La nonviolenza e' in cammino. 885



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 885 del 31 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Rosalie Gerut, Wilma Busse, Martina Emme, Tim Blunk: L'esperienza di "One
by One" (parte seconda e conclusiva)
2. Domenico Gallo: La Costituzione e l'antifascismo
3. Patrizia Pasini: Rompere le barriere, stracciare i veli
4. Federica Sossi presenta "Come una rana d'inverno" di Daniela Padoan
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. ESPERIENZE. ROSALIE GERUT, WILMA BUSSE, MARTINA EMME, TIM BLUNK:
L'ESPERIENZA DI "ONE BY ONE" (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Ringraziamo di cuore Carla Cohn (per contatti: carlacohn at tele2.it) per
averci inviato l'introduzione del catalogo "One by One - Mostra di opere di
artisti figli di sopravvissuti all'Olocausto e di discendenti del Terzo
Reich", mostra tenutasi a Roma presso la Casa delle Letterature nel 2001, a
cura di Roberto Mander (che parimenti ringraziamo per la cortesia di averci
consentito questa ripubblicazione) della "Rete di Indra", Peacemaker
Community-Italia (per richiedere copie del catalogo della mostra scrivere a:
La Rete di Indra, viale Gorizia 25/c, 00198 Roma)]

I partecipanti: i discendenti degli aguzzini, dei testimoni e degli
spettatori
Tra i discendenti dei sostenitori del regime nazista le storie di famiglia
sono molto varie: si va da chi ha girato la testa dall'altra parte, al
soldato ubbidiente "che ha semplicemente eseguito gli ordini", fino a coloro
che volontariamente hanno preso parte al genocidio. I partecipanti al gruppo
di dialogo certamente non sono rappresentativi dell'intera societa' tedesca.
Tra loro molti hanno gia' partecipato alle iniziative pubbliche di "One by
One" a Berlino insieme ad altri tedeschi, per discutere delle loro storie
prima di incontrare gli esponenti dell'altra parte. Come prima cosa molti
hanno rotto con le famiglie nel momento in cui si sono uniti al gruppo di
dialogo, mentre altri erano gia' impegnati nei movimenti per la pace. Altri
ancora sono artisti, scrittori o psicoterapeuti. Vengono tutti
volontariamente ai gruppi di dialogo con la motivazione di voler iniziare a
cambiare se stessi e la societa'. Per i tedeschi non ebrei gli ostacoli da
superare sono gli stessi.
Sebbene nel gruppo ci siano discendenti di ufficiali della Wehrmacht
(l'esercito regolare tedesco) e delle SS, molti non sanno i particolari di
cio' che i loro genitori o parenti hanno fatto. In Germania vige un tabu'
sociale nei confronti della domanda: "Che cosa hai fatto durante la
guerra?". Tra loro molti hanno solo una vaga conoscenza dell'Olocausto,
astratta e intellettuale. La conoscenza della verita' e' impedita da quello
che puo' essere descritto come un duplice muro: chi ha preso parte ai
crimini non vuole rivelare la sua partecipazione e i suoi conflitti
interiori ai figli, e i figli, dal canto loro, non vogliono sapere.
Custodire il silenzio fa si' che si generino sensi di colpa, anche se spesso
e' una colpa generalizzata all'intera societa' tedesca, con l'effetto di
alleviare la responsabilita' individuale dei componenti della famiglia. Con
il passare del tempo questo senso di colpa porta a una soggettivita'
paralizzante e autocentrata. Nei gruppi di dialogo poi costituisce un chiaro
ostacolo all'ascolto del dolore dei discendenti dei sopravvissuti. Se fino a
quel momento i discendenti degli aguzzini e degli spettatori hanno
considerato l'Olocausto solo astrattamente, come l'uccisione di innumerevoli
innocenti, ora si trovano davanti al dolore e al senso di perdita di chi
siede li', di fronte a loro. Per i partecipanti di parte tedesca questa
semplice realta' e' al cuore del processo trasformativo.
"Questo e' proprio cio' che la cultura tedesca del dopo guerra non ha
insegnato ai discendenti del Terzo Reich: guardare negli occhi degli ebrei,
incontrarli come esseri umani. E' piu' facile piangere per la loro morte che
incontrare un discendente di un sopravvissuto che ci fa ricordare che
l'Olocausto e' ancora vivo nell'animo delle persone. Guardarsi
reciprocamente negli occhi puo' costituire l'inizio di un vero dialogo:
'Sono riuscito alla fine a guardarli negli occhi'. Questo vuol dire essere
in grado di sopportare di vedersi riflessi negli occhi dell'altro, di
accettarne lo sguardo scrutatore. Evitare il contatto e' un tentativo di
evitare le loro domande, la loro rabbia, le loro accuse, il loro dolore,
perche' tutto cio' potrebbe condurmi a interrogarmi sulla colpa della mia
gente, cosa che invece non voglio fare. Stabilire il contatto vuol dire:
'Guardare in faccia il fascismo', piuttosto che venir trascinati in sensi di
colpa e di vergogna. Uscire dalla nostra soggettivita' vuol dire iniziare a
comprendere cio' che l'Olocausto vuol dire per gli altri. Secondo me, lo
scopo principale per i discendenti dei complici del nazismo e' questo:
riuscire ad andare oltre i sentimenti di colpa, in direzione di un vero
dialogo, attraverso il quale venire incoraggiati a partecipare a iniziative
sociali contro il pregiudizio, l'antisemitismo e il razzismo. C'e' speranza
in questo percorso dove i discendenti dei nazisti - di coloro che hanno
compromesso per sempre il concetto di cultura civilizzata - sono alla
ricerca di modi per ristabilire una cultura di dialogo, basata sulla verita'
e l'integrita" (Martina Emme, co-fondatrice e facilitatrice dei gruppi di
dialogo).
Focalizzare il dialogo sulle storie individuali rende possibile ai
partecipanti tedeschi separare la colpa collettiva di tutta la nazione dalla
colpa della loro famiglia per le azioni commesse da qualche suo membro, di
riconoscere la propria colpa di connivenza con il silenzio e, infine, di
assumere un maggiore senso di responsabilita' per le proprie azioni e
comportamenti presenti. Per molti il dialogo segna un punto di svolta
poiche' ora si e' in grado di ottenere dai familiari piu' risposte, di
collegare l'Olocausto alle proprie vite e, allo stesso tempo, di "guardare
negli occhi i figli dei sopravvissuti".
