La nonviolenza e' in cammino. 876



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 876 del 22 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Alfredo Galasso: Difendere la Costituzione, la legalita', la democrazia
2. Valeria Ando': Le donne tra violenza e nonviolenza: a proposito del
saggio di Anna Bravo
3. Marina D'Amelia: Il peso simbolico di questa contraddizione
4. Guido Piccoli: Gli amici della nonviolenza massacrati in Colombia
5. Giulio Vittorangeli: Dal punto di vista degli oppressi
6. Ileana Montini: La guerra e le elezioni
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ALFREDO GALASSO: DIFENDERE LA COSTITUZIONE, LA LEGALITA', LA
DEMOCRAZIA
[Ringraziamo Alfredo Galasso (per contatti:
galassoeassociati at studiolegalegalasso.it) per questo intervento. Alfredo
Galasso, nato a Palermo nel 1940, avvocato, docente universitario,
parlamentare, dal 1981 al 1986 membro del Consiglio Superiore della
Magistratura, rappresenta e difende i familiari delle vittime in diversi
processi, come il maxiprocesso contro la mafia, il processo per la strage di
Ustica, quello per l'incendio del Moby Prince; e' tra le figure di
riferimento della lotta contro la mafia, per la legalita' e la democrazia.
Opere di Alfredo Galasso: La mafia non esiste, Pironti, Napoli 1988; Trenta
anni di mafia, L'altritalia, Roma 1992; La mafia politica, Baldini &
Castoldi, Milano 1993]

L'editoriale di Raniero La Valle [pubblicato nel numero di ieri] e' da
condividere pienamente. Non solo. Occorre risvegliare i molti democratici,
sinceramente democratici, i quali non si sono ancora accorti della strategia
e della meta perseguite da questa funesta alleanza politica di centrodestra;
dico alleanza politica, perche' spero che gli elettori del Polo la pensino
diversamente. Il punto e' che l'informazione e' pressoche' nulla, e il
rischio grave consiste nel solito semplificante messaggio: chi difende la
Costituzione della Repubblica e' un (noioso) conservatore, retrogrado e
antimoderno; chi propone e vota la (contro)riforma e' un innovatore,
progressista e moderno. Dunque, bisogna al piu' presto avviare una campagna
di informazione partendo da un dato di fatto; tanti, troppi, soprattutto i
giovani non conoscono il testo costituzionale, la sua storia, l'insieme di
principi e di valori che ne fanno una delle piu' avanzate e moderne
Costituzioni democratiche.
L'allarme lanciato da Romano Prodi e ripreso da Raniero La Valle e' da
raccogliere, ma va tradotto in una serie articolata e organizzata di
iniziative che, questa volta si', davvero in modo genuinamente condiviso,
fra la gente, concorra a dare consapevolezza della questione e dei suoi
reali termini di riferimento. Il referendum non puo' ridursi a
un'alternativa si' o no al cambiamento della legge costituzionale, chi
andra' a votare deve conoscere, come scrive Raniero La Valle, che e' in
gioco la forma repubblicana nei suoi elementari fondamenti.
In epoca non sospetta, cioe' parecchi mesi fa, la Fondazione Caponnetto
unitamente a Libera ha promosso il progetto educativo "La Costituzione a
Scuola", un progetto che impegna docenti e studenti di ogni ordine e grado a
conoscere e a verificare i principi e i valori della Carta costituzionale.
Invito chi, insegnanti e non, vi abbia interesse a contattare il sito
www.progettolegalita.it, dove sono reperibili le notizie necessarie e i
dettagli utili per partecipare al progetto. Si tratta di una iniziativa che
ha ricevuto l'avallo del Presidente della Repubblica e che non riveste
alcuna connotazione partitica.
La "cultura politica dominante", quale antidoto alla deriva autoritaria, non
e' un dato acquisito per sempre, richiede piuttosto riflessione, iniziativa,
insomma voglia di politica, con la P grande.

2. EDITORIALE. VALERIA ANDO': LE DONNE TRA VIOLENZA E NONVIOLENZA: A
PROPOSITO DEL SAGGIO DI ANNA BRAVO
[Ringraziamo Valeria Ando' (per contatti: andov at tin.it) per questo
intervento. Valeria Ando' e' docente di Cultura greca all'Universita' di
Palermo, direttrice del Cisap (Centro interdipartimentale di ricerche sulle
forme di produzione e di trasmissione del sapere nelle societa' antiche e
moderne), autrice di molti saggi, ha tra l'altro curato l'edizione di
Ippocrate, Natura della donna, Rizzoli, Milano 2000. Opere di Valeria Ando':
(a cura di), Saperi bocciati: riforma dellíistruzione, discipline e senso
degli studi, Carocci, Roma 2002; con Andrea Cozzo (a cura di), Pensare
all'antica. A chi servono i filosofi?, Carocci, Roma 2002]

Il dibattito che e' seguito al contributo di Anna Bravo su "Genesis"
evidenzia, a mio avviso, un problema storiografico: la difficolta' cioe' di
fare storia su un tema come il femminismo che riguarda l'esperienza viva di
donne che ne conservano ancora la memoria. La differenza tra storia e
memoria, su cui mette in guardia Anna Rossi-Doria, fa si' che nella
ricostruzione del femminismo degli anni '70, le esperienze profondamente
diversificate, frammentate nella pluralita' dei contesti, ma tutte comunque
intrise dei vissuti che per anni hanno attraversato le pratiche di
moltissime donne, siano ineliminabili: sicche' quello che ne risulta e' un
mosaico variegato di memorie piu' che l'univoca scrittura storiografica di
un passato comune.
In questo mosaico il saggio di Anna Bravo, che nei toni e nel contenuto ha
il merito di presentarsi come ricostruzione storica fondata sulla
testimonianza di un'esperienza concretamente vissuta, mi appare lucido e
coraggioso. La parzialita' del suo punto di vista di ex militante di Lotta
continua a Torino, peraltro dichiarata con onesta' in apertura e rilevata
tra gli altri da Miriam Mafai, mi pare che scongiuri qualunque pretesa di
affermazioni onnicomprensive e valide per tutte/i. Anna Bravo, potremmo
dire, e' semplicemente "partita da se'". E rintracciando nelle sue pratiche
e in quelle delle compagne che le erano vicine in quegli anni elementi
impliciti di compromissione con la violenza, li ha denunciati con coraggio e
grande onesta' intellettuale.
