La nonviolenza e' in cammino. 865



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 865 dell'11 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Enrico Peyretti: 4 marzo 2005, i sommersi e i salvati
2. Donatella Di Cesare: Idee la cui essenza e' la carne del mondo
3. Bruno Segre: La memoria della Shoah
4. Ileana Montini: Levar la mano su di se'
5. Maurizio Matteuzzi ricorda Gladys Marin
6. Marcelo Barros ricorda suor Dorothy Stang
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: 4 MARZO 2005, I SOMMERSI E I SALVATI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente
edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha
curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e'
nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei
siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei
principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di
questo notiziario]

"Nicola Calipari era un servitore dello Stato caduto per difendere una
comunista che e' anche contro questo governo" ("l'Unita'", 8 marzo). Questo
giudizio di Domenico Gramazio, di An, (a parte la discutibile solita
espressione "servitore dello stato") coglie bene la realta' eccezionale dei
fatti del 4 marzo 2005: l'Italia si e' unita nella difesa di una vita,
pagata da un'altra vita. Il riscatto non solo della vita e liberta' di
Giuliana Sgrena, ma del senso civile d'Italia lo ha pagato Nicola Calipari,
altro che i sei o otto milioni di euro. Il nostro paese si e' unito per un
momento, salvo le immediate successive divisioni, ma ci sono momenti che
valgono anni, che contengono verita'.
*
Compiangiamo Calipari, ma non commiseriamolo: forse e' questa la morte
migliore, con un senso attivo, un atto di vita (come fu per il giovane
Filippo Piredda, un caso analogo a Torino, nel 1997), nel fare un'azione
umana giusta, una morte sfuggita forse al degrado fisico, a una
interminabile agonia, oggi la sorte di tanti. La pena maggiore e' per i
familiari e gli amici, per lo strappo improvviso, non per chi muore.
*
Nella morte istintivamente generosa di Calipari c'e' vita. Un segno di vita
particolarmente prezioso e promettente la' dove regna la guerra. Perche' la
guerra e' morte, e' scelta della morte, e' fornicazione adulterina con la
morte, per tradire la vita e partorire altra morte. E' dare la morte,
aggiungere morte, che sempre dilaga e ritorna su chi crede di poterla usare
contro altri. La guerra e' tradimento e follia. La politica di guerra e'
alto tradimento, e' sovversione contro il patto civile, cioe' dissolvimento
della convivenza civile, ricaduta nella barbarie. Non e' mai davvero contro
un nemico, ma e' fare nemica l'umanita', dunque farsi nemici dell'umanita'.
Non c'e' guerra tollerabile. La guerra non vale contro la guerra, contro la
violenza e il terrorismo, perche' puo' solamente imitare, riprodurre e
moltiplicare questi orrori, come oggi vediamo fino a sentirci schiacciati
dall'evidenza.
La difesa - difesa del diritto e non del dominio - puo' avere ancora,
temporaneamente, a questo grado intermedio di evoluzione umana, bisogno
delle armi: lo ammettono quei patti giusti e saggi, aperti al futuro, che
sono la Costituzione italiana e la Carta dell'Onu, ma solo se immediatamente
l'aggredito rimette la contesa al diritto internazionale e alle sue
istituzioni (art. 51 della Carta dell'Onu). Resistere alla guerra che ci
aggredisce non e' fare guerra.
*
La guerra merita il tradimento. Il patto criminale di guerra deve essere
tradito. Gloria d'Italia e' l'8 settembre, quando tradimmo (tardivamente,
costretti dai fatti) il patto criminale con Hitler. Anche oggi siamo
implicati in una guerra criminale, che ci vomita addosso tutti i suoi frutti
mortali. E' l'ora di tradire quel patto. Se il popolo iracheno chiede un
aiuto internazionale, chiede tutt'altra presenza.
*
Scoprire un uomo onesto, mite, umano, capace, deciso e discreto, nel braccio
armato e segreto dello stato, strumento di azioni incontrollabili, fa
riflettere una volta di piu' sulla distinzione tra persone e strutture,
anche quando resta il problema delle strutture. Nelle quali, in questo e
simili casi, la segretezza e' discrezione necessaria alla delicatezza
dell'operazione, ma resta pericolosa e deprecabile come carattere di
un'istituzione denominata appunto segreta.
*
Si discute se e' giusto e conveniente pagare il riscatto per i sequestrati.
Altri paesi lo escludono, per non riconoscere e finanziare gli autori della
violenza. Sul caso Moro, propendevo con dell'incertezza per la tragica
fermezza. Ora penso che i sequestrati vanno sempre riscattati, anche con
denaro: lo stato e' per il cittadino, e non viceversa. Non si puo'
sacrificare una vita ad un obiettivo politico e a una struttura generale.
Uno puo' accettare di morire per tutti, ma non e' accettabile che uno venga
fatto morire per tutti. Si affrontino e si riparino i danni politici, gia'
compensati dal grande frutto civile del far valere l'uomo piu' del sabato.
Nacquero ordini religiosi dediti a riscattare i prigionieri fatti schiavi
dai pirati: oggi e' una funzione dello stato. Sul piano contabile, le spese
di guerra sono infinitamente superiori. E' piu' onorevole pagare il nemico
che ridursi a imitarne la violenza.
*
Non eroicizziamo Calipari. E' giustissimo esaltarne la qualita', l'azione
compiuta come atto supremo del suo lavoro. Ma se la celebrazione dell'uomo
generoso sconfina nella retorica, tace sulle cause e sul contesto, mette in
ombra il contesto della guerra, che strappa la vita a chi non vuole, e
costringe al sacrificio una persona di valore. Beato il popolo che non ha
bisogno di eroi. Beata quella giornata sulla terra che non costringe nessuno
all'eroismo. Maledette le guerre che uccidono, anche se risvegliano alte
qualita' umane, contro l'uccidere. Non militarizziamo - retorica
deformante - un'azione umana per nulla militare, anche quando la compie un
militare.
