La nonviolenza e' in cammino. 888



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 888 del 3 aprile 2005

Sommario di questo numero:
1. Severino Vardacampi: Un volto
2. Giobbe Santabarbara: Chiedo scusa, vogliamo parlare del colpo di stato?
3. Angela Dogliotti Marasso: Educare al conflitto a scuola. Modelli ed
esperienze
4. Di alcuni scritti di Carla Lonzi
5. Giuliana Sgrena presenta "Un mondo di pace e' possibile" di Nella
Ginatempo
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. LUTTI. SEVERINO VARDACAMPI: UN VOLTO

Cosi' a volte succede che nel buio
si insanguini un volto, una mano
ci implori - cosi' c'e'
chi ignora e chi invece ha nel cuore
la comunione dei vivi e dei morti.
(Giovanni Raboni, Quare tristis)
*
Non e' facile distinguere in questo momento tra cio' che e' servile omaggio
al potere, ipocrita ricerca del consenso, conformismo indotto dai
mass-media, o invece autentica commozione per la morte di un uomo che
soprattutto in questi tempi ultimi, nel suo incedere nella vecchiaia e nella
malattia, ad esse insieme cedendo e resistendo, sempre piu' persone hanno
sentito e riconosciuto vicino, prossimo.
Ma questa commozione c'e', sincera, in tante e tanti, anche in coloro che a
non poche opinioni ed iniziative di Giovanni Paolo II si opposero quando era
un potente del mondo.
Ma in quel vecchio sofferente che ora ha concluso il suo cammino su questa
terra, in molte ed in molti abbiamo letto, come in uno specchio, in figura
oltre che in enigma, qualcosa che ci tocca. Ne ha scritto Enrico Peyretti su
questo foglio con parole nitide e forti.
E questa agonia non e' stata solo una facile preda del cannibalismo dei
mass-media, ma anche una convocazione, un'interrogazione: ad un'ermeneutica
piu' fonda e piu' densa, ben al di la' delle banalita' e del nichilismo cui
e' dedita la societa' dello spettacolo. Sapevano tutto del cuore degli
esseri umani e del mondo quei greci antichi che ci hanno lasciato in
eredita' questa parola: agonia - la lotta, che e' per noi la lotta estrema,
la lotta che non si puo' vincere e che nondimeno devi combattere.
Verra' poi il tempo dei bilanci critici, delle analisi adeguate, delle
valutazioni complessive, dell'indicazione delle luci e delle ombre proprie
di ogni umana vicenda. Ma questa e' l'ora della commozione che si scioglie
in pianto. Non per il potente trionfante, per un uomo vecchio e malato di
nome Karol, sapiente di molte esperienze, sofferente della sofferenza di
tutti. In questa nudita', in questa fragilita', in questo scacco, in questo
lutto, riconosciamo qualcosa che a tutti ci e' comune: l'umanita'.
*
I giovani, le loro rose

simili a te: i giovani
le loro rose, simili

a me: i giovani, i loro
torti, simili ai nostri

(Amelia Rosselli, Documento)

2. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: CHIEDO SCUSA, VOGLIAMO PARLARE DEL COLPO
DI STATO?
Stancamente, laidamente, si trascina verso la conclusione una campagna
elettorale condotta all'insegna del pettegolezzo e delle piccinerie, mentre
avrebbe dovuto essere fiammeggiante e concentrata su due soli argomenti: il
colpo di stato in corso, la guerra terroristica in corso.
La guerra terroristica che ha gia' fatto morire tanti innocenti, e fra essi
non pochi nostri concittadini. La guerra di cui l'Italia e' complice per
responsabilita' infame e assassina del nostro governo che ha imposto la
partecipazione italiana ad essa in violazione della legalita' costituzionale
e del diritto internazionale.
E il colpo di stato: la demolizione della Costituzione della Repubblica
Italiana iniziata col voto della Camera e del Senato che in prima lettura
hanno gia' approvato il massacro della parte seconda della Costituzione,
sovvertendo le istituzioni e cosi' devastando anche i diritti delle persone.
*
Di questo si dovrebbe parlare in tutte le piazze, in tutte le case, e non de
l sesso degli angeli, delle promessicchie clientelari, degli imbrogli di
tizio e di caio (che certo la dicono lunga sulla qualita' morale e civile di
certi messeri, e ben richiederebbero l'intervento della magistratura
penale), dei programmi onirici e del machiavellismo degli stenterelli.
Invece si ciancia d'altro: al punto che addirittura ha tenuto banco per
settimane la presentazione di una lista composta anche da gruppi neonazisti
che per legge dovrebbero essere sciolti sia in quanto associazioni a
delinquere, sia in quanto ricostituzione di partito fascista.
Cosicche' e' probabile che la gran parte del popolo italiano chiamato alle
urne in quasi tutte le regioni usera' del diritto piu' prezioso in un
ordinamento democratico, il dirito di voto, basando la sua scelta su cento
altri motivi tranne che sui due che piu' d'ogni altro contano: fermare il
colpo di stato in corso; tirar fuori l'Italia dalla guerra onnicida.
Questo voto potrebbe e dovrebbe essere la prima risposta democratica e
popolare esplicita, concreta, verificabile, al governo e alla maggioranza
parlamentare che hanno infranto la legalita' costituzionale prima con la
guerra e adesso col golpe; potrebbe e dovrebbe essere il modo, l'atto
legittimo ed irrefutabile per imporre il rispetto del popolo italiano, della
giustizia e della pace, della legalita' e della democrazia, dell'ordinamento
giuridico fondato sulla divisione dei poteri e sulle guarentigie per tutti,
della democrazia come metodo e come sistema, della democrazia come
organizzazione istituzionale e come costume civile, della democrazia come
inveramento di giustizia e liberta'.
Non cogliere questo kairos, e' peggio che un errore, e' un delitto.
*
Ho atteso che queste righe le scrivessero altri, altrove. Ma non avendole
trovate su nessun giornale, allora le ho scritte qui io. In guisa di
esortazione estrema, e a futura memoria.

