dalla
cordiale disponibilita' della dossettiana Piccola Famiglia dell'Annunziata:
lo scritto e' stato qua e la' corretto per renderlo piu' sciolto e
leggibile, con minimi tagli che non ne alterano, crediamo, il tenore. Il suo
contenuto, nella vivacita' stessa del parlato, serba intatta attualita',
nella meditazione paziente tesa a definire il senso di una intelligenza e
testimonianza evangelica della pace nel secolo; nelle difficolta' che
evidenzia, entro le stesse chiese; nelle indicazioni che fornisce circa il
presente, cio' che in esso soprattutto e' necessario - nell'ordine del
pensiero non meno che in quello dell'azione. Chi vorra' leggere,
giudichera' - soffermandosi soprattutto, se si consente un'indicazione, su
quelle pagine finali in cui si mostra il minimo, decisivo gesto che pur
resta sempre possibile, anche quando la situazione ci ammutolisce e lega,
apparentemente senza vie e mezzi di uscita.
*
Visita di "Terre, memoria e pace" a don Giuseppe Dossetti, Monte Sole, 11
giugno 1995
- Gianni: La ringraziamo molto per questa possibilita' di intrattenerci con
lei e, come si diceva, desideriamo sentire una sua parola sui temi
dell'educazione alla pace, in particolare sulle difficolta' e i problemi che
essa puo' suscitare, e poi dialogheremo un poco.
- Dossetti: Ho pensato di non riprendere, almeno immediatamente, le cose che
ho gia' detto nell'introduzione alle Querce di Monte Sole, ma, piuttosto, di
svolgere un pensiero, un dubbio, una problematica mia personale. Pero',
penso, potra' interessare anche voi.
In questi ultimi tempi, vedendo cio' che maturava nel campo della pace,
della non-pace, dell'educazione alla non-pace e della, direi quasi,
diseducazione alla pace, in tanti ambienti, mi sono riproposto un problema,
che non so quanto possa interessare a una parte di voi, ma che per me, a
questo punto, e' fondamentale. Cioe', se la fondazione della necessita'
della pace sia, come certo e', una fondazione solo razionale, nel senso che
piu' la ragione umana evolve e si sviluppa nei suoi postulati fondamentali,
piu' raggiunge o dovrebbe raggiungere - mi pare -  la certezza che la pace
e' necessaria e deve essere perseguita; oppure, se sia anche un'esigenza
fondata evangelicamente.
Perche' questo dubbio?
A parte la dottrina dei secoli passati, in cui i cristiani non hanno sentito
il bisogno di affermare con tutta coerenza, stabilita', universalita',
l'esigenza della pace, mi pare che anche ora perseverano certe esitazioni,
alcune quasi irriflesse e altre in qualche modo motivabili, almeno sulla
base del Nuovo Testamento.
Certo, e' un'esigenza di tutta ragione: la ragione, messa di fronte alla
guerra, oggi, non puo' non averne un orrore di principio e, messa di fronte
alle esigenze dell'umana convivenza, non puo' non cercare di pervenire a
fondare razionalmente, in modo sempre piu' completo e persuasivo, in modo
stabile e universale, la pace. Direi che difficilmente si puo' discutere,
almeno teoreticamente parlando, su una razionalita' evolutiva, sempre piu'
impellente in questo senso.
Ma ci possiamo rassegnare a pensare soltanto cosi'? Oppure, per cristiani o
comunque per gente che si appella al Nuovo Testamento, non vi si deve
pervenire anche da un punto di vista evangelico? E non si debbono  trovare
motivazioni indipendenti dalla ragione naturale? E non si deve
caratterizzare in una maniera diversa la pace che si propone - i caratteri,
la sostanza, la natura di questa pace, di cui, a prima vista, tanto parla
l'Evangelo e il Nuovo Testamento? A prima vista, almeno, perche' vi sono
anche delle frasi che possono far pensare il contrario. Ecco, su questo ho
cercato di pensare.
Vi sono pensatori cristiani - autentici - che hanno dubitato e continuano a
dubitare della fondazione neotestamentaria della pace. Perche'? Anzitutto
per un'eredita' dell'Antico Testamento, dalla quale qui oggi prescindiamo,
... anche se l'Antico Testamento parla molto di pace, pur parlando molto
anche di guerra. Ma, prescindendo da esso, una certa eredita' si e'
trasmessa anche al cristianesimo, almeno a partire da un certo momento, che
possiamo individuare pressappoco nell'eta' di Agostino... E vi sono alcune
frasi di Cristo - per esempio che cosa vuol dire quella ben nota a tutti:
"Non sono venuto a portare la pace, ma la guerra... e saranno quelli della
sua stessa casa che si rivolteranno gli uni contro gli altri: il padre
contro la madre, la suocera contro la nuora"?
E, se ci pensiamo, v'e' un certo orizzonte, soprattutto in vista dei segni
precorritori della fine dei tempi, che potrebbe far pensare, a prima vista,
che la guerra sia destinata a non finire mai, che una fine della guerra sia
esclusa.
E poi, v'e' l'orizzonte escatologico, proprio del discorso escatologico dei
Vangeli, ma anche dell'Apocalisse, cosi' pieno di guerra. di guerra
terminale, della guerra del giorno di Dio.
E che cosa ha voluto dire Gesu', quando, nel discorso di congedo, al
capitolo quattordici di Giovanni, dice "Vi do la mia pace, vi lascio la mia
pace. Non come il mondo la da'"?
Quindi, la pace che viene perseguita in un certo senso "naturalmente",
secondo ragione, e' la pace evangelica?
*
Adesso calco un pochino la mano sui dubbi, evidentemente, ma e' per
suscitare una nuova riflessione al riguardo, che confuti, dentro di noi e
fuori di noi e intorno a noi, una volta per tutte, argomenti che certo sono
da considerare, ma che noi non riteniamo assolutamente validi e che forse
non ci fanno intravvedere tutta la logica consequenziale del Nuovo
Testamento e tutta la vera natura della pace neotestamentaria.
Qui e' il passaggio.