*
Agli Stati Uniti l'Italia deve chiedere severamente conto, non accontentarsi
di formalita'. Dagli Stati Uniti la comunita' internazionale deve esigere
con nuova insistenza che accettino la Corte Penale Internazionale, se
vogliono provare di essere un paese all'altezza dell'evoluzione civile. Si
apprende (Gr1) che, da dicembre, su quella via dell'aeroporto, sei auto
occidentali sono state colpite (degli iracheni nessuno tiene il conto). Come
la guerra in corso e' preventiva, cosi' il tiro preventivo e' nelle regole
dei soldati Usa in Iraq. Il direttore della Cnn e' stato licenziato perche'
ha detto a Davos che i militari Usa hanno sparato a dei giornalisti.
*
Il 4 marzo 2005 e' un'immagine concentrata della violenza eretta a
istituzione nella guerra, nuovo orrendo lager senza confini di sfruttamento
e schiacciamento dei corpi umani. Ci sono sommersi e salvati, ci sono gli
estremi dell'offesa e della dignita'. Giuliana Sgrena e' stata salvata da
Nicola Calipari, sommerso. Quella salvezza e' stata derubata del diritto a
gioire dal mare di violenza che e' la guerra, che ha inghiottito Calipari,
il liberatore.
*
Giuliana Sgrena ha diritto di parlare, perche' e' il suo lavoro per noi
tutti, perche' lo ha pagato con la prigionia, perche' troppo pochi parlano.
Se alcuni suoi giudizi, turbati dall'esperienza patita, fossero da
correggere, si correggeranno. Ma la sua e' la testimonianza di chi e' stata
attraversata dalla guerra, come la sua spalla dalla pallottola che ha ucciso
Calipari; ferita da quella guerra che e' andata a smascherare nella sua
oscena nudita'. Giuliana e' viva per dare voce ai morti, perche' e' stata
rapita per raccogliere le voci delle vittime di Falluja, che ancora devono
parlare.

2. RIFLESSIONE. DONATELLA DI CESARE: IDEE LA CUI ESSENZA E' LA CARNE DEL
MONDO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 marzo 2005. Donatella Di Cesare, gia'
allieva di Gadamer, docente di filosofia del linguaggio, e' acuta studiosa
della riflessione filosofica contemporanea; dal sito www.donadice.com
riportamo la seguente notizia: "Donatella Di Cesare si e' laureata in
Filosofia nel 1979 all'Universita' La Sapienza di Roma. Ha proseguito gli
studi all'Universita' di Tubinga dove ha conseguito il dottorato con Eugenio
Coseriu nel 1982. Dal 1985 e' stata ricercatrice di filosofia del linguaggio
all'Universita' La Sapienza di Roma. Nel 1996 ha ottenuto la borsa di studio
Alexander von Humboldt presso Hans-Georg Gadamer all'Universita' di
Heidelberg; in questa universita' ha compiuto ricerche anche presso la
Hochschule fuer Juedische Studien. Nel 1998 ha vinto il concorso di
professore associato, nel 2000 quello di professore ordinario. Dal 2001 e'
professore ordinario di filosofia del linguaggio alla facolta' di filosofia
dell'Universita' La Sapienza di Roma. E' membro della Societa' italiana di
filosofia del linguaggio, della Societa' italiana di studi sul secolo XVIII,
della Deutsche Hamann-Gesellschaft, della Academie du Midi, della
Associazione italo-tedesca di Villa Vigoni, dello International Institut for
Hermeneutics, della Heidegger-Gesellschaft, e' membro fondatore della
Walter-Benjamin Gesellschaft. Fa parte della redazione scientifica dello
Jahrbuch fuer philosophische Hermeneutik, dirige la rivista di filosofia
Eidos. Pubblicazioni di Donatella Di Cesare: segnaliamo i seguenti volumi:
Wilhelm von Humboldt y el estudio filosofico de las lenguas, Anthropos,
Barcelona 1999; Die Sprache in der Philosophie von Karl Jaspers, Francke
Verlag Tuebingen-Basel 1996; La semantica nella filosofia greca, Bulzoni,
Roma 1980; ha inoltre curato i seguenti libri: Filosofia, esistenza,
comunicazione in Karl Jaspers, a cura di D. Di Cesare e G. Cantillo,
Loffredo, Napoli 2002; L'essere che puo' essere compreso, e' linguaggio.
Omaggio a Hans-Georg Gadamer, a cura di D. Di Cesare, Il Melangolo, Genova
2001; "Caro professor Heidegger...". Lettere da Marburgo 1922-1929, a cura
di D. Di Cesare, Il melangolo, Genova 2000; Wilhelm von Humboldt, La
diversita' delle lingue, a cura di Donatella Di Cesare, Laterza, Roma-Bari
1991, 2000. Wilhelm von Humboldt, Ueber die Verschiedenheit der Sprache,
hrsg. und mit einer Einleitung von Donatella Di Cesare, Paderborn, UTB,
1998; Eugenio Coseriu, Linguistica del testo. Introduzione all'ermeneutica
del senso, a cura di Donatella Di Cesare, Carocci, Roma 1997, 2000; Lexicon
grammaticorum, a cura di T. De Mauro e D. Di Cesare, Niemeyer, Tuebingen
1996; Torah e filosofia. Percorsi del pensiero ebraico, a cura di D. Di
Cesare e M. Morselli, La Giuntina, Firenze 1993; Karl Jaspers, Il
linguaggio. Sul tragico, a cura di Donatella Di Cesare, Guida, Napoli 1993;
Le vie di Babele, a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Marietti, Milano
1987; Iter babelicum. Studien zur Historiographie der Linguistik. 1600-1800,
a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Nodus Publikationen, Muenster 1990"]

A ciascuno di noi sara' senz'altro capitato di ascoltare o anche di ripetere
dentro di se', talvolta involontariamente, un motivo musicale e di intuire
proprio in quel motivo l'idea dell'amore che stiamo vivendo o abbiamo
vissuto, di riconoscere anzi incarnata l'idea stessa che abbiamo dell'amore.
L'idea e' tutt'uno con la sua presentazione sensibile, l'amore inseparabile
da quel motivo musicale. Ma si potrebbero fare molti altri esempi.