*
I partecipanti: i discendenti dei sopravvissuti
I discendenti dei sopravvissuti sono soprattutto ebrei, anche se ci sono
alcuni cristiani e altri che hanno avuto i genitori o i parenti prigionieri
nei campi di concentramento perche' oppositori del nazismo o perche'
militari che avevano combattuto contro la Germania nazista o anche perche'
intellettuali che erano stati perseguitati o deportati costretti al lavoro
schiavistico.
Anche le esperienze avute dai genitori di parte ebraica durante gli anni
della guerra variano enormemente. Molti vennero strappati dalle loro case,
mentre altri, invece, furono dei "bambini nascosti", che vennero accolti e
protetti da famiglie cristiane per tutta la durata della guerra. Ci fu anche
chi combatte' nella resistenza, chi si nascose e chi venne rinchiuso nei
ghetti o nei campi di concentramento o di lavoro.
Molti meccanismi e comportamenti per riuscire a sopravvivere, verrebbero ora
diagnosticati come sindromi da stress post-traumatico.
I partecipanti al gruppo raccontano di come i loro familiari sopravvissuti,
anche a distanza di molti anni dalla guerra, ancora trasalissero sentendo
bussare alla porta o di come credessero di non essere in grado di proteggere
in modo adeguato i propri figli da un mondo ritenuto insicuro.
Alcuni sopravvissuti si rifiutano di parlare delle loro esperienze, mentre
altri parlano incessantemente delle sofferenze patite e della sorte toccata
ai loro parenti. Il messaggio che spesso viene trasmesso in modo del tutto
inconsapevole ai propri figli e' che i loro momenti di sofferenza nella vita
di tutti i giorni non sono nulla se paragonati con quanto passato dai
genitori. Molti comprensibilmente soffrono di depressione o di
incontrollabili scoppi di ira di cui i figli spesso sono il bersaglio.
Alcuni figli hanno imparato a sopprimere i propri bisogni, mentre altri
hanno cercato meglio che potevano di trovare dei legami di amore con i
genitori che spesso vivono un inconsolabile senso di lutto. E a volte ai
figli viene lasciato in eredita' anche il senso di colpa e vergogna per
essere sopravvissuti: "Avrei dovuto fare di piu'", "Perche' io sono vivo
mentre la mia famiglia e' stata uccisa?".
"Siamo cresciuti come orfani mentre i nostri genitori erano ancora vivi.
Abbiamo protetto i nostri genitori dal loro dolore mentre non avevamo
nessuno che proteggesse noi" (Mary Rothschild, di "One by One").
Con questo non vogliamo dire che tutti gli ambiti familiari dei
sopravvissuti siano uguali. Insieme al dolore e al senso di perdita, c'e'
anche un forte desiderio di sopravvivere, di avere figli e una vita piena e
allegra, nonostante gli orrori della storia.
Per i sopravvissuti vivere e' stato un trionfo e la vita andava apprezzata
in quei paesi dove la liberta' era garantita. Essi sentirono anche che
Israele era nata dai loro lutti e sofferenze e che, forse, ora gli ebrei non
avrebbero piu' avuto bisogno di errare, non sarebbero piu' stati vittime di
pogrom, di massacri e dell'antisemitismo.
Ci piace dichiarare che riconosciamo la loro forza e il loro trionfo e
rendiamo qui loro omaggio.
Per i discendenti dei sopravvissuti c'e' una conoscenza ereditata e intima
dell'Olocausto che e' difficile da spiegare o da comprendere. I bambini sono
diventati adulti assumendo su di se' l'eredita' emotiva dei loro genitori
sopravvissuti. Alcuni sentono di avere diritti limitati rispetto alle
proprie emozioni; i tanti che sono stati il bersaglio della rabbia dei
genitori hanno imparato a interiorizzarla. Essi continuano a sentire il
desiderio di liberarsi da questi pesi emotivi.
Non e' una coincidenza, crediamo, che molti membri di "One by One" di
entrambe le parti siano diventati artisiti, musicisti o scrittori. L'arte
viene impiegata per esplorare l'eredita' emotiva e neutralizzare quelle vene
dell'inconscio che altrimenti avrebbero il pieno controllo sulla loro vita.
Sono queste le aree che vengono esplorate nei gruppi di dialogo e che
offrono l'occasione per misurarci con emozioni molto forti, facendoci
oscillare tra sentimenti di rabbia per le azioni compiute contro i nostri
familiari e, a volte, l'empatia per quei bambini che hanno sofferto abusi da
parte dei loro stessi genitori nazisti.
Alcuni lottano con le voci interne dei loro familiari assassinati che
mettono in dubbio la validita' del percorso che stanno percorrendo. Oppure
sentono le vere e proprie voci dei sopravvissuti che non comprendono perche'
i loro figli stiano facendo una simile cosa. I sopravvissuti sentono che i
danni sofferti e la negazione di cio' che e' successo sono cosi' vasti che
la sola vendetta consista nel non avere nulla a che fare con qualsiasi cosa
che sia connessa con la Germania.
La seconda e terza generazione si trovano di fronte al dilemma morale se
possano ritenere i figli dei nazisti responsabili per le azioni - o le non
azioni - compiute dai loro genitori. Pur con tutta la gamma di reazioni
possibili, i figli dei sopravvissuti parlano dell'Olocausto come di un
pesante fardello che hanno dovuto portare per tutta la vita; molti
descrivono il dialogo come qualcosa che "ha alleggerito il fardello".
*
Incontro sul ponte
"Pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa le vittime
dai persecutori... quello spazio... e' costellato di figure... che e'
indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana" (Primo Levi,
I sommersi e i salvati).
"La sofferenza cessa di essere sofferenza nel momento in cui trova un
significato" (Viktor Frankl).
Le interazioni che si svolgono sul "ponte" sono il cuore di cio' che siamo e
la storia di "One by One" sta proprio qui, nel racconto di questi incontri.
Perche' e' questo il luogo del "noi essenziale" di Martin Buber: dove i
figli dei sopravvissuti finalmente vengono ascoltati e dove loro stessi
ascoltano le profonde scuse che hanno atteso di sentire per tutta la vita.
In questo luogo sul ponte, i discendenti dei persecutori sono in grado di
alzare il velo sulla colpa e la vergogna colletiva e sulla soggettivita' che
paralizza, assumendosi la loro responsabilita'. La vergogna, attraverso
l'azione, inizia a trasformarsi in integrita'. Insieme, le due parti vivono
un senso di reciprocita' e possono iniziare a creare un significato della
loro sofferenza.
Primo Levi ha coniato l'espressione "zona grigia" per descrivere lo spazio
che separa le vittime dai loro aguzzini. Di solito si pensa a una linea, a
un confine chiaro tra le vittime da una parte e gli aguzzini dall'altra.