3. FORMAZIONE. ANGELA DOGLIOTTI MARASSO: EDUCARE AL CONFLITTO A SCUOLA.
MODELLI ED ESPERIENZE
[Ringraziamo Angela Dogliotti Marasso (per contatti: maradoglio at libero.it)
per averci messo a disposizione questa sua relazione presentata il 13 giugno
2003 al convegno su "La comunicazione come antidoto alla violenza. Dai
problemi di comunicazione, alla comunicazione come risorsa", svoltosi a
Firenze il 13-14 giugno 2003. Angela Dogliotti Marasso, rappresentante
autorevolissima del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del
Movimento Nonviolento, svolge attivita' di ricerca e formazione presso il
Centro studi "Sereno Regis" di Torino e fa parte della Commissione di
educazione alla pace dell'International peace research association; studiosa
e testimone, educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della
nonviolenza in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente
Aggressivita' e violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il saggio su
Domenico Sereno Regis, in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia -
Movimento Nonviolento, Torino - Verona 1999; e il recente volume in
collaborazione con Maria Chiara Tropea, La mia storia, la tua storia, il
nostro futuro, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2003]

Questa breve comunicazione si divide in due parti: nella prima cerchero' di
mettere a confronto due modelli di gestione dei conflitti e di individuare
le caratteristiche essenziali di quello che potrebbe essere un percorso di
formazione alla trasformazione costruttiva di essi, nella prospettiva della
Peace Research; nella seconda parte esemplifichero' questo percorso
presentando alcune ricerche ed esperienze in corso.
*
Modelli conflittuali violenti
Partendo da una preliminare distinzione concettuale tra violenza ed
aggressivita' (1) e cercando di mettere a fuoco cio' che caratterizza le
modalita' violente di gestire i conflitti, si potrebbe sostenere che, in
ultima analisi, esse fanno riferimento a quella che J. Galtung (2) chiama la
"sindrome DMA": dualismo, manicheismo, armageddon. Tale modalita' si basa su
una distinzione rigida tra le due parti in conflitto, che sono percepite
come contrapposte, in una polarizzazione che identifica il bene con una e il
male con l'altra, da cui deriva una implicita necessita' di scontro tra di
esse, volto a far prevalere l'una sull'altra. Patfoort (1992, 2001) usa un
modello analogo, M-m, maggiore-minore, per rappresentare il contenuto di
violenza di una relazione conflittuale.
Quando scatta la sindrome DMA ciascuna parte attribuisce all'altra l'errore,
la malvagita', la colpa, e cio' e' condizione per autogiustificarsi,
autoassolversi, deresponsabilizzarsi.
Ora, come sappiamo bene, nella realta' concreta della vita e delle relazioni
e' ben difficile che in un conflitto si possa attuare una simile distinzione
netta tra le parti, e, invece, proprio per il carattere interdipendente dei
processi conflittuali, vi sia una certa corresponsabilita' nello stato della
situazione, almeno quando i conflitti sono simmetrici.
Nel caso di conflitti asimmetrici, in alcuni contesti particolari e in una
certa misura, e' possibile che tra le parti vi sia una diversa distribuzione
di responsabilita', e una di esse si trovi in una condizione di ingiustizia,
sofferenza, subordinazione a causa dell'altra. Anche in questo caso,
tuttavia, l'applicazione del modello DMA e' inadatta ad una trasformazione
costruttiva del conflitto, perche' non fa che innescare dinamiche di
escalation o di propagazione della violenza, o di autodistruttivita', come
abbiamo sotto gli occhi in tanti esempi, sia a livello di microconflitti,
sia a livello di macroconflitti che, proprio anche a causa di simili
dinamiche, diventano "intrattabili".
E' allora di vitale importanza individuare i percorsi che possono
contrastare la meccanica risposta DMA, in favore di processi piu'
articolati, consapevoli e costruttivi. E cio' vale a qualsiasi livello,  ma
e' di particolare rilevanza nel contesto educativo.
*
Modelli conflittuali nonviolenti
Quali possono essere, le caratteristiche essenziali, dal punto di vista
delle relazioni tra le parti, di un modello conflittuale alternativo a
quello violento?
C'e' ormai un'ampia letteratura in merito; se si dovesse esemplificare una
tipologia di comportamento nonviolento nei conflitti in alcune attitudini di
base, mi pare che potrebbero essere le seguenti: saper riconoscere la
propria violenza, oltre che la violenza dell'altro, e comprendere come in un
contesto di interdipendenza, relazionalita', circolarita' sistemica, quale
e' ogni contesto conflittuale, la propria parte di violenza agisce sul
comportamento dell'altro, condizionandolo in un intreccio di responsabilita'
incrociate, che Sari Nusseibeh ha descritto con grande lucidita' parlando
delle relazioni tra palestinesi e israeliani nel conflitto che li coinvolge
da piu' di un secolo e sembra diventato "intrattabile": "Noi abbiamo il
bullo che ci sta seduto sopra, noi siamo la parte piu' debole, ma la cosa
strana e' che non riusciamo a far si' che questo bullo si sposti da noi e se
ne vada. Egli non lo fara' a meno che, in qualche modo, non riesca a capire
che, se si alza, noi non salteremo su di lui per picchiarlo o atterrarlo. In
qualche modo egli deve guadagnare fiducia in quelle che sono le nostre
intenzioni. E' una condizione strana: lui e' il bullo, lui e' piu' forte, ma
in qualche modo il suo comportamento dipende da quello che pensa di noi,
delle nostre azioni, di noi piu' deboli... la chiave del futuro, dei destini
e degli interessi palestinesi e' in mano dell'opinione pubblica israeliana e
la chiave dell'opinione pubblica israeliana e' nelle mani della modalita'
palestinese di agire e di affrontare le cose. Noi, in un certo senso,
potremmo riuscire a determinare, a forgiare il nostro futuro. Noi che siamo
sotto occupazione potremmo determinare il nostro futuro. Pero' oggi non lo
facciamo, o meglio non lo facciamo nel modo giusto, ma anzi in quello
controproducente" (3).
Persino di fronte al male estremo, Etty Hillesum, poco prima di morire ad
Auschwitz, scrive nel suo diario: "Non vedo nessun'altra soluzione,
veramente non ne vedo nessun'altra che quella di raccoglierci in noi stessi
e di strappar via il nostro marciume. Non credo che si possa migliorare
qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di
noi. E' l'unica lezione di questa guerra, dobbiamo cercare in noi stessi,
non altrove" (4).
Parole profondissime e di grande attualita', per riflettere e non perdersi
di fronte alle manifestazioni piu' tragiche del male nella storia dei
singoli e delle collettivita'.