Basterebbe seguire Marcel Proust che nella sua Recherche si e' fermato su
queste idee "impenetrabili all'intelligenza", eppure ben distinte le une
dalle altre. Famosissimo e' un passo della Strada di Swann in cui il
protagonista, bevendo il te' e gustando un pezzetto di madeleine, riassapora
l'"essenza" del paese in cui trascorreva le vacanze da bambino e coglie
cosi' l'idea, l'in se' della cittadina di Illiers che Proust aveva
ribattezzato con il nome di Combray. E' da questo famoso passo della
Recherche che prende le mosse l'ultimo volume di Mauro Carbone, Una
deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili, pubblicato
da Quodlibet. L'intento non e' quello di fornire una nuova interpretazione
del testo: Proust non e' qui l'oggetto di una analisi, piuttosto e' uno dei
protagonisti del libro che si sviluppa in una sorta di polifonia, di coro a
piu' voci. Ed e' anzi Proust il primo a parlare. Perche' attraverso una
splendida descrizione fenomenologica fa vedere quello che i filosofi hanno
stentato per secoli a vedere: l'esistenza cioe' di idee sensibili. Carbone
accoglie dunque il suggerimento di Proust e lo sviluppa all'interno del
dibattito filosofico contemporaneo portando a compimento una ricerca
iniziata gia' con Ai confini dell'esprimibile (Guerini, 1983) e proseguita
fra l'altro con il volume Di alcuni motivi in Marcel Proust (Cortina, 1998).
Ma nella polifonia del libro ci sono almeno altre due voci che non vanno
dimenticate: quelle di Maurice Merleau-Ponty e quella di Gilles Deleuze.
Entrambi hanno tradotto in termini filosofici la descrizione narrativa di
Proust. Ma e' a Mauro Carbone che va il merito non solo e non tanto di aver
diretto abilmente il coro, quanto soprattutto di aver portato alle estreme
conseguenze quello che Merleau-Ponty per un verso e Deleuze per l'altro
hanno pensato o anche solo intuito.
*
In uno degli ultimi corsi tenuti al College de France nel 1961, poco prima
di morire, e pubblicato poi solo nel 1996, Merleau-Ponty si chiede se in
quelle idee descritte da Proust non si possa scorgere una concezione
generale delle idee, una teoria non platonica o, meglio, non platonistica
delle idee. E percio' propone di chiamarle "idee sensibili" - una
definizione provocatoria per tutta la metafisica basata com'e' noto sulla
netta separazione tra cio' che e' sensibile e cio' che e' intelligibile. E'
alla domanda lasciata aperta da Merleau-Ponty che Carbone intende
rispondere, facendola interagire con i risultati della indagine compiuta da
Deleuze nel volume Marcel Proust e i segni (Einaudi, 2003). Le convergenze
dei due filosofi, a partire da Proust, non sono poche. Quel che Deleuze
chiama "in se' di Combray", riassaporato nella madeleine, non e' molto
lontano dall'"idea sensibile" di Merleau-Ponty. Perche' attribuisce
paradossalmente un nucleo di verita' immutabile a un oggetto, anzi a un
luogo singolare, per di piu' inesistente sulla carta geografica. L'"in se'
di Combray" e' allora un altro modo per dire "idea sensibile", un'idea
inseparabile dal suo differente manifestarsi nella sensibilita' che avra'
non per caso conseguenze nel modo in cui Deleuze elaborera' il concetto di
"differenza" (Differenza e ripetizione, Cortina, 1997). In gioco e' qui il
rapporto tra universale e individuale, intelligibile e sensibile, identita'
e differenza - a seconda della prospettiva che si assume -, nodo
fondamentale della tradizione filosofica che il pensiero contemporaneo prova
a ri-leggere, tentando pero' di non cadere in un platonismo alla rovescia
che si limiti a prendere le parti dell'istanza repressa. Consapevole di
questo rischio, Carbone rivaluta la sensibilita' senza per questo eliminare
l'idea; semmai delinea un modo nuovo di intenderla sulla base della radice
comune di idealita' e presenza sensibile, attivita' e passivita'.
*
Ma che cosa vuol dire che l'idea e' inseparabile dalla sua manifestazione
sensibile? Vuol dire che l'idea non esiste ne' prima, come ha voluto il
platonismo, perche' non e' il modello originario di cui la manifestazione
sarebbe solo una copia, ma non esiste neppure dopo, come ha preteso
l'empirismo, perche' non e' un oggetto logico, il risultato dell'astrazione
dei tratti comuni di tanti oggetti particolari. Parlare di "idee sensibili"
significa allora ammettere che l'idea e' presente solo nelle sue
manifestazioni sensibili, anche se queste non la esauriranno mai, anche se
dunque l'idea le eccedera' sempre, come il tutto eccede, va oltre le parti
che lo costituiscono. L'idea descritta da Proust e' insomma una forma che si
da' solo nella carne delle sue deformazioni sensibili - deformazioni che non
si basano su una forma preliminare, che sono dunque senza precedenti. E
proprio nella "deformazione senza precedenti" Carbone scorge la peculiarita'
dell'arte nel novecento. Questa arte non solo accetta la voyance, come la
chiama Merlau-Ponty, quel vedere che non e' assoggettare, ma piuttosto
assecondare, con un occhio che ascolta, il mostrarsi del sensibile; ma in
piu', sapendo di essere per sua essenza deformazione, rinuncia a ogni forma
originaria.
Let it be, "lascia che sia", puo' essere allora il motto per indicare la
genesi dell'idea sensibile accolta in un soggetto che non e' piu' tale,
perche' e' la cavita' in cui l'idea si manifesta, cassa di risonanza del suo
incontro con la carne del mondo. In questo incontro si produce per noi una
"iniziazione" all'idea che si delinea attraverso le sue deformazioni. L'idea
sensibile non e' ne' all'inizio, ne' alla fine: la sua presenza-assenza e'
data solo simultaneamente, appunto attraverso le sue deformazioni.
Che cos'e' ad esempio la nostra idea sensibile dell'amore? E' quell'idea che
ci siamo fatti nei singoli rapporti amorosi, che attraverso questi ha
assunto fisionomia, senza potersi esaurire in nessuno - a meno di non
volersi esporre al dolore di una delusione. Il nesso che lega quei rapporti,
ciascuno differente dall'altro, fa pensare alla corda di Wittgenstein, a
somiglianze di famiglia che fanno si' che tra i rapporti d'amore ci sia
qualcosa in comune che non puo' pero' essere ridotto all'astrazione di
un'identita'.