Certo, il Cristo e' venuto per una grande opera di riconciliazione. Questo
l'ha detto piu' volte, e gli scritti apostolici si esprimono nettamente in
questo senso: Gesu' e' il grande riconciliatore. Ha riconciliato gli uomini
con Dio, i figli con il Padre, tutto il cosmo con la suprema entita'. Ma che
cosa significa questa riconciliazione? Collegandola col capitolo quattordici
di Giovanni, che prima citavo, non ci viene da pensare ad una pace di natura
diversa, che poi si puo' a volonta' spiritualizzare, sempre di piu', e
rendere quindi sempre piu' profonda, forse, ma anche sempre piu'
evanescente?
La riconciliazione col Padre, certo, e' il prius, quel che deve determinare
tutto. Ma significa pure una concordia pacifica tra gli uomini, tra loro nel
seno di questa umanita' concreta, peccatrice, o non vuole piuttosto asserire
una realta' fondamentale, globale, ontologica, per cosi' dire, ma che resta
come una meta da perseguire sempre, senza che sia mai raggiunta nel modo
concreto dell'esistenza? Non puo' indicare una strada che e' da intendersi
prevalentemente come strada interiore, spirituale, o al massimo con
conseguenze concrete - interiori ed esteriori - per l'uomo singolo, senza
indicare ancora una meta per tutta l'umanita'? E se la indica, in che senso
questa meta puo' essere differenziata, in qualche modo, dalla meta che
presupponiamo di dover perseguire razionalmente?
*
Se prendiamo in esame alcuni testi, che cosa ci dicono? Per esempio, Efesini
2. Rileggiamo il passo: "Percio' ricordatevi che un tempo voi, pagani per
nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perche'
tali sono nella carne, per mano di uomini, ricordatevi che un tempo eravate
senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della
promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece in Cristo
Gesu' voi che un tempo eravate lontani siete divenuti vicini grazie al
sangue di Cristo. Egli infatti e' la nostra pace, colui che ha fatto dei due
un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioe'
l'inimicizia, annullando per mezzo della sua carne la legge fatta di
prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo
nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo
corpo per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia" (2,
11-16).
Siamo trasportati, si direbbe, in un universo molto interiore, molto
spirituale.
Ma si possono trarre delle conseguenze da questo universo, che valgano per
l'universo storico in cui ci si muove oggi? E se si', in quale direzione?
Potremmo anche ricorrere ad altre frasi del Nuovo Testamento, all'Epistola
ai Colossesi, ad esempio, e accumulare testi in questo senso... Cioe', mi
urge in questo momento una specie di revisione. Ho voluto ripensare, non
facendomi delle obiezioni immaginarie, ma cercando di cogliere il fondo di
un sentimento, magari inespresso, che salta poi fuori in tante circostanze e
che e' diffuso in ambienti cristiani, piu' di quanto non pensiamo.
Qui, nel capitolo secondo della lettera agli Efesini, Paolo parla di una
riconciliazione generale, dell'uomo con Dio e degli uomini fra di loro,
specialmente degli uomini divisi dapprima dall'esistenza della legge,
mosaica, che sono stati fatti uno - uno col Padre, uno tra loro. Ma, in che
senso, in che modo? Dice: "Attraverso la croce di Cristo, che ha annullato
l'inimicizia". Quest'ultima, tuttavia, in concreto, palpabilmente, esiste
ancora tra parti contrapposte di questa umanita'.
Certo, il Signore ha insistito molto nel dare e nel far dare dagli apostoli
il saluto "pace", con tutte le implicazioni che anche per lui questa
espressione aveva, nel suo ambiente culturale - quindi, non solo concordia,
non-guerra, ma anche benessere, pienezza di vita eccetera, come si sa a
proposito della parola shalom. Ma ha detto anche, nel discorso ai suoi
apostoli per la prima missione - e pure questa e' una frase che puo' essere
in qualche modo capovolta: "quando entrate in una casa, salutate la casa: se
essa riceve la vostra pace, sia su di lei; se non la riceve, ritorni a voi".
Non sembra, insomma, sia una sua preoccupazione, concretissima, attuale,
come risulta invece per altre esigenze umane, rispettare la necessita'
continua di una visione e di un'opera di pace, anche nel senso di rapporti
non bellici.
*
Riguardavo in questi giorni l'articolo polemos, guerra, nel Lessico del
Nuovo Testamento del Kittel. Non prende posizione. Lascia in fondo  sospesi
su quello che e' il pensiero genuino degli scritti neotestamentari, come se
ci fosse una loro neutralita' al riguardo. Eppure, a ripensarci in modo...
piu' profondo, c'e' almeno una parola inoppugnabile, quella del capitolo
quinto di Matteo, al versetto nove: "Beati i facitori di pace, perche' essi
saranno chiamati figli di Dio". I facitori di pace: coloro che operano per
la pace, e che la stabiliscono, che concorrono a stabilirla tra di loro.
E  anche dalle frasi citate in precedenza si puo' desumere che la pace
prospettata non e' solo una riconciliazione spirituale dell'uomo con Dio,
che non e' solo una cosa... assottigliabile a piacere, per cosi' dire,
spiritualizzabile sino a renderla evanescente, ma che vi si prospetta
l'esigenza concreta che gli uomini vivano concordi e nella pace, tutti.
Ed e' implicita la condanna di qualunque azione di discordia: ci sono molte
frasi nel Nuovo Testamento che si possono citare in questo senso...
Sicche' la grande pace, quella fondamentale dell'uomo con Dio, degli uomini
con Lui, non puo' restare senza conseguenze nei confronti degli uomini tra
di loro.
Certo, quella e' il prius, nel concetto dell'Evangelo e del Nuovo
Testamento; e' la condizione fondamentale, ma poi questa condizione
fondamentale si deve realizzare e esplicare in un riflesso intraumano,
altrimenti non e' vera, non e' totalmente vera come dovrebbe essere.
E quindi non solo si dice di darsi la pace reciprocamente, ma si raccomanda
di operare con concordia verso tutti, gli uni con gli altri; Pietro, ad
esempio, lo raccomanda con insistenza (cf. 1 Pt 3, 8 ss. e 14 ss).