Seppure in contesti e con finalita' diverse, Patfoort sostiene qualcosa di
analogo quando afferma che uno dei principi su cui si basano i processi di
crescita della violenza e' quello per cui "le persone sono molto piu'
facilmente consapevoli di essere in posizione m di quanto non lo siano di
essere in posizione M" (5).
Il non essere consapevoli della propria parte di violenza nelle relazioni ci
rende ciechi di fronte alle motivazioni del comportamento dell'altro e
incapaci di comprenderlo, di metterlo in relazione a noi, e dunque di
trovare una strada per contrastare dinamiche relazionali violente.
Tale consapevolezza e' tanto piu' difficile quanto meno la violenza e'
esplicita, appariscente, fisica. Nelle modalita' comunicative, soprattutto a
livello di relazione ci puo' essere, come sappiamo, un alto tasso di
violenza: nella svalorizzazione dell'altro, derivante da un atteggiamento di
superiorita' nei suoi confronti; nella pretesa di farlo simile a se',
annullando le differenze e assimilandolo ai propri schemi, senza rispettarne
le diversita'; nella manipolazione che, consapevolmente o meno, tende a
piegare, utilizzare, strumentalizzare l'altro per i propri fini (per quanto
"nobili" essi siano). Riconoscere la propria violenza e' anche un modo per
imparare a trasformarla, sviluppando, invece della violenza, l'assertivita',
l'affermazione positiva dei propri bisogni attraverso una comunicazione
nonviolenta efficace.
Mentre si puo' anche essere molto poco aggressivi ma molto violenti, la
comunicazione assertiva puo' anche essere "forte" nell'espressione dei
sentimenti e dei bisogni, senza essere violenta.
Come scrive I. Filliozat, infatti, la violenza non e' la collera, ma lo
scacco della collera: "La collera e' una reazione alla frustrazione e
all'ingiustizia. Da essa scaturisce l'energia per l'affermazione di se', che
serve al mantenimento dei nostri confini fisici, psicologici e sociali e
alla difesa dei nostri diritti. La collera e' funzionale all'armonia
(Armonia e' figlia di Marte, dio della guerra, e di Venere, dea
dell'amore)... L'armonia e' l'equilibrio trovato tra due esseri che si
confrontano. E' importante non confondere la collera con la violenza e la
presa di potere sull'altro" (6).
E' piuttosto l'impotenza nel gestire cio' che si prova in situazioni
difficili, nell'esprimere i propri bisogni e nel ricevere soddisfazione ,
che presiede alla violenza.
Dunque ragionare sulla propria violenza conduce al cuore del problema:
l'accettazione e la gestione delle emozioni nelle dinamiche conflittuali.
Sapersi decentrare; "pensare doppio", sviluppare l'empatia e l'assertivita'.
"Ogni anno porto gli allievi di Saint-Joseph al grande memoriale di
Gerusalemme sulle origini e la realizzazione del genocidio: lo Yad Vashem.
Voglio mostrare loro quello che hanno sofferto i loro 'nemici', voglio che
tocchino con mano l'orrore in una delle sue manifestazioni piu' compiute e
che comprendano che chi considerano oggi 'il carnefice', ieri e' stato
vittima del delitto piu' abominevole. Io stesso ho subito, durante una
visita a Dachau negli anni sessanta, uno degli choc piu' forti della mia
vita... Il nazismo e' un fenomeno unico nella storia mondiale. Voglio che i
miei allievi lo sentano. E vorrei che in seguito comprendessero quanto ha
pesato la Shoah sulla sensibilita' ebraica ed evitino le facili confusioni
che continuano ancora oggi" (7).
In questo brano di Emile Shoufani, un prete melchita di Nazaret,
arabo-israeliano, che organizza da anni incontri tra ebrei e palestinesi,
c'e' il modello di cio' che significa decentramento, nelle sue essenziali
componenti di ascolto ed empatia.
Di ascolto, cioe' di "percezione del quadro di riferimento interno
dell'altro" (C. Rogers), che richiede presa di distanza da se', da cio' che
ci pre-occupa, per far posto all'altro, poter riconoscere e comprendere
empaticamente il suo punto di vista e il suo sentire.
Quanto all'empatia, intesa come "un'esperienza emotiva di condivisione
mediata da processi cognitivi" (8), cio' che blocca la capacita' empatica e'
il focalizzarsi solo sulla propria sofferenza e il non saper vedere quella
dell'altro; in alcuni casi, ad esempio quando c'e' o e' stata costruita una
grande distanza sociale e i contatti sono minimi o inesistenti cio' puo'
giungere fino alla de-umanizzazione, al non riconoscere l'altro come essere
umano.
Talvolta accade che la mancanza di empatia verso l'altro si accompagni ad
una incapacita' di riconoscere i propri sentimenti e bisogni, perche', come
ha evidenziato Fornari, il meccanismo di difesa della de-umanizzazione
agisce sia verso l'oggetto, sia verso il soggetto: "I due aspetti della
deumanizzazione, quella orientata sull'oggetto e quella orientata verso se
stessi, si rafforzano a vicenda. Quanto piu' infatti la gente tendera' a
considerare gli altri come dei subumani, degli inumani o dei superuomini,
per cercare di liberarsi dalla paura, dal rimorso, dall'inquietudine, tanto
piu' rischiera' di perdere qualcuna delle qualita' umane che le sono
proprie" (9).
L'empatia aiuta invece, attraverso la sospensione del giudizio e l'apertura
ai bisogni dell'altro, a individuarne gli obiettivi condivisibili, a trovare
dei canali di contatto e di dialogo con lui, per superare le paure e
contenere la violenza.
Tutto questo pero' comporta una sorta di "visione doppia", che tiene conto
parallelamente di se' e dell'altro, e si situa percio' in una prospettiva
relazionale, anziche' individualistica, nella quale e' piu' facile che si
instauri un rapporto fondato sull'equivalenza, intesa come riconoscimento di
ugual valore all'altro, che sia attivata la capacita' di comprensione
empatica e che i soggetti assumano un'etica della responsabilita', intesa
nell'accezione che ne da' Gilligan, come di una  prospettiva morale basata
sull'intuizione dell'esistenza di un'interconnessione tra gli esseri umani
la quale "porta a riconoscere che, come la violenza risulta alla fine
distruttiva per tutti, cosi' le attivita' di cura responsabile finiranno per
arricchire se' e gli altri" (10).