Certo, il femminismo autonomo dai partiti e dai movimenti estremisti era
altra cosa, come ricorda Maria Schiavo, e le donne che vi aderirono non sono
disposte comprensibilmente a riconoscersi nelle affermazioni di Anna Bravo,
eppure e' un dato che le compagne di Lotta continua si autodefinivano
"femministe" non meno delle altre, per via della cosiddetta doppia
appartenenza. Per questo la loro testimonianza deve essere raccolta e
valutata nella sua portata, se intendiamo davvero ricostruire globalmente il
femminismo dove, come osserva Ileana Montini, "accanto a zone di colore
scuro si stemperano zone luminose piu' chiare e definite". Riconoscere le
une non meno che le altre e' non solo dovere storiografico ma soprattutto
impegno politico: se nel nostro orizzonte, in questo momento della storia,
c'e' la costruzione di un futuro di pace e di nonviolenza, come unica
possibile svolta per l'umanita', mi appare indispensabile che ciascuna/o di
noi faccia i conti con la violenza, agita nella vita individuale, nelle
relazioni interpersonali, nelle pratiche dei gruppi di appartenenza.
*
Ancora piu' coraggioso poi, perche' in controtendenza, e' il richiamo di
Anna Bravo al tema delicatissimo dell'aborto, che ha suscitato le critiche
piu' severe. La necessita' della autodeterminazione della donna, la scelta
di maternita' consapevole, la denuncia della violenza sul corpo femminile e
del dramma, gestito ipocritamente, dell'aborto clandestino, la
consapevolezza dei danni psicologici che l'aborto comporta mi sembrano
elementi tutti presenti nell'indagine della Bravo. Che poi rilanci la
domanda "Fara' male?" in riferimento al dolore del feto non mi pare possa
diventare motivo di strumentalizzazione oggi che siamo chiamate a
ridiscutere, con la legge sulla fecondazione assistita, anche della 194. La
domanda, intima e personale, mi sembra rivolta alla coscienza individuale di
ogni donna, e non data in pasto ai nuovi movimenti per la vita che
potrebbero servirsene per azzerare una delle conquiste piu' alte del
movimento femminista. Si tratta invece di riconsiderare questi temi "con
sguardo affettuoso e coraggioso", pur nella convinzione che "forse un
pensiero di donne sull'aborto non puo' esistere, se non come fattispecie
della riduzione del danno, e anche cosi' sconta incertezze e silenzi".
*
Vengo infine alla critica piu' radicale, avanzata da Ida Dominijanni, quella
cioe' di non avere tenuto conto del taglio operato dal pensiero della
differenza sessuale, che rende la politica delle donne del tutto altra,
nella prassi e nel simbolico, dalla politica maschile. La asimmetria della
posizione femminile renderebbe le donne estranee ai modi maschili di fare
politica, tanto che, come afferma la Dominijanni, "non abbiamo di che
pentirci in verita': ne' in parole, ne' in opere, ne' in omissioni".
A queste affermazioni mi sento di rispondere che il taglio del pensiero
della differenza sessuale non ha riguardato e purtroppo non riguarda tutte
le donne. Dico purtroppo perche' si tratta di un pensiero e di una pratica
da cui io per prima mi faccio attraversare, riconoscendone tutta la portata
speculativa, epistemologica, politica ed esistenziale: l'introiezione di
questo pensiero e' per me il mio modo di sentirmi femminista oggi. Dunque
non tutte le donne, e soprattutto quelle che fanno politica nei partiti e
nelle istituzioni, hanno assunto e assumono questo taglio, che appare
pertanto anch'esso parziale nei fatti, nonostante le ottime ragioni per
considerarsi pensiero comune e condiviso da tutte.
Quanto alla estraneita', nozione che mi e' cara per la formulazione proposta
da Virginia Woolf, dico che, se certamente sono e voglio essere estranea
alla politica maschile, non voglio pero' sentirmi innocente. Voglio al
contrario sentirmi interpellata e responsabile, in dovere di dar conto del
mio passato e del mio presente. So bene che le donne, come ricorda Giancarla
Codrignani, hanno cercato e cercano di rimuovere la violenza dalla storia,
ma questo non le rende automaticamente innocenti.
E torno al dovere non solo storico ma anche politico di fare i conti con la
violenza, stanandola nei diversi anfratti in cui si nasconde.
*
La nonviolenza e' una scelta radicale, come il pensiero della differenza
sessuale: comporta come quest'ultimo un taglio, una visione di se' e del
mondo, e di se' nel mondo. Muovere dal femminismo e approdare alla
nonviolenza, come e' stato per me, significa reinterpretare in un'ottica
radicalmente nonviolenta il mio essere portatrice della differenza
femminile, e per converso assumere la nonviolenza da una prospettiva non
neutra e universalistica ma radicata saldamente nel genere sessuale.
Entrambi questi pensieri richiedono una scelta irreversibile, dopo la quale
non si puo' tornare indietro. Entrambi richiedono la profonda trasformazione
di se', a partire dalla quale dare inizio a nuove pratiche politiche, a
nuove relazioni, e a modalita' di gestione dei conflitti in forme inclusive
ed empatiche, rispettose delle differenze, pronte a negoziare la verita'.
E se questo e' vero, vorrei che rinunciassimo a forme aggressive di
comunicazione, quando l'altra/o dice cose che non corrispondono alla nostra
esperienza, al nostro vissuto, alla nostra ricostruzione della memoria, come
purtroppo e' avvenuto in certi toni assunti talora nel dibattito aperto da
Anna Bravo.