Quindi v'e' dalla grande pace, sovrannaturale, operata dalla croce di
Cristo, una conseguenza ovvia, che esclude una spiritualizzazione della pace
che la sfumi fino a renderla inafferrabile, e che esige anzi il controllo,
la verifica, della pace con Dio nel rispetto della pace vicendevole - e non
solo a livello individuale e personale, ma anche a livello comunitario; e
non solo nelle piccole comunita', ma anche nella grande comunita' umana:
tutto ha un riflesso che deve realizzarsi, evangelicamente.
Quindi,  Cristo, dicendo: "Vi do la mia pace, non ve la do come la da' il
mondo", e' vero, vuole dare una pace diversa, una pace piu' fondata, piu'
sottile, piu' spirituale, ma anche piu' capace di travolgere tutto l'uomo in
questa direzione, in questo sforzo di pace, e quindi di orientarlo
definitivamente nella sua unita' e nella sua verita' al Dio vivente, che e'
Padre di tutti gli uomini.
Quindi v'e' un riflesso discendente che investe il singolo e investe tutti,
che esige il concorso operante di ciascuno su un piano concretissimo nei
confronti di tutti gli altri e che fonda la pace in una ragione diversa da
quella che puo' addurre la ragione "naturale", in una ragione eminentemente
evangelica: la croce di Cristo.
*
V'e' cosi' un punto in cui i due movimenti, quello razionale, che sale dal
basso, e quello tutto evangelico, che scende dall'alto, si possono
incontrare in concreto, pur con motivazioni e impulsi differenti: l'impulso
della ragione, che esige sempre di piu', man mano che si sviluppa e si
determina, razionalita' nei rapporti umani, e quindi l'esclusione della
guerra, perche' ormai ne sa, per lunghissima, secolare esperienza, tutti i
danni e la nulla positivita' - e in modo radicale, si' da non poter fare
piu' alcuna distinzione, come si faceva un tempo, tra guerra giusta e guerra
ingiusta...
Certamente oggi molti, anche tra gli uomini piu' fermi nello sviluppo
dottrinale, sono giunti a questo punto: di escludere sul piano razionale la
possibilita' di una guerra giusta. Gia' un tempo si ammettevano per cio'
tali condizioni che, a dir il vero, di fatto escludevano la possibilita'
della guerra giusta; oggi pero' tutte queste condizioni sono di fatto, sul
piano naturale, trascese dal carattere totale della guerra. Sul piano
naturale, ma non solo su questo; anche sul piano evangelico, sul piano
neotestamentario, v'e', evidentemente, un'esigenza sempre piu' impellente di
affermare categoricamente la volonta' di Cristo di una totale pacificazione
dell'umanita', e quindi di interpretare in maniera a cio' conforme tutte le
frasi che ho citato prima, che non vogliono significare una
possibilita'-limite della guerra, ma un'altra cosa: la non neutralita',
cioe' la necessita' di prender posizione rispetto al Signore Gesu'. E questo
non puo' implicare la guerra al fratello, anzi implica sempre piu' che
l'immanenza della croce di Cristo ci obbliga a riconoscere in ogni uomo un
fratello, redento dal suo sangue, e quindi a cercare, necessariamente, di
tradurre in modo coerente quella pace che riceviamo da Dio, e che con Lui
abbiamo, in un'effettivita' di rapporti pacifici e concordi con tutti gli
uomini.
*
Ecco, vi volevo solo leggere ancora un passo di un grande teologo bizantino,
Cabasilas, che appunto dal passo dell'Epistola agli Efesini che prima ho
letto deduce quanto segue: "Poiche' Cristo e' la nostra pace, lui che ha
fatto dei due uno e ha distrutto il muro della separazione, l'inimicizia,
nella propria carne; poiche' da lui tutto e' stato pensato in funzione della
pace, quale bene puo' essere ritenuto superiore alla pace da coloro che
fanno oggetto della meditazione e dell'impegno dell'anima i misteri del
Cristo? Essi andranno in cerca della pace, come ordina Paolo, quanto di
nessun'altra cosa; in questo si faranno guida degli altri: distruggeranno
l'odio stolto, faranno cessare i vani conflitti, ben sapendo che la pace e'
cosi' preziosa che Dio stesso e' venuto sulla terra a comprarla per gli
uomini: lui, ricco e Signore di tutte le cose, non trovo' nessuna cosa degna
di quel bene, ma la pago' versando il proprio sangue". E cioe', proprio dai
supremi misteri dell'opera messianica si deve ricavare anche la conseguenza
di una ricerca progressiva e continua, universale e stabile, della pace
concreta fra gli uomini. Non si puo' spiritualizzare quella che e' stata
l'opera messianica fino al punto da renderla un'operazione proficua al
singolo, ma che non si dilata in un'operazione di carattere comunitario e
sociale, universale. Proprio perche' Cristo ha riconciliato gli uomini col
Padre e infuso in loro un sentimento radicale e totale di pace, questo deve
energicamente sospingere gli uni verso gli altri ad opere concrete di
misericordia e alla edificazione della pace.
*
Infine, per abbozzare quello che e' stato un mio itinerario o una mia
revisione interiore del problema, mi pare di potere concludere sommariamente
cosi': piu' ci si immerge nel Nuovo Testamento e se ne vedono le ragioni
supreme e si considerano i cardini fondamentali dell'opera messianica, piu'
si deve dedurre che il bene fondamentale che gli uomini devono darsi
reciprocamente e' quello della pace.
Questa non e' solo una deduzione indiretta o spiritualistica del pensiero
evangelico, ma e' un'esigenza incomprimibile di colui che e' stato
riscattato da Cristo e che e' in un rapporto nuovo, di nuova creazione, col
Padre celeste, e quindi con tutti gli uomini, acquistati e redenti dalla
croce di Cristo come figli di Dio e fratelli suoi. Uscire da questa
prospettiva e pensare che ci possano essere delle eccezioni o delle
obiezioni, mi sembra stia diventando, allo stato attuale di maturazione del
pensiero cristiano, veramente blasfemo e sacrilego.
Io avrei finito.