Primo Levi, invece, esplora proprio lo spazio intermedio. Non gli interessa
perpetuare lo schema bianco e nero; secondo lui la verita' sta proprio nella
zona grigia.
"Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che e'
ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere" (Primo Levi, "Lettere ai
tedeschi", ne I sommersi e i salvati).
Non vuole riprodurre gli atteggiamenti mentali dei suoi nemici, anche se si
tratta di comportamenti collettivi. I nostri dialoghi sono proprio delle
esplorazioni nella zona grigia di cui parla Primo Levi.
*
"Una delle cose che mi spinse a partecipare al gruppo fu la volonta' dei
partecipanti di riconoscere apertamente le vittime anche di quello che
George Lukas ha chiamato 'l'Olocausto dimenticato'. Almeno altri cinque o
sei milioni di persone sono state uccise dal regime nazista e molti erano
polacchi non ebrei come mia madre. Nella mia vita ero arrivata a un punto in
cui volevo riuscire a elaborare la sua eredita' e cosi' iniziai a cercare
delle persone da incontrare che avessero avuto una storia simile alla mia.
Mi venne consigliato di mettermi in contatto con delle organizzazioni
ebraiche che organizzavano dei gruppi per i figli dei sopravvissuti. Ma la
mia presenza non era gradita in quel tipo di gruppi per timore che avrei
potuto suscitare ansieta' negli altri partecipanti che avrebbero potuto
vedermi come una rappresentante dell'altra parte, anche se questo non era
proprio il mio caso. Scoprii che non c'era nessun altro gruppo a cui avrei
potuto partecipare che facesse cio' che adesso sta facendo 'One by One' e ci
oe' il dialogo con l'altra parte ma anche con i figli di altri
sopravvissuti, di qualsiasi altra fede od origine. Mi era chiaro che venivo
proprio dalla zona grigia a cui si era riferito Primo Levi. Molti polacchi
infatti sostennero i nazisti contro gli ebrei mentre molti altri furono
vittime anch'essi dei nazisti. Solo nel corso degli anni fui capace di
integrare questa realta'. Negli interventi che faccio in pubblico, ricordo
sempre che se anche gli effetti dell'Olocausto ricadono soprattutto sugli
ebrei sopravvissuti e i loro figli, il regime nazista non di meno e' stato
devastante anche per molti altri. Mia madre mi ha spesso ricordato che gli
ebrei hanno sofferto maggiormente, ma da parte mia c'e' l'esigenza di
spingermi oltre e di riconoscere in me stessa che - come scrisse Frankl -
'la sofferenza e' relativa'. Ho scoperto che sminuire l'esperienza di
qualcuno, confrontandola o misurandola su una scala delle sofferenze, e'
un'operazione limitante e anche dannosa. Se si resta intrappolati nella rete
di una presunta gerarchia di sofferenze, aumenta proprio la divisione
'noi-loro' che 'One by One' cerca invece di superare. La discussione su chi
sia stato peggio non e' certo il punto essenziale che l'Olocausto deve
insegnarci" (Wilma Busse, cofondatrice di "One by One" e facilitatrice nei
gruppi di dialogo).
*
Nel processo del gruppo di dialogo, il concetto di "zona grigia" coinvolge
sia la relazione tra le due parti sia il lavoro nell'individuo stesso. Per
il figlio di un persecutore e' difficile riconciliare il fatto di aver avuto
un genitore affettuoso e poi venire a sapere i crimini di guerra di cui si
e' reso responsabile. Nel processo di guarigione un punto critico sta
proprio nel capire che quel genitore era sia buono che cattivo. I figli di
questa parte fanno i conti con la domanda: "Chi sono questi individui a cui
appartengo?". Per rispondere in modo adeguato e' importante riconoscere il
bene nei propri familiari e al tempo stesso condannare il male che hanno
fatto.
I figli dei sopravvissuti, pur riconoscendo l'innocenza, il dolore, il
coraggio dei loro familiari, imparano anche a riconoscere il tradimento,
l'abbandono, la trascuratezza, l'iperattivita' o l'abuso la' dove c'e'
stato. E iniziano anche a vedere che ci sono stati dei tedeschi che hanno
cercato di aiutare.
"Due anni dopo il nostro primo incontro, feci parlare al telefono mia madre
con Gertrud Kauderer, una figlia di parte tedesca. Dopo ore di accesa
discussione e un successivo incontro, mia madre senti' il bisogno di
raccontarmi l'episodio di un tedesco che tento' di salvarle la vita.
Affamate e senza sapere che cosa fare, insieme alla sola sorella
sopravvissuta, stava per lasciare il ghetto di Lodz su un treno diretto,
senza che lei lo sapesse, ad Auschwitz. Un ufficiale tedesco le vide e disse
loro di tornare subito a casa. Solo in seguito mia madre capi' che
quell'uomo aveva cercato di salvargli la vita. Sfortunatamente un kapo' le
rigetto' dentro il treno e il tedesco non pote' fare nulla per
impedirglielo" (Rosalie Gerut).
"Piu' di un ebreo si salvo' grazie all'aiuto di un buon tedesco" (Cantor
Gregor Shelkan, sopravvissuto).
*
Quando i partecipanti iniziano ad attraversare l'abisso, le interazioni tra
i gruppi sembrano evolversi verso una modalita' di maggiore interdipendenza.
Il primo passo nei gruppi di dialogo e' sempre stato fatto dai figli dei
sopravvissuti: sembra che i partecipanti dell'altra parte prima di poter
parlare debbano ascoltare e rispondere alle storie narrate dai figli delle
vittime.
A sua volta questo sembra incoraggiare i figli dei sopravvissuti ad
ascoltare le storie della loro controparte ed e' il loro desiderio di
conoscere la verita' che genera rispetto nei figli dei sopravvissuti.
L'interesse che provano nell'ascoltare le storie della parte tedesca rende
piu' profonda la comunicazione.
La dicotomia vittima-aguzzino diventa meno accentuata man mano che gli
individui sono capaci di ascoltare con maggiore compassione e comprensione e
andare avanti. Le due parti del dialogo afferrano le somiglianze tra loro
appena scoperte cosi' come le fondamentali differenze che ci sono nelle loro
vite. Ogni storia narrata nel gruppo di dialogo costituisce un passo lungo
il ponte che supera l'abisso dell'Olocausto.