3. RIFLESSIONE. MARINA D'AMELIA: IL PESO SIMBOLICO DI QUESTA CONTRADDIZIONE
[Ringraziamo Marina D'Amelia (per contatti: marina.damelia at uniroma1.it, o
anche: damelia at mail.nexus.it) per averci messo a disposizione questo suo
articolo apparso sul quotidiano "Il foglio" del 12 febbraio 2005. Marina
D'Amelia e' professore associato presso il dipartimento di Storia moderna e
contemporanea dell'Universita' di Roma "La Sapienza". Dal sito
dell'Universita' riprendiamo alcuni stralci di una scheda di
autopresentazione: "Mi sono a lungo interessata delle economie e delle
societa' preindustriali, sia dal punto di vista dei problemi dei consumi e
delle forme di approvvigionamento alimentare nelle citta' d'antico regime,
sia delle prime attivita' imprenditoriali in societa' ancora caratterizzate
da una cultura e da abitudini agrarie. Sul tema dell'approvvigionamento
alimentare come settore strategico del funzionamento degli stati in eta'
moderna sono ritornata piu' volte con vari saggi... Non meno interessanti
per capire la vita delle popolazioni preindustriali sono le forme di
assistenza previste, in particolare ho analizzato quelle previste per le
ragazze povere nelle citta' d'antico regime... Sul tema della protoindustria
mi sono chiesta quale cultura e quali atteggiamenti nei confronti del lavoro
caratterizzassero una mano d'opera immessa per la prima volta in una
struttura produttiva di fabbrica, sia quali forme e quali logica assumessero
le proteste collettive nelle societa' preindustriali... Negli ultimi anni ho
rivolto i miei interessi sempre piu' ai rapporti tra gruppi sociali e
amministrazione dello stato nell'Italia moderna, soprattutto dal punto di
vista dell'esercizio dell'autorita' giudiziaria..., alla storia della
famiglia e alla storia delle donne (Storia della maternita', Laterza
1997...). Poiche' credo sia importante per gli studenti capire cosa sia la
ricerca d'archivio e venire a contatto con i nuovi orientamenti, nei miei
corsi ho sempre dato particolare attenzione alle fonti, al dibattito
storiografico e alla possibilita' di incontrare storici stranieri. In questa
direzione vanno le visite in archivio, il ciclo di incontri seminariali
intitolato a Storia e generi, organizzato nel 1990-1992, che ha visto la
partecipazione di storici italiani e stranieri e di giovani dottorandi, e il
seminario Biografie e autobiografie.Tra tradizione e nuovi orientamenti nel
2001. Infine, dal 1994 faccio parte del comitato di redazione della rivista
"Dimensioni e problemi della ricerca storica", pubblicata dal dipartimento
di Storia moderna e contemporanea. Dal 1999-2000 faccio anche parte del
corpo docente del dottorato di ricerca in Storia moderna e contemporanea,
Storia delle donne e dell'identita' di genere di cui l'Universita' di Roma
e' sede consorziata insieme all'Universita' di Bologna, di Napoli e di
Torino"]

Fa una certa impressione mettere a confronto il modo in cui si sta
discutendo sull'aborto, dopo le interviste date da Anna Bravo a Simonetta
Fiori a "Repubblica" e a "Il foglio" e l'eco invece che stanno avendo in
Francia La condition foetale, di Luc Boltanski, oppure l'Empire du ventre.
Pour une autre histoire de la maternite', della giurista Marcela Iacub, per
citare solo due fra i recenti titoli che hanno una stretta attinenza con le
questioni al centro del dibattito.
Ambedue gli autori riservano, infatti, alla questione dell'aborto, al
dibattito politico che ne e' scaturito prima e dopo l'introduzione della
legge Veil, al ruolo di legittimazione o meno avuto dalla introduzione della
legge pagine di grande interesse. Certo, la discussione in Francia e'
suffragata da un solido tessuto connettivo: il lavoro di scavo e di
documentazione che in questi quasi trent'anni si e' accumulato sul problema
specifico dell'aborto (gia' dal 1986 anche l'ufficialissima e governativa
"Documentation Francaise" dedicava uno dei suoi volumi a La bataille de
l'avortement).
Senza contare il precoce monitoraggio delle complesse modificazioni che la
procreazione assistita produce sulla psiche di uomini e donne: dai deliri di
onnipotenza dei primi donatori di sperma ai nuovi immaginari sul
concepimento (Benoit Bayle e il suo L'embrion sul le divan).
Non e' una differenza da poco muoversi in uno scenario culturale dove una
storia dell'aborto esiste e restituisce, come e' ovvio, piu' prospettive
interpretative, ed esiste altresi' una sociologia dell'aborto che analizza
reazioni e sentimenti delle donne che lo praticano: oppure trovarsi, come
capita da noi, immerse in un agone in cui tutto e' possibile: dalle reazioni
pacate (la storia e' ancora da costruire, ricorda saggiamente Anna Rossi
Doria) ma nella sostanza autodifensive, al casuale ritrovamento sugli
scaffali di antichi e memorabili testi che accompagnarono negli anni
Settanta la battaglia, come fa Natalia Aspesi in un gustoso pezzo del way we
were, dalle richieste di abiura anchilosate nello spirito sanfedista e meno
misericordioso di Antonio Socci, al tentativo di misurare i rispettivi sensi
di colpa di cattoliche e laiche intrapreso da Lucetta Scaraffia.
In breve, o la buttiamo subito in politica oppure prendiamo per oro colato
la versione degli eventi fornita dai contemporanei in una sorta di presente
dilatato. Oppure, ancora, rimandiamo ai tempi lunghi, allorche' la memoria
riuscira' a trasformarsi in storia, mettendo tra parentesi le nostre
responsabilita' nell'aver reso cosi' poveri di testi gli scaffali italiani:
dalla diffidenza contro le generalizzazioni viste sempre come traditrici
dell'esperienza individuale, all'enfasi sulla intraducibilita' dei vissuti.
*
L'approssimarsi dei referendum radicali sulla procreazione assistita, con il
relativo corredo di paventate rimesse in discussione della legge 194,
giustificano questo violento ritorno in auge delle contrapposizioni? Solo in
parte.
Pesano sul modo in cui avviene il confronto altri fattori che rimandano, da
un lato, al ritratto di un gruppo di famiglia dopo che si e' sfasciato,
quello del movimento femminista, dall'altro al modo specifico in cui in
Italia una minoranza politica ha saputo portare il peso di un una
rivoluzione storica e antropologica.