*
- Gianni: Grazie, soprattutto per averci partecipato la sua revisione, come
l'ha chiamata. Puo' essere importante per noi anche essere portati a
percepire che puo' esserci una revisione felice... D'altra parte ci rendiamo
conto, come ha detto all'inizio, di quanto sia stata contraddetta e di
quanto sia contraddetta questa ricerca, sia nella pratica di secoli passati
e sia in quella dei nostri giorni. Ci si potrebbe chiedere quali siano oggi
i rischi maggiori, le vie attraverso le quali si raggiunge l'ipotesi e
addirittura la pratica di eccezioni, come lei le ha chiamate. Ci sono
evidentemente quelle che patisce anche la ragione, visto che la guerra
continua. Ci possono essere pero', forse, anche quelle specifiche dei
cristiani, in qualche modo. Dei secoli passati si e' detto tanto, e puo'
sembrare incredibile che perdurino certe dottrine e pratiche che teorizzano
e poi realizzano queste eccezioni. Ma ecco, da che cosa ci si deve
guardare - mi perdoni se comincio da qualcosa di negativo, ma nell'ambito
dell'educazione forse e' necessario - da che cosa ci si deve guardare, per
evitare questa possibilita' di deviare tanto facilmente da principi pure
cosi' chiari?
*
- Dossetti: Io ho posto un problema che avevo dentro, o che recentemente mi
era stato riproposto  da qualcuno. Non siete per nulla obbligati a seguire
il mio modo di procedere. Quindi potete partire ora da tutt'altro punto di
vista. Fate voi...
E ora, per rispondere a cio' che ha detto don Gianni, dico che, a mio
avviso, ci si deve difendere anzitutto da una sia pur minima ammissione
teorica della possibilita' della guerra, con molta energia, approfondendo
sempre piu' le piste di ricerca che ho detto. Ci si deve fare una
convinzione molto energica e molto seria, che in questo campo non discute
con nessuno, non perche' rifiuti a priori di discutere, ma perche' e'
profondamente certa di quello che dice. Dialogando con tutti, anche perche'
il sistema stesso della pace esige il dialogo - pero' partendo da
convinzioni che si devono fare sempre piu' profonde, sia sul piano
razionale, sia sul piano evangelico, in modo tale da poter essere veramente
ferrati. A mio giudizio, su questo tema oggi non e' possibile partire da un
piano che ammetta una qualsiasi esitazione.
Se vogliamo parlare sul piano naturale o storico, oggi ho approfondito
ulteriormente quello che ho detto nelle Querce di Monte Sole, ma in quella
stessa direzione, e cioe': anche se continuano i conflitti - e quali
conflitti: cosi' irrazionali, cosi assolutamente antiumani -, questo non ci
deve far pensare che sia un pensiero debole quello che possiamo offrire. E'
un pensiero fortissimo, e' la ragione stessa della vita.
Non so se avete visto il libro di Severino sulla guerra - oggi non e' piu'
recentissimo, ma quando scrivevo le Querce non era ancora uscito... E' cosi'
catastrofico, pessimista, che quasi la riabilita, nonostante tutto, oppure
la indica come una meta che e' inevitabile considerare nell'orizzonte
dell'umanita'. Ora, su questo io non sono assolutamente d'accordo, anche sul
piano razionale. Bisogna avere una certezza assoluta, che poi per me
cristiano e' confermata nel Nuovo Testamento... La croce di Cristo - dico
evangelicamente - e' un segno di riconciliazione universale e cosmica e
implica di per se', necessariamente, l'unita' dell'uomo, di ogni singolo
uomo, e l'unita' di tutti gli uomini - e quindi l'esclusione della guerra...
Ma anche sul piano razionale, basta considerare quali sono stati i dati
dell'ultima grande guerra e quali sono i motivi per cui si e' giunti a
questi attuali conflitti. Se si considera storicamente la cosa, si vede che
i motivi sono tutti non validi, che tutte le ultime guerre, anche quella del
Golfo e gli attuali conflitti, potevano facilmente essere evitate e sono
state volute dall'uomo, da alcuni uomini, con deliberazione cinica,
assoluta. Quindi dobbiamo acquisire una certezza interiore, che ci orienti
poi nel nostro pensiero e ci faccia scavare in tutte le argomentazioni
possibili in modo tale da essere sempre piu' ferrati e sempre piu' sicuri di
quello che sosteniamo.
Questa per me e' la prima, fondamentale, radicale esigenza. Questa certezza
non l'avevano i nostri padri, non l'hanno avuta per secoli, salvo qualche
rara figura qua e la', qualche rara figura presto emarginata anche nelle
stesse chiese della Riforma. Le chiese della Riforma, nei loro esponenti
maggiori, non sono state pacifiste. Lo sono state soltanto alcune
denominazioni parziali, che sono state emarginate, costrette quasi sempre
all'esilio, come i quaccheri, per esempio, che hanno affermato una volonta'
assoluta di pace. Ora no... ora ci sono state le catastrofi di questo
secolo, spaventose, indicibili, veramente irrazionali al massimo,
evitabilissime sino all'ultimo istante.
Credo debba ormai essere ferma questa convinzione che sale dal basso,
attraverso la ragione, e che, per i cristiani, si fa incontro dall'alto,
attraverso la rivelazione. I due movimenti non solo si sommano, ma si
illuminano a vicenda, perche' e' indubbio che la riflessione anche puramente
razionale sta portando elementi concreti, storici, ed elementi di pensiero,
di valutazione, che sono di stimolo anche per la ricerca cristiana, che, dal
canto suo, oggi puo' essere condotta con un'esperienza e un'attualizzazione
della parola di Dio molto piu' avanzate - mentre, d'altra parte,
l'illuminazione che al cristiano viene dalla rivelazione e' essa stessa di
fermento e stimolo per la ricerca razionale.
*
- Roberto: Cercando, un po' con il suo stesso procedimento, di muoverci le
obiezioni che di solito ci fanno, trovo che sia proprio la ragione, o un
certo suo uso, ad avanzare delle difficolta', e la difficolta' piu' normale,
piu' frequente, e' quella che, dato lo scoppio dell'irrazionalita', data una
situazione di guerra, si pone il problema dell'innocente, il problema dei
deboli - e quindi il problema della difesa. E credo sia poi alla fin fine
per questo che anche negli ultimi documenti la Chiesa non e' riuscita a
compiere quell'atto ultimo di coraggio che porta a una parola chiara e
veramente evangelica di condanna assoluta della guerra. Anche perche' pesa
tutta una storia di drammi, e di drammi personali, che probabilmente lei
avra' vissuto piu' di noi, per cui cristiani, credenti, di fronte a
situazioni estreme, limite, hanno pensato di dover scegliere, contro la
violenza, la strada della violenza.