Quanto all'assertivita', intesa come capacita' di esprimere positivamente i
propri bisogni e punti di vista, senza far violenza ne' subirla, diverse
ricerche concordano nel ritenerla una delle competenze essenziali per una
trasformazione costruttiva dei conflitti. L'assertivita' consente anche di
resistere alle pressioni esterne, e dunque di operare delle scelte
consapevoli e responsabili.
Negli studi condotti da A. L'Abate, sulle condizioni che ostacolano o
favoriscono l'insorgere del pregiudizio, essa risulta essere, in definitiva,
una delle variabili piu' significative, nel senso cha sembra emergere una
correlazione tra alto livello di assertivita' e basso livello di pregiudizio
(11).
Componenti fondamentali di un atteggiamento assertivo sono le modalita'
comunicative nonviolente, analizzate, tra gli altri, da Rosenberg (12).
Cooperare invece che competere; sviluppare la creativita' nella ricerca di
soluzioni condivise.
La cooperazione nel conflitto (conflict partnership), secondo Weeks (1995)
e' un "metodo efficace per  affrontare i conflitti e per migliorare le
relazioni in tutte le dimensioni della societa' umana" (13); essa significa,
in primo luogo, concepire il conflitto come una sfida, per rispondere alla
quale tutte le parti devono cooperare.
Cooperare nel conflitto significa anche circoscrivere il problema e non
lasciare che coinvolga l'intera relazione. E' piu' facile, infatti,
cooperare per affrontare una questione sulla quale si e' manifestata una
divergenza o una concorrenza, se essa e' concepita come un evento isolato,
che riguarda solo una parte della relazione.
Un approccio cooperativo, inoltre, affrontando il conflitto secondo l'ottica
del "noi", che tende a mettere in luce i bisogni condivisi da tutte le
parti, aumenta la possibilita' di trovare soluzioni "sostenibili" e
soddisfacenti per tutti.
Nella ricerca di soluzioni condivise la competenza da sviluppare e' la
creativita' che consente, uscendo dagli schemi consueti, di mettere in
pratica strategie capaci di tener conto sia degli scopi, sia delle relazioni
e di "trascendere" il conflitto, ristrutturandolo secondo nuove prospettive.
In sintesi, si potrebbero confrontare i due approcci, della cooperazione e
della competizione, attraverso alcune caratteristiche sintetizzate in
parole-chiave, come nel seguente schema (non esaustivo):
A. Paradigma della cooperazione: Fiducia, Apertura, Equivalenza,
Intelligenza-comprensione, Generosita', Condivisione, Distinzione,
Differenze.
B. Paradigma della competizione: Controllo, Segretezza, Superiorita',
Astuzia-raggiro, Esclusivita', Appropriazione, Contrapposizione, Disparita'.
*
Ricerche ed esperienze di formazione al conflitto in ambito scolastico
Delineato per sommi capi il quadro teorico di riferimento, si possono
proporre ora alcuni esempi di percorsi formativi in sintonia con gli
orientamenti suddetti.
Molte sono ormai le esperienze di formazione al conflitto, anche in ambito
scolastico.
Ne prendero' in esame alcune, a titolo esemplificativo, riconducibili a due
tipologie:
- prevenzione di violenza e bullismo a scuola; gestione dei conflitti e
mediazione tra pari;
- lavoro sul conflitto attraverso l'analisi di macro-conflitti con la
metodologia dei giochi di ruolo strutturati.
Una delle piu' significative esperienze europee di formazione alla
mediazione tra pari e' quella che ha dato luogo, in Francia, alla rete di
Generation Mediateurs. Partendo dal problema della violenza a scuola nella
banlieu parigina, un gruppo di insegnanti francesi dell'Ifor (International
Fellowship of Reconciliation) ha elaborato all'inizio degli anni novanta un
progetto-laboratorio di "Gestione dei conflitti e mediazione tra pari",
proponendo contestualmente stage di formazione per i docenti.
Obiettivi del laboratorio sono:
- Conoscersi meglio; prendere coscienza dei propri valori; sviluppare la
fiducia nelle proprie capacita';
- Prendere coscienza della violenza in se' e intorno a se';
- Riflettere sui propri modi di reagire alla violenza e sulle proprie
strategie nei conflitti;
- Comprendere che l'altro puo' avere un punto di vista diverso;
- Imparare a comunicare meglio per esprimere i propri bisogni in modo
assertivo; sviluppare l'ascolto e l'empatia;
- Saper prendere le giuste distanze nei conflitti per reagire
costruttivamente; saper dialogare nel rispetto reciproco e distinguere tra
conflitto e persona in conflitto;
- Sviluppare l'immaginazione e la creativita' in modo da trovare  soluzioni
senza vincenti ne' perdenti;
- Apprendere le tecniche della mediazione tra pari.
Il laboratorio utilizza una metodologia attiva che consente ai ragazzi di
"mettere in parole cio' che hanno vissuto e prendere le distanze da se'...
in modo da osservarsi senza paura di essere giudicati". Inoltre, poiche'
"gli esercizi di mediazione propongono un lavoro pratico e concreto che
produce effetti visibili" (14), gli adolescenti sono aiutati a superare il
senso di impotenza e frustrazione che spesso e' all'origine dei
comportamenti violenti verso se stessi o verso gli altri.
Il Centro studi "Domenico Sereno Regis" (15), ispirandosi a questo modello,
ha proposto analoghi percorsi di formazione in diversi contesti scolastici.
In tale occasione e' nata la collaborazione al progetto di prevenzione del
bullismo elaborato dall'Istituto "Datini" di Prato, progetto particolarmente
interessante, perche' prevede l'intervento a tutti i livelli:
- laboratori per studenti, che hanno coinvolto circa 400 allievi;
- corsi di aggiornamento per docenti;
- attivita' di coinvolgimento dei genitori.
 Nella descrizione del progetto si legge: "L'oppressione, il dominio dell'io
sull'altro sono spesso ritenuti l'unico modo per manifestare la propria
sicurezza personale, l'affermazione del proprio coraggio, a difesa del
proprio status con i compagni. Il fenomeno del bullismo, come ogni
squilibrio di potere in cui una parte domina sull'altra, puo' essere
prevenuto solo attraverso l'educazione al conflitto, all'espressione di se'
attraverso forme positive di comunicazione dei propri fondamenti
individuali. Con il progetto si intende quindi lavorare sull'assertivita'...
i ragazzi faranno esperienze di apprendimento cooperativo attraverso la
valorizzazione dei propri punti di vista nel rispetto dell'altro...
valorizzando la capacita' di intervento dei ragazzi sulle dinamiche
conflittuali presenti nel proprio gruppo classe... i ragazzi diventeranno,
insieme ad esperti nella gestione dei conflitti relazionali, dei
co-facilitatori della comunicazione tra parti coinvolte in episodi di
violenza" (16).