Vediamoli. L'aborto e' da tempo nell'agenda del femminismo una questione
scottante, molto piu' di quanto lo fosse nell'agenda delle donne dell'Udi e
delle donne della sinistra, dove prevalevano le ragioni di polemica contro
le norme del codice Rocco e la volonta' di porre rimedio al "dramma sociale"
dell'aborto clandestino. Le prime divisioni all'interno del movimento
femminista risalgono (non e' un caso) alle diverse posizioni assunte nel
corso della battaglia per l'aborto, al giudizio che all'indomani ne venne
dato, e alle tante cesure mai elaborate che a partire da quel momento si
sono avute nel corso degli anni. Non e' il momento di ripercorre le
polemiche che precedettero e che seguirono la legge (un altro pezzo di
ricostruzione del passato che manca) e che oggi spingono molte a pensare che
la depenalizzazione sarebbe stata la soluzione migliore. Bene ha fatto
Roberta Tatafiore sul "Il foglio" a ricordarne tappe e momenti essenziali.
Che la questione del bilancio da trarre dalla battaglia per la legge fosse
incandescente lo avevano prontamente capito le autrici di Non credere di
avere dei diritti, della Libreria delle donne di Milano, un testo che forse
non forniva una storia del movimento ma di certo iniziava quel detour
teorico che ha reso piu' inibita la discussione sui temi del corpo,
dell'aborto e del feto, proprio mentre i progressi della procreazione
assistita riportavano al centro del dibattito la riproduzione e le frontiere
della vita, con i "diritti" del feto.
Ma per spiegare perche' intorno all'aborto si agitino tante tensioni,
rendendo difficile il confronto, dovremmo forse ripartire - arrivo al
secondo fattore accennato - dal riconoscimento della tensione che tutti i
cambiamenti profondi e radicali di modi di essere e di pensare innescano
negli attori stessi.
*
Far passare l'aborto dall'ombra in cui come fenomeno era stato relegato per
secoli, ufficialmente condannato nelle rappresentazioni collettive,
ufficiosamente tollerato, al piano pubblico, nello spazio sociale e nel
dibattito politico, facendocene argomento di discussione aperta, esplicita e
non censurata (e tutto cio' nel giro di pochi anni) ha rappresentato una
rivoluzione nel costume e nella mentalita' di proporzioni tali da travolgere
la generazione che si era fatta carico di questa responsabilita' storica in
Italia.
Ciascuna di noi ha vissuto sulla propria pelle il peso simbolico di questa
contraddizione, sempre e dolorosamente irrisolta sul piano personale e
spavaldamente esibita sul piano della ritualita' politica (le collane di
bambole, criticate all'epoca da Natalia Ginzburg, con cui alcune si
adornavano nelle manifestazioni quasi per esorcizzare il tabu' violato).
Si e' spavaldi quando si ha paura. E c'era da aver paura. La richiesta
dell'aborto "libero, gratuito e assistito" era gravida di conseguenze: ha
aperto le porte all'intervento dello stato in una materia, quella della
riproduzione, che nella tradizione liberale rappresentava una frontiera
strettamente invalicabile, ha reso il feto e il suo statuto l'oggetto
principale dello scontro tra i partigiani della legge e tutti quelli che si
opponevano.
Molte donne di varie culture politiche hanno fatto si' che l'entrata
dell'aborto nella sfera pubblica si producesse: radicali, femministe, donne
dell'Udi e del Pci (il 'c'eravamo anche noi" di Miriam Mafai e di Luciana
Castellina), militanti dei gruppi della nuova sinistra.
Perche' solo in Italia e perche' solo per la generazione, che piu' aveva
legato l'emersione dell'aborto sul piano della sfera pubblica (sottraendolo
alla "camera oscura" in cui era stato relegato) alla denuncia dei rapporti
fra i sessi (allora dati), alla riflessione sulla sessualita', alla messa in
questione di una maternita' distorta, l'esperienza si e' rivelata cosi
lacerante, da recalcitrare rispetto a ogni prospettiva di  ricostruzione
storica? In altri paesi non e' stato cosi'.
Perche' ci sono voluti "trent'anni per pensarci", come dice Anna Bravo, e
perche' anche dopo trent'anni, il riconoscimento del gigantesco sforzo
affrontato in comune, sia pure con modi e argomenti diversi, non impedisce
questo gioco al massacro di delegittimazioni reciproche? E' qui che
l'assenza di un solido tracciato di indagini storiche, dove ricollocare la
pluralita' delle esperienze individuali e di gruppo, le distanze e le
affinita', il dibattito di ieri, si fa piu' sentire.
Tanto piu' oggi, in un tempo che, per le urgenze che abbiamo di fronte,
richiederebbe ben altro atteggiamento. Alla mancanza di storia, si sommano,
infatti, vuoti e ritardi sui nuovi terreni di analisi dello sviluppo della
vita, delle forme che questa prende, i complessi rapporti tra dimensione
corporea e mentale, compresi i passaggi tra umano e non umano, che sfuggono
alle classiche formulazioni del concetto di "persona". Tutti questi terreni
non sono piu' interpretabili alla luce delle categorie cui eravamo abituate,
tantomeno liquidabili lungo i confini di distinzioni semplificatrici tra
cattolici e laici. Richiedono, insomma, un drammatico surplus di analisi e
di competenze. Su molti dei temi e dei nuovi interrogativi etici, la
riflessione femminile si deve confrontare (al pari di quella maschile) con
gli esiti della filosofia morale anglossassone, che si e' interrogata per
tempo sugli sconvolgenti esiti della ricerca scientifica.
E allora? Non sarebbe meglio rimboccarsi le maniche ed evitare di mascherare
le tante debolezze, storiche e teoriche, della riflessione italiana, dietro
polemiche che, mi sembra, continuino ad "agire", come direbbero gli
psicanalisti, tensioni e contraddizioni irrisolte? Nei paesi dove il terreno
della ricerca costituisce un importante scenario per i conflitti e la loro
composizione, e' questa ad alimentare domande e risposte, a tutto discapito
delle semplificazioni, gli irrigidimenti e gli anatemi che invadono il
nostro discorso pubblico.

4. LUTTI. GUIDO PICCOLI: GLI AMICI DELLA NONVIOLENZA MASSACRATI IN COLOMBIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 marzo 2005.
Guido Piccoli, giornalista e sceneggiatore, e' profondo conoscitore della
Colombia su cui ha scritto Pablo e gli altri, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1994; Colombia, Clup, Milano 1996; Colombia, il paese dell'ecesso,
Feltrinelli, Milano.