Questo e' il nodo che credo debba essere affrontato, sia razionalmente che
nella fede. E direi questo proprio in analogia a quanto scriveva
nell'introduzione alle Querce di Monte Sole, quando, per esempio,
distingueva tra il comportamento del pontefice, della Chiesa, anteriori allo
scoppio della guerra e quelli ad esso successivi, accettando, in fondo, di
formulare un giudizio diverso proprio perche' prima si poteva evitare il
conflitto. Allora, giochiamo tutto sulla sua prevenzione? Oppure... come si
puo' sostenere la necessita' della pace e insieme ristabilire la giustizia?
*
- Dossetti: Questo mio discorso ci costringe a porre problemi che,
evidentemente, non possono essere risolti quando un conflitto sia gia' alle
porte. Questi problemi sono:
-) l'educazione alla pace. In verita', per parlare dei risultati del
Concilio, era un'indicazione tassativa del Concilio Ecumenico Vaticano II
quella di attuare una grande educazione alla pace. Sono passati trent'anni,
e non e' stata fatta. Bisogna avere il coraggio di dirlo.
-) l'avvio reale, concreto, a un governo sovrannazionale, che potrebbe
essere gia' avviato, per essere realistici, in termini storici, in forma di
tentativi regionali, se non universali. Ma cosa abbiamo fatto da
quarant'anni a questa parte a questo riguardo? Dall'inizio del primo
concepimento dell'Onu abbiamo solo perduto terreno. Ma tutto cio' puo'
passare inosservato? Puo' restare senza denuncia questa inerzia distruttiva
e decadente degli organismi che assicurano la pace? Non si e' dato un solo
caso sinora di operazione internazionale veramente corrispondente allo
statuto dell'Onu. Anche l'ultimo episodio, quello della guerra del Golfo, si
inscrive in questa serie. Non parliamo poi dei conflitti parziali,
episodici, che sono stati gestiti in maniera assolutamente irrazionale.
Certo che a un dato punto-limite si giunge precisamente al problema che lei
pone, ma io dico che abbiamo perduto mezzo secolo in cui potevamo,
ammaestrati dal grande insegnamento della seconda guerra mondiale, avviare
qualche cosa di effettivo e progressivo, di evolutivo in senso reale. Non e'
stato fatto per nulla.
*
E' chiaro che poi, a quel punto, sorge il dilemma. Ma c'e' da dire anche
un'altra cosa, che il problema della difesa degli altri non e' stato in
realta' ancora visto come problema di una difesa nonviolenta. E' stato
concepito sempre altrimenti, e questo poteva essere in qualche modo
comprensibile ai miei tempi, cinquant'anni fa, quando avevo venticinque,
trent'anni, ma in questi decenni non e' piu' concepibile, perche' anche in
quest'ambito, e non solo in linea di principio, ma pure in via di fatto, le
pratiche nonviolente hanno compiuto grandi progressi e realizzato in alcuni
casi soluzioni rilevanti, in grado di mostrare la loro praticabilita' e la
loro efficacia.
Certo, mi potrete dire - e quest'obiezione me la sono posta anch'io - che
una cosa e' la pratica nonviolenta in un universo ancora in qualche modo
abbastanza ordinato, se non secondo ragione, almeno secondo una qualche
tolleranza, e altra cosa e' pensare a pratiche nonviolente sotto una
dittatura, come poteva essere quella hitleriana. Certo questo e' vero, pero'
mi pare si possa ribadire, anche di fronte a quest'obiezione, che i tempi
non sono piu' quelli in cui proprio si doveva dare la cosa per perduta e
soltanto operare, eventualmente nella clandestinita', anche con la violenza,
giustificata a motivo della difesa propria e altrui. Certamente, l'uomo oggi
puo' puntare su determinati valori, su una sua educazione e su concrete
pratiche collaudate che possano essere piu' diffuse e rese piu' capaci di
deflagrare, a un certo momento, in una difesa nonviolenta piu' universale.
Anche al di la' del campo nazionale, come alcuni casi hanno dimostrato. E
quindi e' grande la nostra responsabilita', oggi. Abbiamo una coscienza
matura, che non puo' tollerare piu' queste cose e deve mettersi in azione -
e questo lo dico soprattutto a coloro che sono distanti in eta' sessant'anni
da me, e che hanno ormai vent'anni: per voi questo e' un imperativo...
*
- Licia: Vorrei portare il discorso nel campo dell'educazione. Secondo me,
negli ultimi anni, nell'ambito del "popolo della pace" sono state fatte
delle riflessioni interessanti, e volevo sentire che cosa ne pensasse. Mi
riferisco all'idea secondo cui siamo tutti abituati a pensare alla pace come
assenza di guerra e in qualche modo come assenza di conflitti. L'idea nuova,
secondo me, che sta uscendo proprio nel campo dell'educazione alla pace, in
maniera molto forte e anche intelligente, e' quella di imparare invece a
gestire i conflitti, a trovare dei modi nuovi per condurre i conflitti.
Quanto stiamo facendo per imparare a gestire i conflitti? Quanto non stiamo
preparando, invece, i conflitti di domani? Mi riferisco al nostro modo di
vivere, al modo in cui stiamo costruendo delle barriere con i paesi del sud
del mondo, per esempio, e mi chiedo: cosa si puo' fare in questo campo, non
solo come educazione degli altri, ma anche come autoeducazione? Non so se
sono stata chiara.
*
- Dossetti: Chiarissima. Ha gia' risolto il problema. Cioe', sono
consapevole che dobbiamo rispondere... che dobbiamo fare molto gestendo
soprattutto noi stessi, e quindi anche limitandoci immensamente nelle nostre
societa' per evitare che gia' si pongano - e gia' si pongono, gia' si sono
poste, da alcuni anni, poi, in modo clamoroso - le premesse di nuovi
conflitti. Questa diventa, ancora una volta, ad un tempo un'esigenza
razionale e un imperativo evangelico: una forte autolimitazione, non c'e'
dubbio, individuale e collettiva, perche' gia' abbiamo posto le premesse di
grandi conflitti, in Africa per esempio...
*
Licia: Quello che mi sembra manchi e' una prassi di gestione dei conflitti.