*
Come riconoscere allora l'idea sensibile senza questa identita'? Come
riconoscere senza la garanzia di una somiglianza? Soprattutto: come
riconoscere quel che prima non si conosceva? Domanda che percorre la
filosofia a partire da Platone e a cui e' dedicata l'ultima parte del libro
di Carbone dove viene assumendo rilievo il concetto di "memoria
involontaria".
Mediante un confronto serrato con Freud e una ricostruzione della
"reminiscenza" nell'eta' greco-arcaica, viene sottolineato il carattere
creativo del riconoscere - che e' sempre conoscere piu' di quel che si
conosce - e dunque della memoria. Ricordare e' alla fine creare. Perche' la
memoria fa si' che l'idea sensibile si sedimenti, che divenga "essenza
carnale", proiettandola in un tempo mitico e indistruttibile; qui l'idea
sensibile si rivela un'anticipazione di conoscenza che non potra' piu'
essere richiusa e che sara' anzi destinata a venire ogni volta ripresa e
trasformata nel mistero di un'identita' che si ripete.

3. RIFLESSIONE. BRUNO SEGRE: LA MEMORIA DELLA SHOAH
[Ringraziamo Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci messo a
disposizione questo suo articolo apparso sul bel mensile "Viator" (sito:
www.viator.it), n. 2, febbraio 2005. Bruno Segre, storico e saggista, e'
nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di sociologia della cooperazione e
di educazione degli adulti nell'ambito del Movimento Comunita' fondato da
Adriano Olivetti; ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione
ebraica contemporanea" di Milano; dal 1991 presiede l'Associazione italiana
"Amici di Neve' Shalom / Wahat al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di
vita e cultura ebraica "Keshet" (e-mail: segreteria at keshet.it, sito:
www.keshet.it). Tra le opere di Bruno Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina,
Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003]

Quali sono i modi piu' significativi in cui la memoria della Shoah viene
coltivata oggi in ambito ebraico, sia in Israele che nella diaspora?
Spesso gli ebrei vengono rimproverati di fare di Auschwitz, della Shoah, un
mito, un monumento. A ben vedere le cose non stanno esattamente cosi'. Per i
sopravvissuti e per i loro eredi la Shoah, assai piu' che un monumento
rappresenta il ricordo incancellabile di un disastro, di una vicenda di
rovinosa umiliazione, di impotenza e solitudine.
Come ha scritto Yosef Hayim Yerushalmi, docente alla Columbia University di
New York, la necessita' di ricordare e' divenuta piu' urgente da quando
hanno alzato la voce "coloro che fanno a brandelli i documenti, gli
assassini della memoria e i revisori delle enciclopedie, i cospiratori del
silenzio, coloro che, come nella bellissima immagine di Kundera, possono
cancellare un uomo da una fotografia in modo che ne rimanga solo il
cappello". Quella che ci risulta intollerabile e' l'idea che persino i
crimini piu' atroci possano cadere nell'oblio. In sostanza, il bisogno di
ricordare riguarda il male.
Da piu' parti si sostiene che, in quanto male assoluto, la Shoah sia
qualcosa di indicibile, di irrapresentabile. Si tratta, in questo caso, di
un'opinione che non condivido. Ritengo infatti che anche il lavoro di coloro
che fanno storiografia avrebbe uno spessore molto inferiore se non potesse
fare riferimento proprio alle narrazioni dei testimoni diretti, dei
deportati, dei sopravvissuti. Ai fini della conservazione e trasmissione
della memoria, il racconto individuale offre spunti e risorse di una
vitalita' unica, insostituibile: basti pensare alle narrazioni e alle
riflessioni preziosissime di un grande testimone quale fu Primo Levi.
*
Ma perche' conservare e trasmettere oggi la memoria? che cosa insegna la
Shoah, in particolare a noi ebrei?
Innanzitutto non possiamo dimenticare che la Shoah ha inghiottito sei
milioni di persone: approssimativamente la meta' degli ebrei europei, ossia
circa un terzo degli ebrei del mondo, fra i quali un milione e mezzo di
bambini. Ma soprattutto, nella Shoah e' andata distrutta una civilta',
quella degli ebrei dell'Europa centro-orientale. Dell'antico scenario fisico
entro il quale si mossero e fiorirono numerose comunita' estremamente vitali
e creative, oggi non rimangono che i muri delle sinagoghe, i cimiteri, i
libri, gli oggetti rituali e d'uso quotidiano, le carte: documenti di una
storia durata poco meno d'un millennio. Pagine della storia degli ebrei,
certamente, ma anche, a pieno titolo, della storia d'Europa e - vorrei
aggiungere - della storia dell'intera umanita'.
Da questo disastro e' uscito irrimediabilmente sconvolto l'intero contesto
geopolitico degli ebrei nel mondo. La rovina dell'ebraismo europeo - che per
secoli era stato il nucleo forte dell'ebraismo mondiale - ha impresso una
cesura straordinaria nella storia degli ebrei, con la dislocazione fatale e
forse definitiva del baricentro della vita ebraica dall'Europa verso due
nuovi poli d'aggregazione e d'espressione socio-economica e culturale: lo
Stato d'Israele e la grande comunita' ebraica nord-americana.
Certo, il genocidio ebraico non rappresenta l'unico inferno cui il XX secolo
abbia dato luogo (anche se non mi sembra casuale il fatto che il termine
"genocidio" sia stato coniato dal giurista americano Raphael Lemkin nel
1943). Pur senza risalire nel tempo sino all'eccidio degli armeni
(1894-1918), rammento che nei Lager allestiti dai nazisti furono sterminati
anche gli zingari, i malati mentali, gli omosessuali, i Testimoni di Geova.
E poi ci furono gli inferni comunisti dei Gulag, ci furono i genocidi
nell'Ucraina collettivizzata, ci furono le stragi perpetrate in Camboglia
dai khmer rossi di Pol Pot. E poi, in tempi piu' vicini a noi, stermini
orrendi ebbero a registrarsi in Africa, e l'Europa fu il teatro delle
ignobili "pulizie etniche" inscenate dai popoli balcanici, condannate
retoricamente da tutti e ben presto dimenticate dai piu'. Ancora una volta,
come gia' negli anni della Shoah, eventi catastrofici lasciati accadere in
un clima di diffusa apatia e insensibilita'.