"Al termine del nostro primo incontro di lavoro a Gloucester, in
Massachusetts, i fondatori di 'One by One' decisero di cenare insieme in un
ristorante la' vicino. C'erano Otto Duscheleit, Martina Emme, Gertrud
Kauderer e Suzanne Scheker. Oltre ai membri di 'One by One', vennero anche
alcuni nostri genitori sopravvissuti tra cui mia madre, i genitori di
Deborah Shelkan-Remis e la madre di Andy Shapiro. Davanti allo stupore di
Martina, mia madre canto' alcune vecchie canzoni tedesche della prima guerra
mondiale e io cantai con lei lungo tutto il tragitto fino al ristorante.
Quando passammo a prendere i signori Shelkan, tutto il gruppo prosegui'
cantando insieme. Mia madre stava per incontrare Gertrud, la donna che con
pazienza aveva ascoltato tutta la sua rabbia parlandole al telefono durante
gli ultimi due anni. Gertrud la stava aspettando fuori dal ristorante, con
in mano un mazzolino di fiori. Mia madre si commosse e resto' stupita di
quanto Gertrud assomigliasse a una delle sue migliori amiche scomparsa
recentemente. Cantor Shelkan aveva portato con se' la giacca che aveva
indossato in campo di concentramento e che nel corso degli anni aveva
continuato a indossare ogni qualvolta aveva preso parte a delle cerimonie
commemorative in cui cantava le preghiere per le vittime. Voleva mostrarla
ai tedeschi, e raccontare un po' della sua storia. Mia madre si mise a
sedere accanto a Otto, che da parte sua si comportava da vero gentiluomo.
Noi, i 'ragazzini', ci sentivamo come se ci trovassimo a un pranzo
assolutamente normale in cui venivamo ignorati dagli 'adulti'. Ci trovavamo
nel mezzo di un gruppo di europei che stavano condividendo tra loro tanta
parte della stessa cultura e che, per un po', avevano messo da parte
l'Olocausto" (Rosalie Gerut).
*
Espiazione e trasformazione invece di perdono e riconciliazione
"Mi riferisco a un ottimismo tragico, ossia all'ottimismo davanti alla
tragedia, capace di guardare alla potenzialita' dell'uomo che al suo meglio
permette sempre di: 1) trasformare la sofferenza in una conquista umana e in
un completamento. 2) Far nascere dal senso di colpa l'opportunita' di
cambiare se stessi verso il meglio. 3) Far nascere dalla transitorieta'
della vita un incentivo per agire responsabilmente" (Viktor Frankl).
Non dimenticheremo mai che cosa accadde durante l'Olocausto. La Shoah non
deve essere relegata dalla storia come una delle tante e aberranti atrocita'
che, essendo ormai stata esaminata a sufficienza, possa essere messa da
parte.
Cio' non solo sarebbe impossibile, ma anche immorale perche', come abbiamo
visto, le conseguenze dell'Olocausto hanno ancora un effetto sulle vite
delle generazioni successive.
Solo attraverso le nostre migliori risorse intellettuali e spirituali
possiamo far maturare le lezioni di questo cosi' come di tutti gli altri
genocidi. Cerchiamo di aggiungere i risultati dei nostri gruppi di dialogo
al patrimonio di conoscenza collettiva sulla capacita' umana di compiere sia
le azioni piu' orribili che gli atti piu' eroici di altruismo. Siamo
convinti che gli esseri umani debbano impegnarsi in un autoesame profondo e
mantenere desta l'attenzione perche' abbiamo visto che nessuno e' immune
alle spinte sociali che conducono al razzismo e alla violenza.
Spesso ci viene chiesto se perdoniamo gli aguzzini.
Non e' che ci opponiamo all'idea di perdono, abbiamo pero' scelto di non
usare questa parola per descrivere il nostro scopo perche' si tratta di un
vocabolo che puo' assumere connotazioni molto diverse tra persone di fedi
diverse e facilmente si finisce per fraintenderlo.
Gli ebrei figli di sopravvissuti hanno un concetto del perdono che in parte
prescrive una interazione dinamica tra aguzzino e vittima. La maggior parte
di noi pero' e' di seconda o terza generazione: non sta a noi perdonare gli
orrori commessi contro i nostri familiari. Capiamo che il perdono puo'
seguire solo un processo di contemplazione, comprensione ed espiazione. E'
qualcosa che riguarda ciascun individuo individualmente e il suo sistema di
credenze.
"In generale, sentiamo che non e' in nostro potere perdonare per conto dei
nostri genitori. Ma singolarmente ciascuno, soprattutto chi e' di fede
cristiana e considera il perdono come parte indispensabile del processo di
guarigione, puo' percorrere il cammino del perdono per ottenere pace nella
propria vita. Il concetto di perdono comunque non vuol dire scusare o
dimenticare, quanto piuttosto comprendere il nemico e andare oltre la morsa
della vendetta e della chiusura mentale" (Wilma Busse).
Uno dei concetti ebraici di perdono (selicha, un atto del cuore) va in
direzione di una comprensione piu' profonda, fino a raggiungere un'empatia
per il tormento dell'altro. Non si tratta di riconciliazione o di
abbracciare gli aguzzini, ma e' una forma di perdono o compassione che
sentiamo ascoltando le storie dei loro figli.
In "One by One" evitiamo anche la parola riconciliazione che implica una
responsabilita' reciproca nell'aver determinato le condizioni che hanno poi
separato le persone, cosi' come il desiderio di tornare al precedente stato
di armonia che per qualche motivo e' stato rotto.
E' evidente che la responsabilita' dell'Olocausto non e' reciproca, ne'
tantomeno auspichiamo un ritorno alla Germania prenazista con tutte i suoi
focolai di infezione ultranazionalisti e antisemiti. L'Olocausto non puo'
essere riconciliato. Usiamo piuttosto il termine trasformazione per rendere
l'idea di un passare attraverso, fino a superare l'eredita' dell'Olocausto,
e quindi cambiare noi stessi e gli altri.
Insieme, con l'aiuto dei piu' alti principi morali delle nostre rispettive
fedi, possiamo trasformare l'eredita' che abbiamo ricevuto, fatta di
oscurita' e brutalita', in atti di umanita', compassione, giustizia e
impegno sociale. Tutti vediamo la possibilita' - e ne sentiamo la
necessita' - di passare attraverso un processo personale di trasformazione
interiore e di assumerci la responsabilita' di noi stessi e della societa'.
Secondo molti partecipanti il processo di guarigione inizia solamente
all'interno del setting vero e proprio del gruppo di dialogo. L'elaborazione
e integrazione di quanto emerso nel corso del dialogo avviene in seguito,
nel continuare a scriversi e a vedersi tra partecipanti di entrambe le
parti, incontrandosi di nuovo in gruppi di secondo livello, intervenendo in
pubblico oppure nella creazione artistica, proprio a partire dall'esperienza
vissuta.