Bene o male tutti noi siamo stati educati a nascondere i conflitti, a
superarli nascondendoli, cercando di cacciarli in basso, sempre piu' in
basso, scordandoci che rimangono li', congelati. In questo senso la
Yugoslavia ci da' davvero una specie di segnale: conflitti congelati che
improvvisamente riemergono perche' sono stati lasciati cosi' com'erano e
quindi in qualche modo persistono tutti. Allora dico: che cosa possiamo fare
per imparare a gestire questi conflitti, quali sono le vie? Parlo anche dei
conflitti quotidiani, dei conflitti che capitano ogni giorno, magari quando
si incontra il ragazzo senegalese che ci vende l'accendino e ci interroga su
tutta una serie di cose cui non riusciamo a dare risposta ... Qual e' il
percorso? Quanto la Chiesa sta facendo in questo senso per creare nuovi
percorsi? Secondo me qualcosa sta facendo. Mi riferisco alla vecchia
campagna "Contro la fame cambia la vita"... Pero' sembrano segnali lanciati
e poi smarriti nella ressa di tanti altri messaggi, controindicazioni...
*
- Dossetti: Sono d'accordo. Vi dico, cioe', che in questo momento, se avessi
qualche anno di meno sulle spalle, mi tirerei su' le maniche e cercherei
proprio di promuovere a tutti i livelli, sia ai livelli interpersonali,
minuti, sia a quelli piu' vasti, una revisione dei nostri comportamenti.
Credo che questo debba essere un compito affidato ai piu' giovani: di non
darsi pace se non facendo veramente opere di pace, in tutti i sensi...
E poi, se posso tornare un momento a quello che scrivevo anni fa, ci vuole
anche  fiuto: bisogna esercitarsi un po' a sentire la puzza di bruciato,
quando l'incendio e' ancora domabile. E questo non lo stiamo proprio
facendo. Dobbiamo sentirci tutti personalmente e comunitariamente
responsabili di quest'inerzia irrazionale e di questo grande egoismo
paralizzante... di questo fatalismo, per cui la guerra sarebbe una
fatalita', comparabile a quella di quegli animali polari che vanno incontro
periodicamente a un grande suicidio collettivo, per estinguersi o sistemare
lo sviluppo della specie. Cosi' dovrebbero fare anche gli uomini? Io non
posso rassegnarmi a una visione del genere; pero', se non ci interroghiamo,
c'e' il rischio che, senza pensarci, anche noi adottiamo questo punto di
vista.
*
- Gianni: Forse questa sensazione di fatalismo e' molto piu' diffusa di quel
che puo' sembrare. E' sembrato a molti, dopo l'ottantanove, dopo la fine di
un certo ordine, o presunto tale, che nasceva in qualche modo dalla fine
della seconda guerra mondiale, che si fosse - come dire - ristabilito un
andazzo perenne, fatto di "normali" conflitti, come per secoli, appunto, si
era pensato dovessero andare le cose, quasi si fosse conclusa non solo
l'epoca dei grandi conflitti, ma anche quella dell'illusione di porvi fine.
Probabilmente, almeno in parte il cosiddetto rinnovamento della politica si
basava anche su questo: che si potesse tornare a un procedere d'altri tempi.
Lei stesso ha fatto riferimento, in un discorso famoso di quegli anni, a
nuove signorie.
- Dossetti: Si'...
- Gianni:  Come se si fosse sostanzialmente tornati a una prassi secolare di
conflitti "normali", in cui tutti piu' o meno sono coinvolti e dai quali
nessuno puo', nemmeno con un tentativo di "concordia concordata" - per cosi'
dire -, sperare di uscire.
Ecco, in alcuni interventi che abbiamo ascoltato era implicito un
riferimento alla dimensione politica di questo agire per la pace... Ci puo'
dire qualcosa sulla prospettiva che le sembra - non solo nel nostro paese,
ma in generale - praticabile per chi invece desidera - perdoni questo modo
di dire che puo' apparire contraddittorio - lottare per la pace in modo
nonviolento, politico...
*
- Dossetti: E' certo che ci stiamo distanziando dalla guerra, dalla grande
guerra. Credo di essere proprio uno degli ultimissimi che l'hanno vissuta, e
il non averla vissuta ha peso, ha peso, qualsiasi idea si abbia. Perche' il
cuore non si scalda, resta freddo con i soli ragionamenti. Poi, si', v'e'
qua e la' anche un pullulare di dottrine vecchie, ma rinnovate e rinverdite.
Seguo un po' una rivista italiana di geopolitica, "Limes". Certo, vi si
ragiona in termini di "potenza"... Si stanno costruendo nuove dottrine...
forse, persino ricostruendo vecchi ideali... Questo rispuntare cosi' aspro
dei nazionalismi, sempre piu' restrittivi, sempre piu' particolaristici, fa
impressione. Quindi, indubbiamente, c'e' un compito non solo di concreta
educazione alla pace e di apprendimento delle nuove tecniche nonviolente, ma
c'e' anche un compito di riflessione, ai livelli cui accennavo or ora,
perche' non c'e' niente che si contrapponga a questo "nuovo", niente. E
questo fa pensare, molto.
La rinascita dei nazionalismi, ad esempio, o la giustificazione ad oltranza
del neocapitalismo, la non-volonta' di condividere veramente, che diventa
sempre piu' universale, per cosi dire, nell'ambito di una certa area di
cultura occidentale: questi sono fenomeni molto inquietanti... Questo
revisionismo, in senso negativo, appunto, che accusa i decenni passati di
irenismo ad ogni costo, irenismo superficiale, leggero, avventato, e il non
consolidarsi di dottrine che abbiano una fondazione teorica nuova, davvero
nuova: questo mi fa molta impressione.
Certo, in taluni ambienti, cosi' come tra voi, la sensibilita' pacifista si
sta accrescendo, tuttavia non vedo nascere qualcosa di capace di
controbilanciare ne' quantitativamente ne' qualitativamente, nell'ordine del
pensiero, tutte queste altre teorie che hanno un impulso nettamente egoista,
e quindi aggressivo, o almeno potenzialmente aggressivo. Questo mi preoccupa
molto.