Luis Eduardo Guerra era uno dei leader della straordinaria esperienza
nonviolenta della Comunita' di pace di San Jose' de Apartado', in Colombia;
il 21 febbraio e' stato massacrato insieme ad altre otto persone. Aveva
detto, intervenendo al Foro Sociale delle Americhe svoltosi a Quito nel
luglio 2004: "Che senso hanno, signori, tante riunioni e tanti eventi mentre
ci stanno ammazzando? Che senso hanno gli hotel di lusso, gli esperti delle
Ong e tanti intellettuali, che senso ha tutto cio' per noi che abbiamo cosi'
bisogno che ci aiutiate a non morire?"]

Gli dicono che lo stanno cercando, lo scongiurano di nascondersi. La mattina
del 21 febbraio scorso, Luis Eduardo Guerra decide di non sfuggire alla
violenza, che l'ha accompagnato fin dalla nascita, trentacinque anni fa. Non
vuole abbandonare la sua nuova compagna Bellanira e Deiner, il figlio
undicenne che zoppica dall'esplosione, nell'agosto scorso, di una granata
abbandonata dall'esercito. E' uno dei leader piu' riconosciuti di San Jose'
de Apartado'. Forse si sente protetto dalla solidarieta' ricevuta negli
Stati Uniti e in vari paesi europei, tra cui l'Italia con gli amici di Narni
e degli altri gruppi che formano la Rete di solidarieta' con le Comunita' di
pace in Colombia. O forse non immagina che vogliano ammazzarlo. Si sbaglia.
Luis Eduardo, Bellanira e Deiner vengono intercettati vicino al rio Mulatos,
portati sul greto del fiume e squartati con i machete fino ad essere
decapitati.
Poco lontano un altro gruppo entra sparando nella casa di Alfonso Bolivar,
membro della Comunita' di pace del suo villaggio. L'uomo riesce a scappare.
Scappa anche un contadino di nome Alejandro che sta percorrendo un sentiero
vicino: una pallottola lo ferisce alla schiena, viene raggiunto e finito.
Alfonso potrebbe salvarsi, ma quando sente le urla della moglie Sandra
Milena, che chiede piete' per i suoi figli, torna indietro a morire con la
sua famiglia. I machete infieriscono sul suo corpo e quello di Sandra.
Nessuna pieta' neppure per Natalia di quattro anni e per Santiago di solo 18
mesi. I due massacri hanno dei testimoni, il fratellastro di Luis Eduardo e
un vicino di Alfonso.
*
Sono loro che raccontano una verita' spaventosa: stavolta i carnefici non
sono i tagliateste delle Autodefensas Unidas, i principali protagonisti da
vent'anni della macelleria colombiana, ma i militari del trentatreesimo
battaglione di controguerriglia dell'esercito. Da quattro giorni l'intera
regione e' sorvolata da elicotteri ed aerei bombardieri e invasa dai reparti
della diciassettesima brigata di stanza nella base di Carepa. E' la risposta
all'imboscata nella valle della Llorona di una settimana prima del quinto
fronte delle Farc, costata la vita a sedici soldati. Com'e' successo tante
altre volte, sono i civili indifesi a fare da vittime sacrificali delle
rappresaglie.
Da quando, nel 1997, gli sfollati di San Jose' de Apartado' si sono
proclamati Comunita' di pace, rifiutandosi di collaborare con tutti i
protagonisti della guerra, compreso l'esercito, molti generali li
considerano alla stregua dei ribelli. Lo stesso presidente Alvaro Uribe, nel
corso di un vertice tenuto nel maggio scorso nella vicina Apartado',
sostenne che San Jose' fosse in realta' un "corridoio" usato dalle Farc.
Noncurante delle sentenze della Commissione interamericana dei diritti umani
e della stessa Corte costituzionale colombiana che hanno, in piu' occasioni,
ingiunto allo stato colombiano di "offrire una protezione speciale" alla
Comunita' di San Jose', in quell'occasione Uribe invito' la polizia ad
arrestare, se necessario, i suoi dirigenti e a deportare i volontari che li
proteggono, prima di tutti quelli delle Peace Brigades.
*
Quando a San Jose' si viene a sapere del massacro, partono gli inviti a
bloccare la carneficina, gli appelli alle organizzazioni umanitarie in
Colombia e nel mondo.
Per recuperare i corpi delle vittime viene organizzata una spedizione di
quasi duecento persone, accompagnata da sacerdoti, cooperanti internazionali
e l'ex sindaca di Apartado', Gloria Cuartas. La comitiva si dirige a
Mulatos, nella fattoria di Alfonso, affollata di vicini che aspettano
l'arrivo dei funzionari giudiziari. E' il 25 febbraio. Il giorno dopo ci si
fa guidare dai cerchi concentrici degli avvoltoi, per scoprire i cadaveri
straziati di Luis Eduardo e dei suoi. All'orrore si aggiunge la rabbia. In
zona vagano ancora reparti dei soldati. A differenza di altre volte, il loro
atteggiamento e' sfrontato. C'e' chi, ironizzando sul fetore che satura la
zona, sostiene che ci sia "puzza di guerrigliero morto". Qualcun altro
accusa il gruppo di essere arrivato fino a li' dietro ordine delle Farc.
Vengono prese foto e rivolte minacce ai contadini. Un soldato brandisce come
un trofeo un machete trovato sul greto del fiume e, nonostante le proteste,
lo pulisce con la sabbia cancellando le tracce di sangue. Piu' che
un'ammissione di colpa, l'atteggiamento dei militari equivale ad una
rivendicazione.
*
Di diverso tono sono ovviamente le risposte che le autorita' danno
pubblicamente a Gloria Cuartas, agli avvocati della Corporacion Juridica
Libertad e al padre gesuita Javier Giraldo che denunciano la responsabilita'
della diciassettesima brigata nel massacro: mentre il comandante
dell'esercito, Reinaldo Castellanos, definisce queste accuse "temerarie", il
ministro della difesa, Jorge Alberto Uribe assicura una certa "tranquillita'
della forza pubblica, visto la sua estraneita' al crimine".
Da tutto il mondo piovono proteste indignate contro il governo Uribe che,
come minimo, non ha fatto nulla per difendere la Comunita' di San Jose'.