Per i figli dei sopravvissuti il dialogo assume un vero significato quando
vedono i figli dell'altra parte iniziare a cercare la verita' sulla storia
della loro famiglia, quando li vedono impegnarsi in attivita' antinaziste e
antirazziste e insegnare e portare testimonianza alla verita'
dell'Olocausto.
Nel concetto ebraico di espiazione, l'autenticita' nel chiedere scusa - o di
ogni vera crescita e sviluppo - si misura dal grado con cui chi ha commesso
il torto si assume la responsabilita' per le sue azioni nel mondo.
L'espiazione puo' attuarsi con la restituzione per i danni commessi, il
sincero pentimento (ossia il cambiamento di attitudine a livello profondo) e
con azioni che rispecchino le parole di scusa che sono state pronunciate. Il
pentimento deve sempre essere accompagnato da un cambiamento di condotta ed
e' questa la precondizione per accettare le scuse. Non si tratta solo di
accontentare o dare soddisfazione alla parte lesa.
L'espiazione implica che entrambe le parti, e lo stesso equilibrio del
mondo, siano stati colpiti dall'azione malvagia e allora solo attraverso
un'azione correttiva, fatta coscientemente, le due persone possono guarire e
l'equilibrio ristabilirsi.
*
Oltre il dialogo: tikkun olam
Al termine di un gruppo di dialogo, Clemens Kalisher, anch'egli un
sopravvissuto, espresse la sua speranza sull'effetto a onde concentriche che
i nostri incontri potrebbero avere nel mondo. Osservo' che cio' che stiamo
facendo e' contenuto nel concetto ebraico di tikkun olam, ossia di riparare
il mondo.
Si tratta di un'interpretazione contemporanea della tradizione mistica
ebraica che viene usata per indicare la necessita' di compiere azioni che
rendano il mondo migliore, piu' giusto e piu' umano. Comprende molti tipi di
azione come nutrire chi ha fame, accogliere i profughi, proteggere
l'ambiente e cercare la pace tra le nazioni.
"One by One" inizia con la guarigione del proprio se', ma essa si compie
realmente solo quando la persona partecipa alla guarigione anche degli altri
nel gruppo, nelle propria comunita' e nel mondo. Uno per volta cerchiamo di
riparare il mondo, cosi' come ripariamo noi stessi. Tra i partecipanti ai
gruppi di dialogo c'e' stato chi e' andato poi a unirsi ai componenti dello
Speakers Bureau di "One by One" partecipando a incontri pubblici in scuole,
universita', chiese o sinagoghe, negli Stati Uniti, in Germania o anche in
altri paesi.
Martina Emme, una delle cofondatrici di "One by One", ha messo a
disposizione la sua esperienza di facilitatrice nei gruppi di dialogo per
organizzarne di simili per le donne che sono fuggite dal conflitto in Bosnia
e Kosovo.
Nell'ottobre del 2000 alcuni membri di "One by One" sono stati invitati in
Bosnia per parlare della loro esperienza.
L'artista yugoslava Milena Pribis ha lavorato come arte-terapeuta con
bambini in Bosnia. Rosalie Gerut e Nancy Asbedian hanno preso parte come
facilitatrici a un gruppo composto da discendenti di sopravvissuti al
genocidio degli armeni compiuto dai turchi. Rosalie prosegue il suo impegno
continuando la discussione con nativi americani, sopravvissuti ai "campi
della morte in Cambogia" e indigeni del Sud America sui modi con i quali
"One by One" potrebbe lavorare anche con altre realta' che hanno sofferto
persecuzioni, guerre o genocidi.
Sabina Gibson ha proposto alle Nazioni Unite di indire una "Giornata
mondiale dell'espiazione", la richiesta e' stata accolta e attualmente se ne
stanno studiando le modalita' di attuazione.
I membri tedeschi hanno pubblicamente protestato contro il taglio di fondi
all'Ezra (l'organizzazione dei sopravvissuti in Germania). Sono anche
intervenuti in varie occasioni contro l'antisemitismo e le aggressioni
razziste; hanno donato fondi per aiutare alcuni sopravvissuti in Lituania in
stato di bisogno e hanno aiutato i profughi bosniaci. Protestano contro la
chiusura degli archivi tedeschi sulla seconda guerra mondiale che contengono
i fascicoli sui criminali di guerra nazisti. Informano i mezzi di
informazione portando testimonianza sugli effetti dell'Olocausto e
l'eredita' di silenzio che ha lasciato in Germania.
Gli artisti che hanno partecipato ai gruppi di dialogo di "One by One"
espongono le loro opere nate da quell'esperienza in mostre collettive come
questa di Roma.
Dai quindici membri iniziali nel 1995, "One by One" oggi ne comprende oltre
trecento, con uffici negli Stati Uniti e in Germania.
Nuovi gruppi di dialogo si svolgono ogni anno, a cui fanno seguito varie
riunioni e, almeno due volte l'anno, altri gruppi per approfondire il lavoro
di esplorazione e il processo di guarigione.
La nostra speranza piu' grande e' che la nostra organizzazione e
l'esperienza del gruppo di dialogo possano diventare un modello anche per
altri gruppi che rappresentano le due parti opposte di un conflitto sociale.
Sia i discendenti del regime nazista che dei sopravvissuti all'Olocausto
hanno subito critiche da entrambe le parti per il loro lavoro.
Ma c'e' stato anche chi ha detto che non c'e' nulla di paragonabile al
lavoro che abbiamo iniziato e al suo saper guardare avanti, e che poiche' la
Germania ha ancora bisogno di uscire dall'atteggiamento di negazione, solo
da gente come noi puo' venire lo stimolo giusto.
Da parte nostra crediamo che non ci possa essere modo migliore di portare
testimonianza sull'Olocausto che dire, i figli dei sopravvissuti e degli
aguzzini insieme: si', l'Olocausto c'e' stato. Sentiamo l'obbligo di
imparare e insegnarne le lezioni, e di aggiungere la nostra voce a quella
dei sopravvissuti che sono ancora con noi e di parlare per coloro che non
possono piu' farlo.
"Dobbiamo, se vogliamo chiamarci esseri umani, affrontare la miriade di
lezioni che l'Olocausto ci esorta a imparare... Forse, proprio noi, i figli
di entrambe le parti, siamo gli allievi e gli insegnanti che hanno la
responsabilita' di trasformare noi stessi e il mondo, uno alla volta"
(Rosalie Gerut).
Vi invitiamo a sperare e ad unirvi a noi in spirito e azione, nel tentativo
di portare, a un mondo che ne ha disperatamente bisogno, la forza della
guarigione e della trasformazione.