*
Si', anche nell'ambito intellettuale mi sembra che gli ultimi quattro o
cinque anni abbiano denunciato un certo isolamento del pensiero pacifista,
in genere, nelle sue basi teoriche. Ritornando ai momenti cruciali della
guerra del Golfo, c'e' chi, commentandoli, ha parlato di una deriva del
pensiero, cioe' ha notato che anche nel mondo di una certa intellettualita'
c'e' stata una scarsissima reazione. Per esempio, nel nostro paese si
sentiva solo la voce del papa, isolato nello stesso ambito ecclesiale. E
anche i pensatori, i cosiddetti intellettuali di sinistra, hanno subito una
grande sconfitta al momento della guerra del Golfo, non hanno saputo
esprimere un pensiero sia pur vagamente propositivo, e anche adesso,
nell'analisi economica su quello che sta accadendo, che, per quanto non mi
intenda particolarmente di economia, puo' essere tuttavia condotta senza
tante esitazioni, sono tutti a senso unico, tutti favorevoli ad una certa
area economica industriale progredita, e tutti incapaci di considerare la
realta' delle aree economiche piu' povere. Sento dire, per esempio, che i
paesi del terzo mondo, a seguito di questa sistemazione del mercato
mondiale, saranno posti, per avere le sementi con cui coltivare i loro
terreni, in una condizione di dipendenza totale dell'economia mondiale. Cosa
vuol dire questo? Se anche l'agricoltura, che poteva progredire in quelle
aree, non solo sara' ostacolata, ma addirittura sopraffatta, ci sara' di
nuovo un problema di pane per molti milioni di uomini, per centinaia di
milioni di uomini. Questo inevitabilmente accumula un potenziale enorme di
violenza e conduce a terribili conflitti.
E poi, per accostarci a un altro problema e specificare un po' meglio, dato
che si tratta di un campo in cui una certa competenza me la riconosco, v'e'
la decadenza dei sistemi di organizzazione giuridica collettiva, ove si
assiste ad un clamoroso fallimento dei tentativi di operare condotti negli
ultimissimi anni, che hanno ulteriormente scalzato l'Organizzazione delle
Nazioni Unite e quindi reso poco gestibili, a livello anche giuridico, le
realta' conflittuali che sempre piu' si discernono nel mondo. Quindi, se
c'e' in qualcheduno, direi in una certa minoranza elitaria, un aumento di
coscienza e riflessione in senso pacifista, c'e pero', nella somma globale
dell'umanita' che conta e che decide, un arretramento molto grave,
impensabile anche soltanto venti o trent'anni fa - una desensibilizzazione
sul piano giuridico e politico.
*
- Gianfranco: Vorrei portare il discorso nuovamente sul tema dell'educazione
alla pace, e sottoporle alcuni pensieri. Lei prima giustamente ricordava che
chi non ha vissuto la grande guerra, la seconda guerra mondiale, e' piu'
tiepido nel dare un messaggio: credo che per le persone che non hanno
vissuto quell'esperienza sia molto importante attaccarsi ai luoghi che
dicono qualcosa della storia, della nostra storia, che va riscoperta... Ad
esempio questo luogo, altri luoghi simili che possono essere significativi
per la memoria, vanno fatti riscoprire, ai bambini, agli studenti delle
scuole superiori... Credo che la scommessa vada vissuta sempre meno con
discorsi...
- Dossetti: Astratti...
- Gianfranco: ... teorici, astratti, che possono anche esaurirsi in se
stessi; invece, la coltivazione delle cose che sono accadute qui, in ordine
a un cammino comune verso la pace - questo va vitalizzato, e credo possa
essere l'unico modo capace di convogliare forze giovani.
*
- Pierpaolo: Avevo una piccola domanda anch'io sulla questione dei luoghi.
Noi siamo nati come associazione ("Terre, memoria e pace") per proporre
un'educazione alla pace qui, a Monte Sole. Il discorso di Gianfranco verteva
sui luoghi, sull'educazione alla pace in luoghi significativi. A me viene da
chiedere, a questo punto: quali sono le cose, assolutamente imprescindibili,
da dire in un'azione di educazione alla pace con i giovani in luoghi come
questo; quali sono i temi che devono assolutamente essere  fatti emergere a
partire dai luoghi della memoria?
- Eugenio: Un'osservazione, l'espressione di una sorta di disagio, provato
ascoltando tutti questi interventi. Credo vi sia una difficolta' ad
elaborare un modo di comunicazione di questi concetti non ai ragazzi che
gia' vengono qui, a Monte Sole, o agli scout, ma ai giovani "di strada", a
tutta quella massa di persone, di giovani, sia italiani sia provenienti da
altri paesi, che restano lontani da questi luoghi, distratti, catturati da
una realta' sempre piu' individuale, violenta... A me interessano queste
persone: quali sono i modi per comunicare con loro?
*
- Dossetti: L'evidenza dei luoghi, dite. Certo, ma i luoghi di per se' non
dicono tutto. Bisogna inquadrarli in una realta' storica che puo' prendere
lieve spessore dai luoghi, ma che ha bisogno di essere anche almeno un
minimo teorizzata, oppure riprodotta con il richiamo di alcuni dati
fondamentali. Questa mi sembra una necessita'. Credo che per questo luogo,
in particolare, quello che abbiamo fatto noi sin qui sia troppo poco. Siamo
venuti a starci. questo si'... Ci siamo anche un pochino immersi nel
passato, rinnovando la memoria specifica delle comunita' che vi vivevano -
come vivevano, come erano state distrutte -, e ambientando sempre piu' il
nostro spirito in questa immersione, pero' c'e' bisogno di fare ancora
molto... E da parte di qualcuno che lo possa fare professionalmente, direi,
in maniera piu' attiva di quanto non possiamo fare noi, perche' noi, per il
nostro stesso modo di vivere, possiamo fare questo in modo assai limitato.
Noi  possiamo fare qualcosa, pero' lo facciamo su un piano diverso, e poco
analitico. Possiamo accogliere, come accade oggi, ma non troppo spesso,
perche' la nostra giornata e' assorbita da altro - e deve essere assorbita
da altro, se si crede  all'operativita' della vita spirituale.