Uno degli aspetti piu' interessanti del progetto e' il tentativo di uscire
dalla logica "giudiziaria" della colpa-pena, che consiste nell'identificare
il colpevole nel bullo; nell'esprimere un giudizio negativo nei suoi
confronti (per esempio: "e' un debole, un vile, incapace di relazioni
normali, che ha bisogno di schiacciare gli altri per affermarsi..."); nel
punirlo, infine, per il suo comportamento.
Ma la semplificazione aggressore/vittima, torto/ragione non aiuta ad
evidenziare diversi altri aspetti presenti nel fenomeno del bullismo:
- oltre all'aggressore e alla vittima ci sono gli "spettatori", il cui ruolo
non e' affatto estraneo alla relazione bullo-vittima, anzi, talvolta e'
cosi' essenziale ad essa che, se non ci fossero gli spettatori, non ci
sarebbe nemmeno l'evento; esso e' agito, infatti, in funzione di un
riconoscimento sociale da parte del gruppo (e' questo il caso delle forme
"mafiose" di bullismo); in ogni caso, il tipo di reazione degli spettatori
condiziona il comportamento sia del bullo, sia della vittima;
- la vittima ha un potere da attivare da parte sua: anche il suo modo di
reagire all'aggressione puo' condizionare il comportamento del bullo;
- il comportamento del bullo va decodificato: e' necessario chiedersi cosa
esprime, o cosa nasconde, o cosa manifesta, altrimenti l'intervento fatto
sara' sul sintomo, non sulla causa;
- il comportamento del bullo non e' identificabile con la persona che lo
mette in atto, e' un atto sbagliato, compiuto da una persona che deve essere
messa in condizione di prendere coscienza del proprio errore.
Tutto cio' rimescola le carte e richiede un approccio diverso, anche
perche', in genere, la semplice repressione e' inefficace se non dannosa,
perche' tende a riprodurre all'infinito lo schema vincitore/vinto. Essa
conferma infatti il bullo nel proprio ruolo, rendendogli difficile il
cambiamento, aumenta la sua voglia di vendetta, mobilita la sua energia
aggressiva, riproduce lo stesso schema, nel quale puo' rispecchiarsi,
rafforzando cosi' in lui una identita' che solo apparentemente e'
trasgressiva, ma che in realta' e' in sintonia con la cultura profonda che
si esprime in modalita' relazionali competitive e violente, presenti a tutti
i livelli nella nostra societa'.
Solo un intervento capace di conoscere meglio il contesto e il fenomeno
nelle sue concrete manifestazioni e di comprendere come tali fenomeni si
colleghino da un lato al contesto sociale e familiare e dall'altro al lavoro
e alle relazioni scolastiche, consente di intervenire in modo adeguato per
interrompere questa catena, come tenta di fare il progetto di Prato, insieme
a tanti altri (17).
*
"La vittoria ottenuta con la sconfitta violenta del nemico non conduce alla
pace" (18)
Se cio' vale nelle relazioni interpersonali, a maggior ragione e' vero per i
macro-conflitti.
Ragionare sulle dinamiche di un macro-conflitto, preso in esame come caso di
studio, puo' essere un modo, oltre che per meglio comprendere quella
situazione nella sua complessita', anche per individuare quali competenze
possono essere utili nella gestione dei conflitti a diversi livelli,
compreso quello dei conflitti quotidiani. Partendo da questa ipotesi, e in
considerazione del fatto che non e' sempre facile inserire un percorso di
educazione al conflitto nell'offerta formativa della scuola superiore,
abbiamo pensato di proporre un'unita' didattica che potesse essere
agevolmente inserita nei programmi curricolari delle discipline
storico-sociali, centrata su un gioco di ruolo appositamente creato sul caso
del conflitto Palestina/Israele.
Dal punto di vista metodologico, il gioco di ruolo che abbiamo elaborato si
basa sui lavori di Elena Camino e del suo gruppo di Ricerca e didattica
delle scienze dell'Universita' di Torino, per affrontare le questioni
complesse e controverse (19). Tale metodologia, proponendo come elementi
prioritari di conoscenza aspetti tratti dalle storie di vita di personaggi
delle parti in causa, e mettendo in campo i diversi vissuti e punti di vista
presenti nello scenario proposto, si e' rivelata un efficace strumento di
lavoro didattico.
Nel nostro caso gli specifici obiettivi individuati sono i seguenti:
- diventare consapevoli della complessita' della situazione; comprendere
meglio le diverse prospettive ed esperienze, i diversi punti di vista e
vissuti delle parti in causa, nelle loro articolazioni interne;
- entrando concretamente nel vivo di una dinamica conflittuale, capire come
evolve, cosa puo' renderla piu' distruttiva, cosa puo' invece contenerne la
violenza e aprire strade di ricomposizione e  riconciliazione;
- comprendere quali sono le competenze da sviluppare per trasformare un
conflitto in modo nonviolento e sperimentarne alcuni aspetti, relativi in
particolare alla comunicazione efficace, all'ascolto e all'empatia;
- sviluppare un atteggiamento di cittadinanza attiva e di
responsabilizzazione.
Dal punto di vista del tema trattato, l'impostazione complessiva del lavoro
prende spunto anche da diverse ricerche ed esperienze di formazione in corso
da anni ad opera di studiosi ed attivisti per la pace palestinesi ed
israeliani. Nei lavori di educazione alla pace nel contesto dei conflitti
"intrattabili" di Gavriel Salomon (2003), ad esempio, viene data grande
rilevanza alla ricostruzione storica dai diversi punti di vista, ed essa
viene usata anche quale strumento per promuovere il decentramento cognitivo
e favorire l'empatia; si utilizza lo studio di un conflitto "esterno" per
acquisire competenze di analisi e abilita' di gestione del conflitto nel
quale si e' coinvolti; si ritiene che la conoscenza ravvicinata delle
prospettive e delle sofferenze dell'altra parte in conflitto sia un potente
strumento di contenimento della violenza e delle distorsioni nella
percezione dell'altro. Nell'approccio della riflessione e della fiducia
(TRT) proposto da Bar-On e Adwan (20), la condivisione della memoria e la
comunicazione dei vissuti ad essa collegati in un contesto protetto, aiutano
a ricostruire identita' non congelate nel vittimismo, ma piu' complesse e
articolate, capaci di comprendere anche la sofferenza dell'altro.