(Parte seconda. Fine)

2. RIFLESSIONE. DOMENICO GALLO: LA COSTITUZIONE E L'ANTIFASCISMO
[Dal sito www.domenicogallo.it riprendiamo questo articolo apparso su "La
rinascita della sinistra" del 21 gennaio 2005. Domenico Gallo, illustre
giurista, e' nato ad Avellino nel 1952, magistrato ed acuto saggista; tra i
suoi scritti segnaliamo particolarmente: Dal dovere di obbedienza al diritto
di resistenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1985;
Millenovecentonovantacinque, Edizioni Associate, Roma 1999]

Interrogandosi sulla radice profonda della Costituzione, uno dei padri
costituenti, Giuseppe Dossetti, metteva in luce la rilevanza dell'evento
globale che l'aveva inspirata: "In realta' la Costituzione italiana e' nata
ed e' stata ispirata da un grande fatto globale, cioe' i sei anni della
seconda guerra mondiale... Anche il piu' sprovveduto o il piu' ideologizzato
dei costituenti non poteva non sentire alle sue spalle l'evento globale
della guerra teste' finita. Non poteva, anche che lo avesse cercato di
proposito, in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i
mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei
costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l'affermarsi del
marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novita' in campo
religioso, la necessita' impellente della ricostruzione economica e sociale
all'interno e tra le nazioni, l'urgere di una nuova solidarieta' e
l'aspirazione al bando della guerra. Quindi l'acuirsi delle ideologie appena
ritrovate e l'asprezza dei contrasti politici fra i partiti appena rinati,
lo stesso nuovo fervore religioso determinato dalla coscienza resistenziale
non potevano non inquadrarsi, in un certo modo, in vasti orizzonti, al di
la' di quello puramente paesano, e non poteva non inserirsi anche in una
nuova realta' storica globale a scala mondiale. Insomma, voglio dire che nel
1946 certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla
coscienza esperenziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle
concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente, delle
ideologie contrapposte e per non spingere, in qualche modo, tutti a cercare,
in fondo, al di la' di ogni interesse e strategia particolare, un consenso
comune, moderato ed equo. Percio' la Costituzione italiana del 1948, si puo'
ben dire nata da questo crogiolo ardente ed universale, piu' che dalle
stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo; piu' che dal
confronto/scontro di tre ideologie datate, essa porta l'impronta di uno
spirito universale e, in un certo modo, trans-temporale" (1).
*
Pur accettando la precisazione di Dossetti, che la Costituzione non e' il
semplice prodotto di una ideologia antifascista, coltivata in Italia da
limitate elites politiche, ma nasce dalle dure lezioni della storia, non si
puu' disconoscere che il presupposto politico della Costituzione italiana e'
rappresentato dall'antifascismo.
Su questo punto occorre essere chiari.
La Costituzione italiana e' una costituzione compiutamente antifascista, non
perche' e' stata scritta da antifascisti desiderosi di vendicarsi dei lutti
subiti; al contrario, per voltare definitivamente pagina rispetto alla
triste esperienza del fascismo e della guerra, i costituenti hanno sentito
il bisogno di rovesciare completamente le categorie che caratterizzano il
fascismo.
Come il fascismo era alimentato da spirito di fazione ed assumeva la
discriminazione come propria categoria fondante (sino all'estrema abiezione
delle leggi razziali), cosi' i costituenti hanno assunto l'eguaglianza e
l'universalita' dei diritti dell'uomo come fondamento dell'Ordinamento. Come
il fascismo aveva soppresso il pluralismo, perseguendo una concezione
totalitaria (monistica) del potere, cosi' i costituenti hanno concepito una
struttura istituzionale fondata sulla divisione, distribuzione,
articolazione e diffusione massima dei poteri.
Come il fascismo aveva aggredito le autonomie individuali e sociali, cosi' i
Costituenti, le hanno ripristinate, stabilendo un perimetro invalicabile di
liberta' individuali e di organizzazione sociale.
Come il fascismo aveva celebrato la politica di potenza, abbinata al
disprezzo del diritto internazionale ed alla convivenza con la guerra, cosi'
i costituenti hanno negato in radice la politica di potenza, riconoscendo la
supremazia del diritto internazionale e ripudiando le nozze antichissime con
l'istituzione della guerra.
*
L'antifascismo della Costituzione non sta nella XII disposizione transitoria
e finale, che vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista,
norma ispirata ad una contingenza storica, ma sta nei fondamenti e
nell'architettura del sistema.
Se i principi fondamentali sono antitetici rispetto a quelli proclamati o
praticati dal fascismo, e' l'architettura del sistema che fa la differenza
ed impedisce che, ove mai giungano al governo forze politiche caratterizzate
da cultura o aspirazioni antidemocratiche (come avviene nell'attuale
congiuntura politica), queste forze possano realizzare una trasformazione
autoritaria delle istituzioni, aggredendo il pluralismo istituzionale (per
esempio l'indipendenza della magistratura) o il sistema delle autonomie
individuali e collettive (liberta' di espressione del pensiero, liberta' di
associazione, diritto di sciopero, etc.).
La Costituzione, insomma, rende impossibile ogni forma di "dittatura della
maggioranza". Proprio per questo nell'ultimo decennio da un vasto arco di
forze politiche (non soltanto dalla maggioranza di centro-destra attualmente
al governo) la Costituzione e' stata vissuta come un impaccio, come una
serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l'onnipotenza
dei decisori politici.
*
Ridotta all'osso e' questa la questione centrale che anima il tentativo di
grande riforma della Costituzione che oggi e' sul tappeto. Non si tratta,
pertanto, di riforma, ma di sovversione.
In questo processo il primo passo e' rappresentato dalla delegittimazione
dell'antifascismo, presupposto politico della Costituzione italiana.
Dalla delegittimazione politica dell'antifascismo, attuata attraverso varie
forme simboliche, come il taglio dei fondi all'Anpi o la rilegittimazione
dei combattenti di Salo', si e' passati all'affondo definitivo, attraverso
la manomissione dei frutti dell'antifascismo consolidati nelle regole
costituzionali.
La riforma (compreso il suo accessorio costituito dalla riforma
dell'ordinamento giudiziario) colpisce al cuore l'ispirazione
antitotalitaria dell'antifascismo, ripristinando un'architettura monistica
del potere. Essa istituisce, con un Premier dotato di tutti i poteri
compreso quello di sciogliere a suo piacimento la Camera, un governo
personale, un re elettivo, estraneo ai principi del costituzionalismo
moderno, delegittima e disarma il Parlamento, spoglia delle sue
responsabilita' di garanzia il Presidente della Repubblica, e infirma le
funzioni degli altri organi dello Stato, a cominciare dalla Corte
Costituzionale.