Detto cio', a mio parere il genocidio ebraico, compiutosi nel cuore stesso
di quella cultura europea e cristiana che era stata la culla della
modernita', e' e continuera' ad essere la matrice fondamentale per la
comprensione del nostro tempo storico. Evento rivelatore del contrasto tra
il potere spaventoso degli uomini e la loro inettitudine a crescere sul
terreno della civilta', si porra' per sempre quale paradigma e testimonianza
della millenaria follia del mondo.
*
In questo mondo sempre piu' orientato a rimuovere e a banalizzare il male,
e' importante che un sano impegno pedagogico dia vita a strategie educative
capaci di offrire alle generazioni piu' giovani il senso concreto di un
legame tra la vicenda dello sterminio nazista e situazioni di violenza, di
offesa ai diritti umani, di eccidi di massa che accadono oggi, pur con tutte
le differenze rispetto alla Shoah.
Il ricordo del male passato non puo' e non deve ridursi a retoriche
manifestazioni in chiave celebrativa: una sorta di illusori compensi postumi
elargiti alle vittime e ai loro eredi. Manifestazioni di questa natura sono
i prodotti di una memoria statica, capace soltanto di  dare corso a
rievocazioni del male che, per essere meramente commemorative ed
esorcistiche, rivelano una radicale sterilita'.
Da esse occorre distinguere le forme di una memoria dinamica, preoccupata di
tenere viva la consapevolezza del male al fine di favorire, semmai, la
progettazione di un futuro diverso e migliore. Infatti il ricordo
dell'orrore, seguito dalla rituale invocazione "cio' non deve accadere mai
piu'", appare destinato a rimanere privo di reale efficacia quando non si
saldi a un'interrogazione argomentata e analitica circa il presente e non si
apra con spirito critico e creativo alla progettualita'.
Se si intende evitare che la Shoah possa ripetersi o che venga emulata da
nuovi mostri, occorre andare al di la' della pura e semplice memoria
dell'orrore e spingersi avanti sul terreno della riflessione, tentando di
cogliere ogni aspetto della complessa situazione socio-culturale e storica
della quale la Shoah fu l'orribile espressione. E' allora necessario, in
particolare, sforzarsi di educare le giovani generazioni a leggere la
storia,  a comprenderne criticamente la complessita' e a mostrarsi pronte,
in ogni evenienza, a prevenire e a impedire. Il problema, in sostanza, e'
quello di conciliare il compito morale di evitare che il passato cada
nell'oblio con l'impegno a operare perche' le nuove generazioni si possano
costruire un futuro vivibile e decente, da condividere responsabilmente e
fraternamente con tutti i figli degli uomini.
*
In ambito ebraico, alcune strade in questa direzione appaiono gia'
tracciate. Mi riferisco, in primo luogo, all'esperienza di Yad Vashem, il
museo della Shoah di Gerusalemme: un'istituzione che, fin da quando vide la
luce nel 1957, volle ricordare accanto alla memoria delle vittime anche i
"giusti", ossia i protagonisti del bene, quanti a rischio della propria vita
si prodigarono per la salvezza dei perseguitati. Le vicende dei "giusti"
hanno permesso a molti fra i sopravvissuti di ritrovare la speranza
nell'umanita'. Per numerosi ebrei e per i loro figli e' stato possibile
ritornare nei Paesi che li avevano perseguitati e traditi, solo dopo avere
saputo di uomini che si erano comportati diversamente. I "giusti" sono
diventati cosi' il tramite di un riavvicinamento tra le vittime della
violenza e i popoli che li hanno oppressi.
In una direzione non dissimile si colloca il lavoro del Post-Holocaust
Dialogue Group: un'associazione internazionale creata all'inizio degli anni
Novanta da Gottfried Wagner, pronipote di Richard e figlio "degenere"
dell'attuale direttore del Festival di Bayreuth (in Germania), e da Abraham
Peck, direttore  amministrativo e dei programmi dell'Archivio
ebraico-americano di Cincinnati (negli Stati Uniti). Le iniziative di questo
gruppo mirano non gia' a ricomporre le memorie della Shoah - ancor oggi
profondamente divise - in una fittizia unita' sotto l'etichetta di una
"comune memoria" (un'operazione che, qualora venisse proposta, recherebbe
offesa a tutte le persone coinvolte a vario titolo nella tragedia), bensi' a
dare luogo al lavoro difficilissimo, e tuttavia necessario, di reciproco
riconoscimento - di dialogo, appunto - tra i figli di coloro che la Shoah
l'hanno subita e i figli di coloro che, invece, l'hanno architettata e
inflitta. Un dialogo, dunque, tra persone nate dopo lo sterminio.
Uno dei membri ebrei del gruppo, lo psichiatra newyorkese Yehuda Nir, ha
pubblicato The Lost Childhood (L'infanzia perduta), un'autobiografia che e'
stata tradotta in nove lingue. In un'introduzione all'edizione olandese,
composta con un pensiero rivolto in particolare agli studenti, Nir
interpella idealmente Gottfried Wagner con parole che esprimono tutt'intera
la tensione e la fatica di un lavoro congiunto di ricostruzione morale e
psicologica, portato avanti con estrema delicatezza dagli uni e dagli altri
attori di questo dialogo straordinario: "Gottfried, io ti vedo come un
rappresentante di questo [nuovo] mondo. Tu sei l'anti-Lohengrin, che non
nasconde il suo passato e dice: 'Per favore, Yehuda, chiedimi che cos'hanno
fatto i miei genitori'. In modo sincero ti definisci un figlio dei
persecutori, un tedesco nato dopo la Shoah. Hai affermato di essere legato
alla storia della Germania. Non chiedi perdono. Tutto cio' che desideri e'
impegnarti in un dialogo per capire che cosa e come e' successo, e se e'
possibile evitare che possa accadere di nuovo. Sei un tedesco che vuole
aiutare a creare un mondo in cui noi ebrei possiamo prendere in
considerazione il perdono".