Mettendo insieme questi spunti con le riflessioni e le esperienze ricavate
da diversi gruppi e movimenti che lavorano per la pace, ci siamo proposte di
creare con il gioco di ruolo uno scenario attraverso il quale mettere in
atto simulazioni finalizzate a entrare concretamente nel merito di alcune
dinamiche conflittuali, a sperimentare, in particolare, il ruolo
fondamentale della comunicazione nella trasformazione costruttiva dei
conflitti, in un contesto caratterizzato da significativi risvolti
cognitivo-emotivi, capaci di produrre un apprendimento efficace.
Questi sono alcuni dei commenti raccolti dopo le prime sperimentazioni del
gioco:
- "avere i punti di vista di tanti personaggi ci aiuta a cogliere le diverse
sfaccettature e a prendere coscienza della complessita' del problema";
- "ho fatto fatica ad accettare di assumere il ruolo di questo personaggio,
perche' mi ritrovavo piu' d'accordo con l'altra parte, ora ho capito meglio
le ragioni di entrambi";
- "il gioco mi ha aiutato a modificare il mio punto di vista sul conflitto,
che era superficiale";
- "mettersi dal punto di vista dell'altro serve in tutti i conflitti, anche
nei nostri conflitti quotidiani".
Il lavoro va proseguito, ma sembra promettente.
Lo schema riassuntivo che segue mette a confronto i principali obiettivi
formativi delle esperienze proposte, in relazione agli obiettivi-tipo di un
percorso di educazione al conflitto in ambito scolastico (Mediazione tra
pari, Progetto bullismo, Gioco di ruolo).
A. Riconoscere le forme di violenza
- prendere coscienza della violenza in se' e intorno a se';
- riflettere sui modi di reagire alla violenza e sulle proprie strategie nei
conflitti;
- riconoscere e decodificare i comportamenti violenti (verso se stessi e
verso gli altri);
- capire cosa puo' contenere la violenza e cosa puo' incrementarla in una
dinamica conflittuale.
B. Decentramento ed empatia
-comprendere che l'altro puo' avere un punto di vista diverso;
- sviluppare l'ascolto e l'empatia;
- ascolto attivo ed empatico;
- auto-consapevolezza emozionale.
C. Comprendere le diverse prospettive, i punti di vista e i vissuti delle
parti in causa.
D. Comunicazione nonviolenta
- esprimere i propri bisogni in modo assertivo;
- sviluppare l'assertivita' e adeguate competenze comunicative in tutti gli
attori (bullo, vittima, spettatori);
- individuare le competenze per trasformare in modo nonviolento un conflitto
e sperimentarne alcuni aspetti, relativi, in particolare, alle modalita'
comunicative.
E. Sviluppare strategie cooperative
- sviluppare l'immaginazione e la creativita' per trovare soluzioni senza
vincenti ne' perdenti;
- apprendimento cooperativo;
- co-facilitazione e cooperazione nel conflitto;
- sperimentare metodologie di consensus building su aspetti specifici di un
contesto conflittuale.
*
Note
1. Tra gli altri: Fromm E., Anatomia della distruttivita' umana, Mondadori,
Milano 1975; Semelin J., Per uscire dalla violenza, Torino, 1985; L'Abate A.
(a cura di), Giovani e pace, Torino, 2001; Dogliotti Marasso A. in "Quaderni
Satyagraha", n 1, Pisa 2002; si veda anche la nota 7 nel saggio di  A.
L'Abate, Struttura sociale e pregiudizio. Una ipotesi e le sue prime
verifiche, in Il pregiudizio antisemitico. Una ricerca intervento nella
scuola, a cura di N. Baracani e L. Porta, Angeli, Milano 1999, pp. 20-21.
2. Galtung J., Uscire dal circolo vizioso tra terrorismo e terrorismo di
stato: alcune condizioni psicologiche, in "Quaderni Satyagraha" n. 2, pp.
30-43, Pisa 2002.
3. In Parole per la pace, "Quale stato", quaderno n. 6, pp. 56-57, Effepi,
Roma 2003.
4. Hillesum E., Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985.
5. Patfoort P., Non possiamo cambiare il passato ma possiamo cambiare il
futuro, in "Quaderni Satyagraha", n. 2, pp. 44-58, Pisa 2002.
6. Filliozat I., L'intelligence du coeur, Marabut, 1997, pp. 34-35.
7. Shoufani E., Attendo la pace, San Paolo, Milano 2003, p. 80.
8. Bonino S. et al., Empatia, Giunti, Firenze 1998, p. 18.
9. Fornari F., Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei
conflitti, Feltrinelli, Milano 1969, p. 60.
10. Gilligan C., Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987, p. 81.
11. L'Abate A., Struttura sociale e pregiudizio, op. cit., p. 20.
12. Rosenberg M., Les mots sont des fenetres, Syros, 1999; non riprendo qui
questi aspetti, trattati nella comunicazione al precedente convegno su
"Dinamiche di escalation e de-escalation dei conflitti: il ruolo della
comunicazione", in Cheli E. (a cura di), La comunicazione come antidoto ai
conflitti, Punto di fuga, 2003 (atti del convegno di Arezzo 2002).
13. Weeks D., Truder A., Scotto G., Cooperazione nel conflitto, Qualevita,
1995, p. 11.
14. Tartar Goddet E., in "Generation Mediateurs Info", n. 9, novembre 2002,
p. 2.
15. Centro studi "D. Sereno Regis", e-mail: regis at arpnet.it, sito:
www.arpnet.it/regis
16. Incontriamoci. Progetto di prevenzione al bullismo, espressione di
malessere sociale, Istituto "Datini", Prato, 2002.
17. Tra le tante esperienze di prevenzione-intervento realizzate in questo
ambito si segnalano in particolare quella, piu' recente, del Comune di
Ferrara, che ha prodotto il video "Togliamoci la maschera", e, tra le
prime, la ricerca-intervento coordinata dal sociologo Franco Prina nelle
scuole del quartiere Vallette, a Torino, negli anni novanta. Percorsi di
formazione in questo ambito sono proposti anche dal Centro Studi Difesa
Civile, e-mail: laboratori at pacedifesa.org, e dal Centro psicopedagogico per
la pace, e-mail: info at cppp.it
18. Panikkar R., Nove sutra sulla pace, in "Cem/mondialita'", marzo 2003, p.
8.