Anche se in apparenza la riforma della Costituzione del Governo Berlusconi
non modifica il quadro dei diritti fondamentali e delle liberta', come
configurato nella prima parte della Costituzione, in realta', dopo la
riforma, tutti i diritti dei cittadini vengono degradati.
Infatti i diritti e le liberta' solennemente sanciti dalla prima parte della
Costituzione ricevono solidita' e saldezza con gli istituti attraverso i
quali e' stata organizzata la rappresentanza e sono stati distribuiti,
bilanciati e divisi i poteri. Spogliati di tali istituti, attraverso la
demolizione dell'architettura della parte seconda della Costituzione, i
diritti e le liberta' appassiscono, cessano di essere garantiti a tutti e
perdono il vincolo dell'inviolabilita'.
Se la riforma dovesse passare, l'ispirazione antifascista su cui si fonda la
Costituzione italiana sarebbe cancellata ed il suo patrimonio disperso per
sempre. Ma si puo' cancellare l'antifascismo?
*
Note
1. Don Giuseppe Dossetti, "I valori della Costituzione", in: Costituzione
italiana, istruzioni per l'uso, pp. 12-15.

3. RIFLESSIONE. PATRIZIA PASINI: ROMPERE LE BARRIERE, STRACCIARE I VELI
[Ringraziamo suor Patrizia Pasini (per contatti: pasinipatrizia at libero.it)
per questo intervento. Patrizia Pasini, della commissione giustizia e pace
delle missionarie della Consolata, e' da sempre impegnata in molte rilevanti
iniziative di pace, solidarieta', nonviolenza]

"Rompere le barriere, stracciare i veli" e' titolo, tema e contenuto di una
mostra di  pittura in questi giorni al Vittoriano di Roma.
Si potrebbe pensare ad una mostra d'arte come tante altre che in questi
giorni arricchiscono Roma. No, le artiste sono tutte donne, musulmane,
proveniente da diversi paesi. I colori, i materiali usati, gli sfondi, le
figure, i titoli dati ad alcune delle opere rivelano bellezza, armonia,
riflessioni, denuncie e speranze. E immergono noi, donne occidentali, in una
dimensione nuova e anche inaspettata.
Le tele trattano argomenti che racchiudono, esprimono, approfondiscono il
tema della  mostra: "Rompere le barriere, stracciare i veli", questo titolo
potrebbe portarci su aspettative sbagliate: infatti nella mostra non si
leggono vittimismi, rivendicazioni  sterili, polemiche esasperate di donne
islamiche sfruttate e messe da parte. Al contrario i colori, la luce, le
figure parlano di un cammino che, dalla profondita' dell'Islam, queste
artiste percorrono per parlare in modo critico ma costruttivo di  nuove mete
che guardano oltre, di rotture, si', ma per svelare valori che dall'interno
della societa' islamica si aprono ai diritti umani e alla dignita' umana.
Personalmente non mi e' parso di cogliere sterili polemiche, ma ho percepito
la  consapevolezza, certamente di una esclusione, ma anche di una ricerca
coraggiosa di spazi e territori propri che attraverso l'arte e la
femminilita' rompono con il passato e nello stesso tempo dentro il passato
trovano elementi di energia liberatoria.
Ho letto in questi lavori messaggi calati nel vissuto della situazione
femminile islamica tesa alla ricerca, da dentro l'islam e da dentro la sua
vita sociale, di riappropriarsi di strumenti e di spazi che conducono ad una
autentica presa di coscienza del potenziale femminile.
*
Mi sono fermata a lungo davanti ad ogni lavoro, mi sono lasciata
interpellare e  sfidare, ho lasciato che i miei pregiudizi si confondessero,
e si smarrissero, con la realta' davanti a me.
Mi sono lasciata prendere dalla tela di Lisa Fattah. Tela di grande
suggestione artistica, grande forza, grande armonia nei colori. Lo sfondo
intenso e bellissimo e' quello del deserto con le sue dune e colori solari.
In primo piano si ergono tre donne alte, forti, sicure, completamente
avvolte da veli blue. Esprimono uno stare dignitoso, solenne, fermo. Ogni
donna accompagna e sorregge il proprio volto, avvolto da veli, con movimenti
bellissimi delle mani e delle dita, quasi ad esprimere una femminilita'
velata ma creativamente presente. Sono donne velate ma esprimono forza,
serenita', consapevolezza e capacita' di rompere i veli e le barriere.
In un'altra tela di intensi e armoniosi colori, una  donna slanciata,
scalza, portata dal vento, cammina, senza toccare la sabbia, verso il
deserto. La tela esprime forza, sicurezza, speranza, determinazione e grande
fascino femminile.
Nelle tele non ho letto rabbia, ribellione, sottomissione o violenza. Ho
percepito la descrizione di una realta', di una presa di coscienza, di un
vento di liberazione che viene dal di dentro della femminilita' islamica.
*
Mi e sembrato di capire che queste artiste, diversissime per eta',
nazionalita', studi, condizioni sociali e pratica religiosa, vivono e si
muovono dentro una consapevolezza comune; cioe' che attraverso la loro arte,
la loro femminilita', saranno in grado, dall'interno del loro mondo, di far
scaturire idee e movimenti capaci di rompere  le barriere, stracciare i
veli.
L'arte ancora una volta e' universale e si fa maestra di bellezza, di
armonia, e racconta la realta', il sogno, l'utopia e anche la decisione di
rompere barriere e stracciare veli.
Il mio e' stato un viaggio, lento, silenzioso, arricchente, dentro il genio
femminile, la creativita' femminile che sa attingere da dentro di se' la
forza e le risorse per cambiare le cose, con modalita' realistiche ma
nonviolente, chiare ma non aggressive.
Viviamo in una societa' con grandi contrapposizioni, polemiche, paure,
persecuzioni. Spesso la politica, l'economia, le religioni sono usate e
strumentalizzate in modi    violenti per far vincere il piu' forte,
pretendendo di avere Dio e il benessere dalla propria parte.
Queste artiste islamiche ci rivelano, attraverso le loro tele, che la vera
rivoluzione, il vero cambiamento, si puo' ottenere scoprendo i grandi valori
umani racchiusi in ogni societa' e cultura; ci insegnano che e' dall'interno
di una societa' che bisogna comprendere e denunciare ingiustizie e
pregiudizi, e trovare le risorse per il cambiamento.