Invece, su quello che diceva lei (Eugenio), mi trovo molto imbarazzato a
rispondere, mi trovo imbarazzatissimo. Credo che nemmeno una memoria messa a
contatto con i luoghi possa, anche se efficacemente illustrata, penetrare
nello spirito e nella mentalita' di tanti giovani di oggi. Credo vi sia un
discorso ancora piu' a monte, difficilissimo da fare, sia ai nostri
connazionali sia, tanto piu', alle persone del terzo mondo che vengono qui
con dei bisogni vitali cosi' grandi, cosi' urgenti, che difficilmente
possono essere educate a questo. C'e' un altro discorso - quello che in
piccolissima, minima miniatura, stiamo facendo nei luoghi d'origine,
appunto, di questi immigrati in Italia. Ma proprio in miniatura: e' un
micro-tentativo di fare un discorso in sede, prima quindi che lascino i loro
luoghi e abbiano da vivere una vita tanto fortunosa come quella che vivono
qui... E' un nostro impegno, ma cosi' difficile e cosi' doloroso...
Proprio oggi ho avuto un'altra notizia... Un nostro fratello mi ha scritto
di un giovane palestinese, che si era sposato di recente e di cui avevamo
conosciuto il padre, che era una persona veramente spirituale - un uomo del
popolo, un operaio palestinese... E' morto alcuni anni fa: un grande, grande
spirituale, una persona proprio spirituale... Il figlio, che adesso si e'
sposato, ha annunziato di aver avuto un bambino, con una certa gioia. Pero',
diceva in questa lettera, che abbiamo ricevuto oggi: "Si sperava nella pace,
invece ci troviamo a vivere in maggiore miseria, in maggiori difficolta', in
maggiore burocrazia, in controlli maggiori di quelli che avevamo prima".
Situazione ferma, stagnante. Cosa si dice a questo? Si puo' solo dire:
"Siamo qui per conto di Dio", e basta - perche' non ci sono dottrine. Gia'
appartengono ad un'area culturale completamente diversa dalla nostra, poi
sono a tal punto agiti dalle loro necessita' immediate, di sopravvivenza, di
una sopravvivenza giorno per giorno, che non si puo' far altro che un
discorso relativo a queste esigenze immediate, mostrando una gran buona
volonta', una grande comprensione.
Nel nostro villaggio in Palestina, in cui siamo ormai da parecchi anni - un
villaggio vicino a Ramallah: poche centinaia di abitanti, tra cui i
cristiani sono poche decine -, che cosa possiamo fare? Le nostre sorelle
vanno a prendere l'acqua alla fonte con le loro donne. Ecco: possiamo fare
questo. Caricarsi le spalle e portar su' l'acqua. Questo lo capiscono. Non
c'e' l'acquedotto, nonostante che a suo tempo, venti, trent'anni fa, la
Giordania avesse gia' finanziato un progetto di acquedotto: non c'e',
perche' tutti i pozzi sono stati requisiti. Cosi' le parole non tengono
piu'. Non ci sono case: i figli che si sposano devono restare con la sposa
in casa e dividere l'area limitatissima - la nuova famiglia con la
vecchia -, o emigrare. Il sogno di tutti e' l'emigrazione.
Vi sono questi terribili problemi, da una parte. E dall'altra vi sono i
macro-problemi che richiedono, come dicevo prima - e di questo sono molto
convinto -, un nuovo pensiero, forte, teorico e articolato nelle diverse
scienze umane... un nuovo pensiero economico, un nuovo pensiero giuridico,
un nuovo pensiero sociale e un nuovo pensiero filosofico. Ci sono questi due
poli, perche' il vecchio pensiero, il pensiero debole, rinunciatario,
fatalista, sta andando avanti inconsapevolmente, diffondendosi sempre piu'.
Quindi la cosa deve essere presa dai due poli: quello che rappresenta la
costruzione di una nuova sistemazione complessiva, che risponda alle sfide
teoriche che sono portate avanti dal revisionismo, e, insieme, quello del
lavoro in una realta' concreta, sperimentale, a contatto con la situazione.
Non e' molto ottimista, vero?
*
- Gianni: In conclusione, un poco...
- Dossetti: Un pochino, certo. Ho una volonta' ottimista, nonostante tutto,
ma non ci si debbono nascondere le difficolta'...
- Gianni: No, non ce le siamo nascoste, don Giuseppe...

3. LETTURE. HANNAH ARENDT: RESPONSABILITA' E GIUDIZIO
Hannah Arendt, Responsabilita' e giudizio, Einaudi, Torino 2004, pp. XXXII +
240, euro 22. Una raccolta di discorsi, lezioni e saggi di Hannah Arendt su
fondamentali questioni politiche e morali. Da leggere, come tutte le cose
scritte dalla grande pensatrice.

4. RILETTURE. SYLVIA PLATH: LADY LAZARUS E ALTRE POESIE
Sylvia Plath, Lady Lazarus e altre poesie, Mondadori, Milano 1976, 1999, pp.
208, lire 12.000. Alcune delle poesie piu' belle - e profonde, e dolorose, e
metuende - del Novecento. Tradotte, e introdotte, da Giovanni Giudici. Con
due saggi di John Frederick Nims e di Robert Lowell.

5. RILETTURE. SYLVIA PLATH: LA CAMPANA DI VETRO
Sylvia Plath, La campana di vetro, Mondadori, Milano 1968, 2002, pp. 238,
euro 7,80. L'unico romanzo, ma che ancora ci interroga, della grande
poetessa; tradotto da Daria Menicanti, con una postfazione di Claudio
Gorlier (e sei poesie estratte dalla raccolta Ariel).

6. RILETTURE. SYLVIA PLATH: DIARI
Sylvia Plath, Diari, Adelphi, Milano 1998, 2004, pp. 438, euro 9,50.
Un'ampia raccolta degli scritti privati, i "giornali intimi" (superstiti
alla furia distruttiva di Ted Hughes) in cui Sylvia Plath in un arco di
oltre vent'anni annota vicende, incontri, pensieri, aporie, dialoga con se
stessa e si rivela il mondo e al mondo si rivela; "una preziosa raccolta di
migliaia di fili sciolti da riprendere per rintracciare le idee e le
immagini usate nelle poesie, nei racconti e nel romanzo", scrive la
curatrice Frances McCullough.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 15 del 3 aprile 2005