Oltre all'Onu e l'Organizzazione degli stati americani, gli scrive una dura
lettera anche il sindaco di Roma, Walter Veltroni.
Da parte del governo di Bogota' inizia l'abituale fuoco di sbarramento,
orchestrato dal vice-presidente Francisco Santos, ormai esercitato a
recitare, nello staff di Uribe, i ruoli piu' patetici. Salta fuori il solito
guerrigliero pentito, lasciato ovviamente anonimo, che racconta che Luis
Eduardo sarebbe stato ammazzato dalle Farc per non avere piu' voluto che San
Jose' continuasse ad essere usato dai ribelli "come luogo di riposo e
vacanza". L'assurda tesi viene fatta propria dai mezzi di comunicazione.
Il 2 marzo arriva in zona una commissione giudiziaria, che si scontra pero'
con un muro di silenzio: nessuno vuole parlare con i giudici. Neppure Gloria
Cuartas che ricorda che "tutte le testimonianze rese negli ultimi otto anni
sulle violazioni dei diritti umani sono servite soltanto a criminalizzare le
vittime e non i carnefici".
Ancora piu' dall'insediamento di Uribe, parlare di giustizia, in Colombia e'
un eufemismo. Sottoposta a minacce e ripulita da quasi tutti gli elementi
onesti, la magistratura ha sempre assecondato il sodalizio tra i vertici
dell'esercito, comandato negli anni scorsi nella regione di Uraba' dal
generale Rito Alejo Del Rio, detto "El Pacificador" (al quale persino gli
Usa avevano negato il visto d'ingresso per avere costituito gruppi
paramilitari) e il nucleo centrale delle Auc, a capo dei quali c'erano
Carlos Castano e Salvatore Mancuso. Oltre ad intimidire i testi o ad
accumulare inutilmente le loro denunce, i giudici hanno lasciato spesso
filtrare le loro generalita', segnalandoli ai killer statali e parastatali.
*
Dei duemila abitanti di San Jose', dal 1997 ne sono stati ammazzati 165, una
ventina dalle Farc e dell'Eln e il resto da militari e paras. Non a caso,
nel centro del villaggio, cresce a dismisura un monumento di mattoni con i
nomi delle vittime e, dietro le fila delle baracche, il cimitero.
Non solo tutti gli omicidi sono rimasti impuniti: come ricorda padre Javier
Giraldo "in molti hanno pagato con la morte la fiducia nella giustizia". Per
questo, la Comunita' ha deciso di rendere testimonianza del massacro solo
alla Commissione interamericana dei diritti umani, riunita il 14 marzo in
Costarica. I giudici della Fiscalia lasciano a mani vuote San Jose'.
Sulla strada del ritorno sono attaccati a colpi di mortai e lanciarazzi, che
uccidono un poliziotto di scorta e ne feriscono altri tre. L'agguato, che
governo, esercito e giudici attribuiscono alle Farc, corrobora per i
giornali la colpevolezza dei ribelli nell'uccisione di Luis Eduardo e degli
altri 8. Da Bogota' Uribe tuona che "non puo' esserci un solo centimetro del
territorio nazionale vietato alla forza pubblica". Considerando la
"neutralita'" una forma di complicita' con la guerriglia, il ministro della
difesa annuncia che verra' al piu' presto sanata l'anomalia di San Jose' e
delle altre comunita' di pace esistenti, per lo piu' lungo la costa del
Pacifico. Quando, il giorno dopo, l'esercito entra nelle stradine del
villaggio, i suoi abitanti minacciano un nuovo esodo, rifiutandosi di
"convivere con i loro assassini". E fanno un appello a tutte le voci libere
del mondo perche' si uniscano nel richiedere il rispetto per la popolazione
civile.
Il braccio di ferro tra i contadini di San Jose' e lo Stato colombiano
chiede di schierarsi. Impresa non facile, ad esempio, per la chiesa. Per un
padre Giraldo che rischia ogni giorno di trovare un sicario sulla sua
strada, c'e' il vescovo della vicina Apartado' che, in questi giorni, ci
tiene a sottolineare il suo "accompagnamento solo pastorale" alla comunita'
ribelle. Ma l'ultima strage impone anche a Bruxelles e alle diplomazie
europee presenti a Bogota' d'intervenire. Per salvare altri innocenti e per
valutare che non sia il caso di sistemare nella lista dei terroristi
colombiani anche gli squartatori e i loro rispettabili mandanti e
conniventi.
*
Appendice. La rete di solidarieta' italiana
Nel maggio 2003 vari enti locali, istituzioni ed associazioni hanno
costituito a Narni la Rete italiana di solidarieta' a sostegno delle
Comunita' di pace del Choco' ed Uraba'. La Rete cerca di offrire appoggio
politico a questi processi di resistenza civile nonviolenta che si oppongono
al neoliberismo che alimenta la guerra, gli esodi forzati di massa e genera
miseria. La solidarieta' della Rete vuole favorire i gemellaggi fra enti
territoriali italiani e le Comunita' di pace, che possano in qualche modo
garantire una parziale protezione verso queste ultime. Oltre a denunciare la
responsabilita' degli ultimi massacri e amplificare la voce di chi non ha
voce in Colombia (e ancora meno nel mondo), la Rete e' impegnata a far
conoscere la distruzione provocata dalla realizzazione dei mega-progetti
portati avanti nella regione occidentale dalle multinazionali statunitensi
ed europee (come ad esempio lo sviluppo della coltivazione intensiva della
palma africana o la costruzione di un canale interoceanico nella selva
chocoana sostitutivo di quello di Panama). E' un lavoro difficile perche'
contrasta un'idea di sviluppo ritenuta oggettiva e accettata da buona parte
delle forze politiche europee. Ma che va fatto proprio per le conseguenze
drammatiche per la popolazione locale. Com'e' stato ampiamente documentato,
in Colombia le piu' terribili violenze vengono compiute per spianare la
strada al cosiddetto "sviluppo economico". Chiunque volesse aderire o
saperne di piu' sulla Rete puo' scrivere all'indirizzo e-mail:
carlamariani at comune.narni.tr.it

5. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: DAL PUNTO DI VISTA DEGLI OPPRESSI
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Per prima cosa una nota personale. Voglio ringraziare Enrico Peyretti per
aver voluto commentare con lucidita' e profondita' un mio precedente
articolo, Pietas, pubblicato sul n. 864 di questo notiziario.