*
Nel maggio 1960 agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, rapirono
in Argentina e portarono clandestinamente in Israele Adolf Eichmann, un
ufficiale superiore delle SS che durante la seconda guerra mondiale si era
occupato principalmente degli aspetti organizzativi dello sterminio degli
ebrei. Gli israeliani avrebbero potuto eliminarlo fisicamente  in
Argentina - la' dove si era nascosto -, ma non era questo il loro scopo.
Secondo David Ben Gurion, "padre fondatore" e massimo rappresentante
politico dello Stato d'Israele, non era l'uomo Eichmann che importava:
quello cui il Primo ministro teneva era il processo, e che questo processo
si celebrasse a Gerusalemme.
Come documenta con ampiezza lo storico israeliano Tom Segev nel suo libro Il
settimo milione (Mondadori, Milano 2001), la vera importanza del processo
Eichmann stava nella sua funzione di terapia collettiva per l'intera
societa' del neonato Stato ebraico. Prima del processo, la Shoah era quasi
completamente un tabu'. In Israele i genitori non ne parlavano ai loro
figlioli, e i figli non osavano chiederne. Un gran numero di israeliani si
sentiva in colpa per avere abbandonato i propri cari, lasciando l'Europa
prima dello sterminio. Altri, ossia i sopravvissuti, si sentivano in colpa
per essere rimasti vivi, e avevano la sensazione che si richiedesse loro
continuamente di giustificare la sopravvivenza. Altri, ancora, disprezzavano
la debolezza delle vittime e chiedevano perche' gli ebrei non si fossero
difesi. Molti, infine, affermavano di rappresentare un nuovo tipo di ebreo,
"l'uomo nuovo" propagandato dalla mitologia sionista.
Cosi', il processo Eichmann segno' in Israele l'inizio di un'evoluzione in
cui la Shoah si trasformo' da un trauma irrisolto e terribilmente doloroso
in una memoria nazionale istituzionalizzata. Con il passare degli anni, la
memoria dello sterminio divenne un elemento essenziale dell'identita'
israeliana, della cultura e della politica del Paese: una sorta di religione
civile, con un suo rituale codificato. Nella sostanza, Israele ando' via via
considerandosi lo Stato degli ebrei profughi e perseguitati, il luogo di
rifugio e di riscatto dopo gli orrori della Shoah. Cio' e' probabilmente
corretto in sede storica nel senso che, forse, senza la Shoah Israele non
sarebbe mai nato.
In anni recenti, i sondaggi d'opinione indicano con insistenza che gli
israeliani, per la maggior parte, si considerano come sopravvissuti della
Shoah, anche se sono giovani e se appartengono a famiglie che erano giunte
originariamente da Paesi musulmani. Si tratta, nel contesto israeliano, di
sviluppi naturali e per lo piu' assai spontanei: fanno parte del discorso
politico e culturale in atto entro  una societa' che non e' ancora riuscita
a trovare un accordo circa la propria identita' collettiva. Descrivere
percio' la memoria israeliana della Shoah quale un mero strumento della
propaganda sionista - come alcuni negatori della Shoah, antisionisti e
portavoce dei palestinesi fanno - puo' essere malvagio o sciocco, o entrambe
le cose. Nel caso dei palestinesi, puo' essere anche molto nocivo, poiche'
non e' possibile capire veramente Israele senza comprendere qual e' il ruolo
della Shoah nelle menti del suo popolo. E se non si capisce il nemico, non
si puo' fare la pace con esso.
Detto cio', e' innegabile che della memoria dello sterminio si e' fatto
anche, da parte di alcuni, un uso politico strumentale: gia' a partire dalla
Guerra dei sei giorni (giugno 1967), ma con accentuazioni notevoli nel corso
degli anni Ottanta e, soprattutto, in coincidenza con il recente affermarsi
nel Paese di posizioni di destra marcatamente nazionaliste e vigorosamente
antiarabe. Nel conflitto molto crudele in corso dall'autunno 2000 con i
palestinesi, infatti, non sono mancate e non mancano in Israele personalita'
politiche e opinion leaders che ritengono conveniente equiparare gli
avversari di oggi ai nazisti di ieri, ossia considerare Arafat un novello
Hitler.
Constatazioni come questa mi fanno rammentare alcune osservazioni formulate
da Abraham B. Yehoshua nel magistrale Elogio della normalita' (La Giuntina,
Firenze 1991): "Noi, in quanto vittime del microbo nazista, dobbiamo essere
portatori degli anticorpi di questa malattia tremenda da cui ogni popolo
puo' essere affetto, e in quanto portatori di anticorpi dobbiamo
innanzitutto curare il rapporto con noi stessi... Chi ha molto sofferto puo'
non rendersi conto del dolore degli altri, e questo e' un comportamento del
tutto naturale. Come alfieri dell'antinazismo dobbiamo acuire la nostra
sensibilita' e non diminuirla".
*
"Rendersi conto del dolore degli altri". Certo, nei confronti dei
palestinesi, delle loro sofferenze, della loro condizione di oppressione,
delle privazioni di liberta' cui sono attualmente soggetti, prevale fra
molti ebrei israeliani, cosi' come fra molti di noi ebrei della diaspora,
un'ostinata cecita', quasi che il carico della persecuzione subita a suo
tempo conferisca agli ebrei una sorta di superiorita' morale, capace di
esimerli da sensi di compassione per il dolore altrui. "La vittima",
ammonisce per contro Yehoshua, "non diventa morale in quanto vittima.
L'Olocausto, al di la' delle azioni turpi nei nostri confronti, non ci ha
dato un diploma di eterna rettitudine. Ha reso immorali gli assassini, ma
non ha reso morali le vittime. Per essere morale, bisogna compiere degli
atti morali e per questo affrontiamo degli esami quotidiani".
Nelle pagine dell'epilogo di Il settimo milione, Tom Segev racconta di una
sua visita nel 1990 al generale Yossi Peled, un militare ben difficilmente
incasellabile nel novero dei cosiddetti "falchi", anzi, molto vicino e in
sintonia con gli orientamenti politici - aperti e animati da spirito
conciliante - di un Yitzhak Rabin. Risulta tuttavia con chiarezza che, al
pari di ampi settori dell'opinione israeliana, Peled conserva della Shoah un
ricordo ossessivo, angoscioso. Lo si evince da alcuni brani di una sua
lettera, che Segev cita: "Piu' invecchio, piu' il legame con il passato si
fa stretto, e il mio passato, che e' il passato della nostra nazione,
acquista sempre piu' forza e importanza... Molte delle cose che faccio da
anni sgorgano da quel terribile passato. E per essere onesto fino in fondo,
esse rappresentano il mio sforzo per far si' che quello che e' successo alla
mia famiglia e ai sei milioni di morti non succeda ai miei figli nati in
Israele. E' questa la mia vera motivazione".