19. Si vedano, tra gli altri: Camino E., Calcagno C., Un livido giorno di
pioggia. Gioco di ruolo sulle piogge acide, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1992; Camino E., Colucci L., Educazione ambientale e sostenibilita'. Lo
studio di un caso: la controversia sugli allevamenti di gamberetti in India,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 2000.
20. Albeck J.H., Sami Adwan, Dan Bar-On, Dialogue Groups: TRT's Guidelines
for Working Through Intractable Conflicts by Personal Storytelling, in
"Peace and Conflict, Journal of Peace Psycology", vol. 8, n. 4, 2002.

4. MAESTRE. DI ALCUNI SCRITTI DI CARLA LONZI
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo queste brevi presentazioni di alcune opere di Carla Lonzi. Carla
Lonzi e' stata un'acutissima intellettuale femminista, nata a Firenze nel
1931 e deceduta a Milano nel 1982, critica d'arte, fondatrice del gruppo di
Rivolta Femminile. Opere di Carla Lonzi: Sputiamo su Hegel, Scritti di
Rivolta Femminile, Milano 1974, poi Gammalibri, Milano 1982; Taci, anzi
parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978;
Scacco ragionato, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1985. Opere su Carla
Lonzi: Maria Luisa Boccia, L'io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla
Lonzi, La Tartaruga, Milano 1990]

Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, e
altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978.
Dalla premessa:
"Questi scritti, sia quelli firmati da me che quelli firmati
collettivamente, segnano le tappe della mia presa di coscienza dalla
primavera del '70 ai primi del '72, stimolata dalla scoperta dell'esistenza
del femminismo nel mondo e dai rapporti con le donne di Rivolta Femminile.
Il rischio di questi scritti e' che vengano presi come punti fermi teorici
mentre riflettono solo un modo iniziale per me di uscire allo scoperto,
quello in cui prevaleva lo sdegno per essermi accorta che la cultura
maschile in ogni suo aspetto aveva teorizzato l'inferiorita' della donna.
Per questo la sua inferiorizzazione appare del tutto naturale.
Le donne stesse accettano di considerarsi 'seconde' se chi le convince
sembra loro meritare la stima del genere umano: Marx, Lenin, Freud e tutti
gli altri. Mi sono sentita stimolata a confutare alcuni tra i principi
fondamentali del patriarcato, non solo di quello passato o presente, ma di
quello prospettato dalle ideologie rivoluzionarie.
Il nostro Manifesto contiene le frasi piu' significative che l'idea generale
del femminismo ci aveva portato alla coscienza durante i primi approcci tra
di noi. La chiave femminista operava come una rivelazione. Il bisogno di
esprimersi e' stato da noi accolto come sinonimo stesso di liberazione.
'Sputiamo su Hegel' l'ho scritto perche' ero rimasta molto turbata
constatando che quasi la totalita' delle femministe italiane dava piu'
credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione.
Quando ne' rivoluzione, ne' filosofia, ne' arte, ne' religione godevano piu'
della nostra incondizionata fiducia, abbiamo affrontato il punto centrale
della nostra inferiorizzazione, quello sessuale. Durante una campagna per
l'abolizione del reato di aborto mi sono chiesta: e' piu' da schiave
soggiacere all'aborto clandestino o al fatto di rimanere incinte se non si
e' provato piacere, cioe' solo per soddisfare l'uomo? Chi ci ha obbligato a
soddisfarlo a nostre spese? Nessuno. Li' siamo vittime incoscienti, ma
volontarie ("Sessualita' femminile e aborto").
Perche' la donna non ha la risoluzione nell'orgasmo assicurata come l'uomo?
Qual e' il suo funzionamento fisio-sessuale? E quello psico-sessuale? Qual
e' infine il suo sesso? Esistono donne clitoridee e donne vaginali: chi
sono? Chi siamo? ("La donna clitoridea e la donna vaginale").
Prendendo coscienza dei condizionamenti culturali, di quelli che non
sappiamo, non immaginiamo neppure di avere, potremmo scoprire qualcosa di
essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della
vita. Via via che si andava al fondo dell'oppressione il senso della
liberazione diventava piu' interiore. Per questo la presa di coscienza e'
l'unica via, altrimenti si rischia di lottare per una liberazione che poi si
rivela esteriore, apparente, per una strada illusoria ("Significato
dell'autocoscienza nei gruppi femministi").
Per esempio, lottare per il domani, un domani senza condizionamenti per la
donna, un domani cosi' lontano che neppure noi ci saremo. L'uomo ha sempre
rimandato ogni soluzione a un futuro ideale dell'umanita', ma non esiste,
possiamo pero' rivelare l'umanita' presente, cioe' noi stesse.
Nessuno a priori e' condizionato al punto da non potersi liberare, nessuno a
priori sara' cosi' non condizionato da essere libero. Noi donne non siamo
condizionate in modo irrimediabile, solo che non esiste nei secoli
un'esperienza di liberazione espressa da noi".
*
Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta
Femminile, Milano 1978.
Questo libro e' un punto di riferimento inesauribile per i problemi di una
donna che voglia prendere coscienza di se'. Al di la' delle particolarita'
di una vita, esistono i nodi perenni della condizione femminile determinati
da una struttura e da una cultura che le si stringono addosso per
comunicarle quel senso di impotenza da cui nasce l'accettazione del ruolo.
Nessuna puo' dirsi al sicuro appena interrompe l'attivita' della coscienza.
Un pericolo scampato non e' il pericolo scampato per sempre, al contrario
esso si ripresenta in mille varianti fino all'ultimo soffio di esistenza. Il
rifiuto dei ruoli sprigiona i rapporti, e questo e' un libro di rapporti che
rinnova l'essere al mondo. Il vivere perde il suo carattere scontato, che e'
la complicita' sui prestigi reciproci. La donna vi appare fragile, ma carica
di una forza sconosciuta quando afferma l'autenticita' come irrinunciabile.
Ogni sorta di rivelazioni scaturisce da questo impegno di verita' promosso
non da tutte le donne, appare chiaro dal libro, ma certamente dall'autrice
in quanto donna.