Cosi' seguendo questo tema, del metterci ogni volta dalla parte di ogni
vittima, ritorna nell'anniversario dell'attentato dell'11 marzo 2004 di
Madrid, l'attualita' dello slogan "Las guerras son vuestras. Los muertos son
nuestros" (Vostre le guerre, nostre le vittime); con la consapevolezza che
su uno slogan si fa certo una manifestazione, ma non si fa ancora una
politica. Non solo perche' la devastazione, il terrore, sono arrivati alle
porte di casa nostra, nelle un tempo sicure, tranquille e ricche citta'
europee; ma perche' le guerre, sempre, aprono ferite che non si chiudono e
anzi sono scavate da infezioni che paiono incontrollabili.
Baghdad brucia piu' che mai. Il Kossovo e' sempre sull'orlo dello spettro
della pulizia etnica; ridiventa visibile l'infiammazione sotto la crosta dei
conflitti fintamente sanati: una caccia all'uomo (oggi contro i
serbo-kossovari), degna dei pogrom di altri tempi.
Poi ci sono le guerre nascoste dei poveri a cui vendiamo le armi, come il
Congo: dal 1999 infuria un sanguinoso conflitto per il controllo di una
regione strategica e potenzialmente ricchissima. Piu' di tre milioni e mezzo
i morti, in gran parte civili; circa trentamila bambini arruolati a forza
nelle file dei miliziani; mezzo milioni di profughi, scampati ai massacri,
che ora sopravvivono esposti alla fame e alle malattie.
Il sangue ci piove addosso a cascata ogni giorno, la guerra preventiva e'
diventata la politica dei nostri tempi e non solo la continuazione della
politica; eppure riusciamo ancora a reagire. Le manifestazioni mondiali del
19 marzo, a due anni dall'inizio della guerra in Iraq, hanno messo in
evidenza che il pacifismo non e' solo contro la guerra, ma anche e forse
soprattutto, contro le radici politiche, sociali, economiche della guerra.
*
Eppure e' difficile ridare senso a parole, gesti, azioni, ad iniziare da
quel cortocircuito tutto italiano per cui una parte consistente di questo
Paese e' piu' avanti di chi la governa, e anche di chi si oppone a chi la
governa. Soltanto che prevale una forma di comunicazione che e' solo
spettacolo, in cui il vero maestro e' Mister B., un signore che ne racchiude
in se' centomila: a) il Presidente del Consiglio; b) L'ex Ministro degli
Esteri; c) il padrone delle reti Mediaset; d) un editore; e) uno che si
occupa di assicurazioni; f) un imprenditore edilizio; g) il presidente del
Milan; h) il vero commissario tecnico della nazionale di calcio, i) e tanto
altro ancora.
Il fatto e' che non abbiamo la parola esatta per definire questa miscela di
volgarita' e ignoranza, conformismo e arroganza, televendita di sogni e
svendita di storia, conflitto di interessi e prepotenza di istinti che si e'
insediata al potere (regime o solo cattivo governo? dittatura della
maggioranza o normale alternanza democratica?) col beneplacito elettorale di
una democrazia snervata, spoliticizzata e ridotta a marketing dei voti e
delle idee.
La nostra personale sensazione e' che Mister B. e' entrato nel senso comune
di buona parte degli italiani; e che i partiti dell'attuale centrosinistra
non sono immuni dai mali che la destra ha aggravato. Che esca dall'orizzonte
non e' indifferente, ha mutato la costituzione materiale e formale del
paese, e' stato la sponda politica della mutazione culturale seguita al
1989, ha assorbito i peggiori umori della destra, ha corrotto l'idea stessa
di potere politico. Ma Mister B., purtroppo, non e' una parentesi dalla
quale si esce con un semplice cambio di maggioranza. Del resto dicono che si
vota non per eleggere un governo buono, ma per cacciarne uno cattivo (e'
stato cosi' in Spagna un anno fa?). Non crediamo che sia del tutto vero, ma
certo, per una parte e' cosi'.
*
Intanto continuiamo nella nostra strada, perche' la vita si trasforma
lentamente in cose umane da fare, in chiari pensieri e affetti, in militanza
(per usare una vecchia parola) disciplinata, per gli esseri umani in quanto
tali. Ha scritto Norberto Bobbio in un suo celebre dialogo con Togliatti a
meta' degli anni '50: "Io sono convinto che se non avessimo imparato dal
marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando
una nuova immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati. O
avremmo cercato riparo nell'isola della nostra interiorita' privata o ci
saremmo messi al servizio dei vecchi padroni. Ma tra coloro che si sono
salvati, solo alcuni hanno tratto in salvo un piccolo bagaglio dove
custodire i frutti piu' sani della tradizione intellettuale europea:
l'inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volonta' del
dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo
filologico, il senso della complessita' delle cose".

6. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: LA GUERRA E LE ELEZIONI
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e  curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Ha recentemente pubblicato, con altri coautori, Il desiderio e l'identita'
maschile e femminile. Un percorso di ricerca, Franco Angeli, Milano 2004. Su
Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]

Ma perche' negli Stati  Uniti  ha vinto ancora  Bush? C'e' una tesi -
soprattutto sostenuta dai "neocons" (anche in Italia, vedi Giuliano
Ferrara) - secondo la quale avrebbe vinto in nome dei Valori: contro i
matrimoni gay, contro l'aborto, per la  religione ecc.
Lucia Annunziata non e' d'accordo. In un libretto di poco piu' di cento
pagine, edito da Mondadori, l'ex giornalista del "Manifesto", ora
editorialista della "Stampa" ed ex presidente della Rai, profonda esperta
della politica degli Usa, ci spiega la sua tesi. La sua analisi potrebbe
risultare utile all'osservatore politico italiano, dato che le analogie tra
Bush e Berlusconi sono piu' di una. Entrambi propongono all'opinione
pubblica l'intreccio tra affari e governo e l'aspirazione dinastica, cioe'
la propensione a costruire una struttura di potere di natura familista: per
Bush si parla di lanciare il secondo fratello Jeb alle presidenziali del
2008, e per Berlusconi di scalare il colle del Quirinale.