Quasi a fare da contrappunto a tali parole, mi piace rammentare alcuni
passi - di ben diverso tenore - dell'articolo Dimenticare, scritto per
"HaAretz" (16 marzo 1988) da Yehuda Elkana, direttore dell'Istituto di
Storia della scienza e delle idee dell'Universita' di Tel Aviv, egli stesso
un sopravvissuto alla Shoah. "Per noi stessi non vedo un compito educativo
maggiore che quello di impegnarci nel costruire il nostro futuro in questa
terra senza sbandierare ogni giorno i simboli orrendi, le cerimonie
strazianti e le lezioni deprimenti della Shoah. L'elemento politico e
sociale piu' profondo che motiva la maggior parte della societa' israeliana
nel suo rapporto con i palestinesi e' un'angoscia esistenziale, alimentata
da un'interpretazione particolare della lezione della Shoah e dalla
predisposizione a ritenere che tutto il mondo sia contro di noi, che noi
siamo le vittime eterne. In questa antica credenza, condivisa da molti di
noi in Israele oggi, io vedo la vittoria tragica e paradossale di Hitler.
Due nazioni, parlando metaforicamente, sono emerse dalle ceneri di
Auschwitz: una minoranza che dice che cio' non deve accadere mai piu', e una
maggioranza spaventata e ossessionata che dice: 'questo non deve accadere
mai piu' a noi'. Se queste sono le due uniche possibili lezioni, io sono
molto piu' vicino alla prima. Vedo la seconda come catastrofica. La storia,
la memoria collettiva, sono certamente una parte inseparabile di ogni
cultura, ma il passato non deve diventare l'elemento determinante del futuro
di una societa' e del destino di un popolo".

4. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: LEVAR LA MANO SU DI SE'
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e  curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Ha recentemente pubblicato, con altri coautori, Il desiderio e l'identita'
maschile e femminile. Un percorso di ricerca, Franco Angeli, Milano 2004. Su
Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]

I quotidiani hanno dato la notizia del suicidio collettivo di tre persone a
Bologna.
Fa sempre un certo effetto, ma non vuol dire che sappiamo interrogarci e
trarne qualche riflessione e  conseguenza. Anzi, credo che si tenda ad
applicare la rimozione collettiva.
Si tratta di un noto gastroenterologo di 63 anni, di sua moglie e di suo
figlio di 29. I quotidiani hanno anche dato notizia delle lettere che i due
coniugi hanno lasciato ai parenti, nelle quali spiegano - e giustificano- la
loro scelta di togliersi la vita. Il medico ha iniettato una sostanza
altamente letale al figlio e alla moglie e poi a se stesso. Il figlio da
diversi anni giaceva  a letto paralizzato a causa di un brutto incidente
perche' l'airbag, uscendo, l'aveva proiettato contro il soffitto dell'auto
causandogli lesioni cerebrali gravissime. Ora le sue condizioni erano
peggiorate: aveva difficolta' di respirazione, come spiega la moglie nella
lettera di addio. Entrambi quindi, in compagnia del fantasma della fine di
uno dei due, hanno pensato che la soluzione ideale sarebbe stata quella di
scomparire dalla vita. La possiamo anche definire una situazione di
depressione familiare, ma a me non pare sufficiente.
Sono abbastanza convinta che questa tragedia faccia notizia non soltanto
perche' il medico era un primario noto a Bologna. C'e' di mezzo un mutamento
di sensibilita' che viene registrato, soltanto registrato, anche  dai media.
La cultura cattolica ha alla base sia il rifiuto del suicidio che l'etica
della sofferenza. La vita e' un dono di Dio e comunque va vissuta fino alla
sua fine "naturale". E se si deve vivere anche con inumane sofferenze
fisiche e psichiche, fa lo stesso. O meglio, la sofferenza puo' essere
accettata come segno di predilezione da parte di Dio, che cosi' chiama la
persona a partecipare alla stessa sofferenza del Cristo per la salvezza
dell'umanita'. La Chiesa e' totalmente contro l'eutanasia.
Le donne, nell'antica educazione cattolica, a imitazione della Madonna dei
sette dolori (simboleggiata dalla sette spade che le trafiggono, in molta
iconografia, il petto), dovevano dimostrare la grandezza sublime del patire
sulla terra "valle di lacrime". L'unica sana della famiglia era la moglie,
una pianista, scrivono i cronisti. Forse quindi anche una donna realizzata.
Avrebbe, appunto, da brava madonna, dovuto accettare la morte del marito e
l'iniqua sofferenza del giovane figlio, fino alla fine di lui o sua. E
allora il messaggio che ci danno e' proprio quello del rifiuto della
sofferenza che non ha soluzione, perche' la sua sublimazione mistica non e'
piu' una strada facilmente accettabile.
Un mutamento non da poco perche' ci costringe a pensare in termini diversi
il percorso di vita come sta accadendo nel mondo dei vecchi la cui
sofferenza, oltre che fisica, e' anche psicologica a causa del senso di
inutilita' e della situazione spesso di grande solitudine esistenziale. Le
inchieste ci dicono che i vecchi temono soprattutto la perdita
dell'autonomia e la sofferenza fisica.Temono di diventare un peso per i
figli non piu' inclini a  seguire e accudire i vecchi genitori come una
volta. Stiamo entrando in una fase storica, in occidente soprattutto, che
mette alla prova gli antichi significati religiosi della sofferenza della
vita o li ha gia', in parte, cancellati.