Ma Taci, anzi parla puo' essere letto anche come trattato di pensiero non
ideologico; come conflitto tra autenticita' e cultura; come Libro senza
essere letteratura; come documento sulla formazione di un gruppo di donne
che, forse unico o tra i pochissimi, ha finito per esistere davvero
riscattando le sue premesse; come dramma della coscienza femminile nel
mondo; come tentativo di interrompere il sogno che l'uomo fa sulla donna per
sognare se stesso; come descrizione del mondo come scrittura senza darsi
l'identita' di scrittrice; come possibilita' di rapporti ormai sciolti,
anche se traumatizzati, dalla consegna del silenzio.
*
Carla Lonzi, Scacco ragionato, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1985.
Come ogni scritto di Carla Lonzi nel suo "impegno di verita'" sollecita
ognuno e ognuna di noi a dichiararsi per quello che siamo - fuori da ogni
istituzione, cioe' liberato e liberata dal ruolo - cosi' questo libro Scacco
ragionato. Poesie dal '58 al '63, presuppone la stessa disponibilita' per
realizzare l'operazione che durante ventidue anni e' stata garantita dalla
non pubblicazione di questi versi.
L'esigenza di Carla Lonzi di comunicare con una persona anziche' con un
lettore o una lettrice diventa a sua volta per chi legge l'occasione - rara,
rarissima - di essere ricercato come coscienza, come individuo. Un rischio
per chi teme, un'avventura per chi vuole. Ma chi non vuole?
*
Un profilo di Carlo Lonzi
Carla Lonzi nata il 6 marzo 1931 a Firenze. Laureata in storia dell'arte con
Roberto Longhi. E' stata critica d'arte "nel senso della scoperta, della
selezione e del rapporto personale". Nel '63 prende posizione contro Argan
con lo scritto La solitudine del critico, in cui dando per inesistente la
categoria operativa "nella quale insediarsi e conseguentemente agire"
dichiara il mestiere di critico "tutto da inventare". Nel '69 pubblica
Autoritratto, De Donato Editore, registrazioni avvenute durante alcuni anni
con quattordici artisti che rappresentano le sue scelte nell'esperienza
diretta dell'avanguardia anni '60. Il dialogo che ne deriva da' una
dimensione degli artisti privata e "innocente", come dice Carla Lonzi,
"secondo un bisogno di salvezza loro e propria sentita dall'autrice". Nel
1970 lascia la professione per dedicarsi al femminismo, al gruppo di Rivolta
Femminile e alla casa editrice a esso collegata. Esordisce con Sputiamo su
Hegel e l'anno successivo con La donna clitoridea e la donna vaginale che
sono due momenti di contestazione della cultura. Nel '78 pubblica Taci, anzi
parla. Diario di una femminista, un vero "trattato di pensiero non
ideologico". Nel 1980 esce Vai pure, dialogo con Pietro Consagra che e' il
chiarimento di una relazione affettiva nel momento in cui il rapporto
uomo-donna diventa un rapporto inconciliabile tra due coscienze. L'edizione
integrale dei suoi testi dal 1970 al 1972 col titolo Sputiamo su Hegel, La
donna ditoridea e la donna vaginale, e altri scritti e' tradotta in
Argentina e in Germania nel 1975 e in Spagna nel 1981. Carla Lonzi muore a
Milano il 2 agosto 1982.

5. LIBRI. GIULIANA SGRENA PRESENTA "UN MONDO DI PACE E' POSSIBILE" DI NELLA
GINATEMPO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo articolo di Giuliana Sgrena, apparso su "Le monde
diplomatique" del gennaio 2005, di presentazione del libro di Nella
Ginatempo, Un mondo di pace e' possibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino
2004.
Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le
piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra
cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999;
Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban,
Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo. Dal sito del
quotidiano "Il manifesto" riprendiamo, con minime modifiche, la seguente
scheda: "Nata a Masera, in provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948,
Giuliana ha studiato a Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra',
la rivista diretta da Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha
sempre lavorato nella redazione esteri: appassionata del mondo arabo,
conosce bene il Corno d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato
la guerra in Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a
Baghdad durante i bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate
'cavaliere del lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di
tutto di raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con
professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese.
Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le
fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a
parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista".
Nella Ginatempo (per contatti: nellagin at tiscali.it) e' una prestigiosa
intellettuale impegnata nei movimenti delle donne, contro la guerra, per la
globalizzazione dei diritti; e' docente di sociologia urbana e rurale
all'universita' di Messina; ha tenuto per alcuni anni il corso di sociologia
del lavoro, svolgendo ricerche sul tema del lavoro femminile; attualmente
svolge ricerche nel campo della sociologia dell'ambiente e del territorio.
Tra le sue pubblicazioni: La casa in Italia, 1975; La citta' del Sud, 1976;
Marginalita' e riproduzione sociale, 1983; Donne al confine, 1996; Luoghi e
non luoghi nell'area dello Stretto, 1999; Un mondo di pace e' possibile,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004]

E' l'utopia il filo che percorre tutto il libro di Nella Ginatempo, come si
puo' intuire dal titolo della pubblicazione: Un mondo di pace e' possibile.
Una "utopia concreta" la definisce Ginatempo quando individua nella scelta
della nonviolenza il primo passo per disarmare la violenza, la violenza
dell'impero. Il libro e' una raccolta di riflessioni critiche lungo il filo
rosso della "guerra globale": dalla prima alla seconda guerra del Golfo
passando per i Balcani e l'Afghanistan (1991-2004). L'autrice insiste sul
passaggio dalla guerra fredda a quella globale: "intesa come scenario
mondiale in cui sono potenzialmente coinvolti tutti i continenti, compresa
l'Europa e anche l'Onu che aveva giuridicamente bandito la guerra" (e anche
l'Italia lo ha fatto nella Costituzione).
Ginatempo analizza le fasi dalla caduta del muro nel 1989, alla fine del
bipolarismo e all'affermarsi dell'unilateralismo della superpotenza
americana che ha fatto della guerra lo "strumento di dominio". Alla quale si
contrappone il movimento contro la guerra: "no alla guerra senza se e senza
ma", quindi a tutte le guerre. "E' nato qualcosa di nuovo. E' difficile
riconoscerlo per chi ne sta fuori. Ma e' facile riconoscerlo per chi lo
sognava da piu' di vent'anni...  Ma io sento che si realizza un sogno: lo
sviluppo tumultuoso di un soggetto rivoluzionario mondiale", scriveva
Ginatempo nel novembre del 2002 al Forum sociale di Firenze.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 888 del 3 aprile 2005

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