Bush  avrebbe vinto soprattutto in nome della Guerra. "La battaglia dei
Valori - scrive Lucia Annunziata - e' un mito che si e' formato nelle prime
ore dopo le elezioni: un mito basato su un unico exit poll, leggibile, come
vedremo, in molti modi, come tutti gli exit poll". A 70.000 individui e'
stata posta una domanda: "Quale questione e' stata piu' rilevante nella
scelta del presidente?". Dalle risposte i media hanno tratto la convinzione
che hanno vinto l'etica e i valori morali. Ma in realta' l'analisi della
vittoria repubblicana suggerisce ben altro: hanno, per esempio, acquisito
voti dai democratici, c'e' stato uno slittamento in un corpo politico per
anni assolutamente stabile. Il voto marginale che si e' spostato verso il
presidente ha eroso il consenso democratico rispetto alle donne, ai neri,
agli operai, agli ebrei e in parte ai giovani. Questi cambiamenti, si legge
nel libro, "sono stati il risultato di un movimento tellurico provocato
dalla guerra, che e' stata, e sara', il centro, piu' o meno confessato, di
una riflessione dell'America su se stessa".
Inoltre  i repubblicani, per la prima volta dalla fine della seconda guerra
mondiale, hanno ottenuto anche la maggioranza del Congresso.
La tesi dell'Annunziata puo' non piacere se si resta avvinghiati,
ideologicamente, alle proprie tesi (in altro modo detti pregiudizi di
baconiana memoria). E bisogna partire dall'11 settembre che "ha risvegliato
di nuovo il senso dei momenti fatali, quelli al di qua e al di la' dei quali
l'America puo' non esistere piu'. George Bush cammina sulle macerie del
Trade World Center e sulla guerra al terrorismo. E' riuscito a catalizzare,
in una reazione vitale, la depressione, lo shock e il risveglio
dall'ennesima fase di innocenza in cui gli americani erano caduti".
*
Bush ha vinto anche a fronte di uno schieramento imponente dentro e fuori
contro la guerra e nonostante abbia mancato nella promessa della cattura di
Bin Laden.  Comunque, nel voto la sicurezza risulta essere la questione piu'
importante. Bush ha raccolto l'85% di chi pensa che il terrorismo sia
rilevante, mentre un'altra parte indica come rilevante l'Iraq e si rivolge a
Kerry.
Dopo l'11 settembre gli americani sarebbero entrati nell'idea di essere un
paese in guerra: di essere sotto attacco. "Il senso della morte ha invaso
una societa' che si sentiva immortale (al punto che la scienza sta
apertamente cercando l'immortalita')", e gli americani sono pertanto alla
ricerca di una nuova identita', di cui la partecipazione al voto del 2004
rappresenta l'esito, essendo stata piu' massiccia rispetto al passato.
E non cadiamo in qualche leggera illusione a proposito del voto femminile:
"Un altro bastione democratico che e' franato e' quello delle donne, su una
linea che segue perfettamente la questione della guerra. Le donne in
maggioranza votano democratico; e anche questa volta hanno dato il loro
favore a Kerry, ma solo per il 51%, rispetto al 54% riservato a Gore nel
2000. La sottocategoria delle donne sposate e con figli ha votato Bush per
il 55%, contro il 49 % nel 2000. Sono le famose 'security mon', il cui voto
e' stato motivato dal maggiore senso di affidabilita' nella guerra al
terrorismo".
C'e' anche la vittoria presso la classe lavoratrice, tanto che Nicholas
Kristoff, noto commentatore del "New York Times" ha scritto: "Essere poveri
e votare i ricchi". Ci si potrebbe fare l'opinione che in questo caso
c'entrano i Valori. Nulla di piu' falso, ci spiega Annunziata. In Florida i
lavoratori hanno risposto che hanno votato Bush prima di tutto per la lotta
al terrorismo, e nell'Ohio rispondono che hanno votato Bush perche' e' un
leader forte.
Ma anche il voto religioso e cattolico ha avuto un ruolo decisivo. I
cattolici hanno votato il protestante Bush certamente anche perche' e'
contrario all'aborto ed e' molto religioso, ma ben il 66% di tutti coloro
che hanno votato per i Valori crede che la guerra in Iraq sia giusta.
*
La tesi di fondo di  Lucia Annunziata, alla fine, e' la seguente: "La
rielezione di Bush a me sembra che possa essere opportunamente letta sullo
sfondo di una ripresa religiosa ed etica risvegliata dagli attacchi
terroristici e dalla guerra. E' un fenomeno, del resto, conosciuto: nelle
epoche di guerra si mette in discussione anche il 'come si vive'. Ne'
meraviglia che  la ricerca intorno al senso della vita abbia colpito
un'America colta dalla guerra alla fine di dieci anni di boom economico
senza precedenti, e nel pieno di un (apparente) trionfo politico sull'ultima
seria minaccia alla sua esistenza, il regime sovietico. Un'America
eticamente ispessita dalla sua stessa ricchezza, dal suo livello di consumi
e dalla sua indiscussa superiorita' militare e politica. Gli attentati, la
vulnerabilita', la minaccia a questa superiorita' 'indiscussa' hanno, in
qualche modo, favorito la perdita dell''assoluto immanente', che e' tanta
parte del  sistema di pensiero che ha mosso la storia degli Usa. (...)
Quello a cui abbiamo assistito non e' stato lo scontro fra valori da una
parte e assenza di valori dall'altra: e' stata la ricerca, differentemente
coniugata, dell'identita' stessa di una nazione".
Di fronte all'incertezza che ha fatto seguito all'11 settembre, e' andato in
crisi il consumismo e l'individualismo, e una cosa come il matrimonio dei
gay e' "apparso come l'approdo ultimo cui puo' giungere un concetto di
liberta' tutto declinato in maniera individualistica". Su questo registro si
consumerebbe - secondo Lucia Annunziata - la distanza anche dall'Europa
avvinta nel materialismo consumistico. La famiglia si raffaccia sulla scena
pubblica come esempio di etica collettiva. Quanto ai  democratici sono
allora apparsi come rappresentanti di una societa' individualistica e come
indifferenti alla paura della gente.
E' un'analisi che puo, in qualche modo, suggerirci - o stimolarci - a
qualche accortezza in piu' nel condurre le nostre?

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 876 del 22 marzo 2005

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