Lasciando il Vittoriano, ancora una volta mi sono detta che la riflessione,
l'analisi critica e costruttiva, il  dialogo, il riappropriarsi degli spazi
propri attraverso modalita' costruttive, propositive e nonviolente, sono
elementi che fanno parte del genio femminile, e questo a mio avviso e il
vero contributo che noi donne possiamo dare ad  una  politica, economia e
religiosita' piu' giuste, trasparenti, solidali.

4. LIBRI. FEDERICA SOSSI PRESENTA "COME UNA RANA D'INVERNO" DI DANIELA
PADOAN
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questa recensione del libro di Daniela Padoan, Come una rana
d'inverno, Bompiani, Milano 2004.
Federica Sossi e' docente di filosofia teoretica all'universita' di Bergamo.
Tra le sue opere: (a cura di), Pensiero al presente, Cronopio, Napoli 1999;
Autobiografie negate. Immigrati nei lager del presente, Manifestolibri, Roma
2002.
Daniela Padoan, giornalista e saggista femminista. Dalla bella rivista "Via
Dgana" riprendiamo la seguente scheda di presentazione: "Daniela Padoan
collabora con la televisione e la stampa, in particolare con "Il manifesto".
Nel pensiero della differenza ha trovato un tassello mancante, degli
elementi in piu' per la lettura di avvenimenti attuali e storici come la
vicenda delle Madres de la Plaza de Mayo ("la lotta politica forse piu'
radicale di questi decenni"), o la Shoah, che Daniela ha indagato, nel suo
ultimo libro, attraverso tre conversazioni con donne sopravvissute ad
Auschwitz (Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004)". Opere di
Daniela Padoan: Miti e leggende del mondo antico, Sansoni scuola, Firenze
1996; Miti e leggende dei popoli del mondo, Sansoni scuola, Firenze 1998; (a
cura di), Un'eredita' senza testamento, Quaderni di "Via Dogana", Milano
2001; (a cura di), Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti delle Madres
de Plaza de Mayo, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2003; Come una rana
d'inverno, Bompiani, Milano 2004]

"Lei non ci credera', ma non basta tutta la vita per raccontare Birkenau".
Non i racconti di tutta una vita, ma un dialogo a quattro, durato alcuni
mesi, iniziato il 20 gennaio 2002 e interrottosi il 10 novembre 2003 per
andare in stampa, e' la lettura che ci regala Come una rana d'inverno, e un
patto d'ascolto, tre donne che raccontano e una donna che di tanto in tanto
chiede, offrendo anche a noi, lettori, la possibilita' di provare a
stringere quel patto.
Daniela Padoan, nella postfazione, ci dice come e' nata l'idea di questo
libro e il suo farsi, insistendo su quel patto, sulla necessita' di una
relazione preliminare al racconto che si sviluppa nelle parole udite, e
avvertendoci, pure, che il filo da lei seguito per raccogliere quelle parole
e' a sua volta un filo di relazioni.
Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi, sono le tre donne che
raccontano, di Auschwitz, di Birkenau, di mesi trascorsi come rane
d'inverno, "vuoti gli occhi e freddo il grembo", secondo l'espressione del
loro comune interlocutore maschile, Primo Levi, evocato gia' dal titolo del
libro come la quinta persona che, indirettamente, partecipa al dialogo.
Arrivate in eta' e in periodi diversi, tutte e tre erano la', con negli
occhi il fumo del crematorio, e nelle loro parole su quei mesi e sul dopo,
grazie alla presenza di chi le ascolta e chiede, si rimandano l'una
all'altra, nelle parole dette e nel riverberare dell'esperienza.
Ne emerge una singolare testimonianza, dalla lettura della quale si intuisce
il bisogno della vita intera a cui fa cenno Goti Bauer, per raccontare la
solitudine, la testa rasata, la nudita', il corpo svuotato di ogni scintilla
divina, il viaggio, la selezione e gli affetti perduti gia' dalla prima
selezione, le proprie compagne e le kapo, gli stracci indossati, i piccoli
gesti, o solo sguardi di solidarieta', l'odore e il fumo del camino, sempre
la', dinanzi al volto, un'immagine che "rappresenta la totalita' delle
emozioni che si possono vivere, superata forse soltanto dalla paura che
possa toccare a te".
Una ripetuta oscillazione, tra il qui della voce che racconta e il ricordo.
Un'oscillazione, ancora, tra singolarita' e pluralita', e pure tra due forme
di pluralita': la pluralita' di tutti coloro che hanno vissuto
quell'esperienza e la pluralita' di tutte, perche' le tre testimoni che
narrano di Auschwitz e di se', del dopo e del loro silenzio o del loro
racconto nel dopo, del prima e della loro vita gia' interrotta nella sua
normalita' dalle leggi razziali del '38, sono tre donne.
E perche' il filo del dialogo che intreccia le loro risposte ritorna su
questa particolare pluralita'. "Senza dimenticare per un solo istante che
l'obiettivo dei nazisti era cancellare dal mondo gli ebrei, uomini o donne
che fossero, e che tutti, nell'inconcepibile orrore della persecuzione
nazista, seguirono lo stesso percorso di fame, tortura, sfruttamento e
morte, riflettere sulla peculiarita' delle sofferenze e delle sopraffazioni
patite dalle donne, cosi' come sul loro modo di opporre resistenza e rendere
testimonianza, puo' pero' servire ad allargare di un poco l'ambito della
riflessione".
Sempre nella postfazione, Daniela Padoan indica, infatti, alcuni vuoti o
dimenticanze della storiografia della Shoah, il fatto che le donne siano
rimaste "pressoche' invisibili" nei libri e nelle riflessioni degli storici,
e la limitazione o l'appiattimento delle differenze che la sovrapposizione
della presenza femminile a quella maschile comporta: "i testimoni, i
deportati, i sopravvissuti, quasi che la tensione all'universale pretendesse
il sacrificio di rendere neutro il corpo e il linguaggio. In questa
sovrapposizione, pero', si rischia di perdere una parte di dicibilita'
dell'esperienza di meta' degli esseri umani che hanno attraversato e sono
stati attraversati dalla Shoah".
Ed anche in questo caso, nella lettura dei racconti di risposta, siamo
rinviati a una o a piu' oscillazioni, di nuovo tra singolarita' e
pluralita', ma tra singolarita' e pluralita' declinate, questa volta, tutte
al femminile, che riflettono e ci permettono di riflettere tanto sulla
pluralita' quanto sulle singolarita' femminili di quell'esperienza e sulla
testimonianza che di essa ci e' stata lasciata.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 885 del 31 marzo 2005

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