5. LUTTI. MAURIZIO MATTEUZZI RICORDA GLADYS MARIN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 marzo 2003. Maurizio Matteuzzi,
giornalista e saggista, e' un profondo conoscitore della realta'
latinoamericana]

Gladys Marin e' morta ieri mattina a Santiago del Cile, a 63 anni. Gladys
era il presidente del Partito comunista. Ma era molto di piu'. Il grande
trobador cubano Silvio Rodriguez, suo grande amico e autore della prefazione
della sua autobiografia uscita appena prima della morte, La vida es hoy,
disse e scrisse di lei che "con la vita di Gladys scorre quella del Cile".
Gladys era una gran donna, e' stata la "pasionaria" cilena. Esplosiva
d'energia e d'allegria, durissima come politica e dolcissima come persona.
Rivoluzionaria professionale, con tutte i crismi propri dell'ortodossia del
Partito comunista, e allo stesso tempo donna che sapeva di essere bella e
adorava essere ammirata e esibire la sua bellezza e il suo charme. Un tempo,
negli indimenticabili anni '60 quando era entrata da poco in politica e
partecipava alle marce e agli scontri per il Vietnam, furono famose le sue
minigonne e le sue gambe tornite divennero un mito fra compagni e avversari.
Bella fino all'ultimo, anche quando la malattia - un tumore maligno e
incurabile al cervello - l'aveva ormai colpita e segnata.
Gladys e' morta ieri all'una del mattino, nella sua casa di La Florida, a
Santiago, assistita dai suoi due figli Alvaro e Rodrigo, da sua sorella
Nancy e dalla sua grande amica Marta Friz che, durante gli anni della
clandestinita' dopo il golpe di Pinochet e l'esilio, divenne la "madre
posticcia" dei suoi due allora bambini. Jorge Munoz, il padre, anche lui
comunista che sposo' nel '61, fu arrestato nel '76, mentre lei era in esilio
e da allora e' uno dei tremila desaparecidos.
Il feretro, coperto con la bandiera rossa e rose rosse, e' stato portato nel
salone d'onore dell'ex Congresso nazionale - grazie a Pinochet il parlamento
fo spostato a Valparaiso e li' e' inspiegabilmente rimasto -, domani 8 marzo
le esequie pubbliche fino al cimitero generale, lo stesso in cui e' tornata
a riposare la salma di Salvador Allende, dove sara' cremata.
Proprio perche' Gladys era Gladys la sua morte, per quanto annunciata, e'
stata un colpo che va molto oltre l'ambito dei militanti e simpatizzanti
comunisti. Il governo della Concertacion - la coalizione imperniata su
socialisti e democristiani al governo dal '90 - e il presidente Ricardo
Lagos, ai quali non ha mai risparmiato le sue critiche sferzanti, hanno
decretato un lutto nazionale di due giorni. Oggi e domani la bandiera cilena
sara' a mezz'asta su tutti gli edifici pubblici, a cominciare dal palazzo
della Moneda alle caserme di quei militari di cui e' stata nemica
implacabile fino all'ultimo.
Fra i primi a rendere omaggio a Gladys, ieri, Hortensia Bussi e Isabel
Allende, l'anziana vedova del presidente socialista morto alla Moneda, e la
figlia, oggi deputata socialista. "E' stata una straordinaria combattente,
coerente fino all'ultimo, una donna di grande valore e coraggio. In Gladys
c'e' molta storia", ha detto Isabel.
Gladys Marin ha guidato il Partito comunista cileno nella fase piu' diffcile
della sua lunga storia, una fase in cui il Pc e' dovuto passare dal ruolo
della forza marxista piu' poderosa dell'America latina agli inizi degli anni
'70 a quello di una forza marginale ed extraparlamentare degli inizi degli
anni '90, dopo il ritorno - allora solo parziale - della democrazia. Da
allora il Pc, nonostante abbia mantenuto un radicamento in ambito sindacale
e studentesco, non ha piu' avuto un seggio in parlamento. In parte per i
suoi errori e per la crisi del comunismo, in parte per il perverso sistema
elettorale binominale imposto dalla costituzione pinochettista dell'80 e
incredibilmente ancora intatto.
Gladys Marin era nata il 16 luglio del '42 da un padre contadino e una madre
maestra. Lei stessa divenne maestra e prima di entrare nella Gioventu'
comunista era passata per quella cattolica. A ventitre anni fu eletta per la
prima volta in parlamento, poi di nuovo nel '70 e nel marzo '73. Dopo il
golpe dell'11 settembre il suo nome comparve nella lista dei cento
"sovversivi" piu' ricercati dalla giunta militare. Lei passo' alla
clandestinita' e nel dicembre fu obbligata dalla leadership del Pc a
rifugiarsi nell'ambasciata d'Olanda a Santiago, dove rimase otto mesi. Poi
l'esilio in Olanda e Costa Rica, e il ritorno in Cile per organizzare la
resistenza clandestina. Per anni non pote' neppure avvicinare i suoi due
figli, rimasti anche orfani di padre, ma solo vederli di tanto in tanto da
lontano. A partire dal '94 fu eletta per tre volte a capo del Pc. Candidata
presidenziale comunista nel '99. Il 12 gennaio '98, dieci mesi prima
dell'arresto di Pinochet a Londra, Gladys Marin presento' la prima denuncia
penale per genocidio e sequestro di persona contro l'ex dittatore che era
ancora comandante in capo dell'esercito. Sembrava una battaglia persa. Ma la
denuncia fu accolta e a istruirla fu designato il giudice Juan Guzman: fu
l'inizio della fine per il vecchio macellaio. Nel 2002 i primi sintomi del
tumore. Fu operata a Stoccolma dal dottor Inti Peredo, figlio di uno dei
compagni del Che in Bolivia, ma la diagnosi fu infausta. Ando' a piu'
riprese a Cuba, ospite di Fidel, a curarsi. Ma tutti, a cominciare da lei,
sapevano che non c'era niente da fare. Nel dicembre scorso e' tornata a
Santiago, per morire in Cile. Ieri la fine. Sempre in prima fila negli
scontri di piazza, piu' volte arrestata, sempre indomabile nei successi e
negli errori. Per domarla c'e' voluta un tumore.

6. TESTIMONIANZE. MARCELO BARROS RICORDA SUOR DOROTHY STANG
[Ringraziamo Francesco Comina (per contatti: f.comina at ladige.it) per averci
messo a disposizione questa testimonianza di Marcelo Barros estratta da una
sua piu' ampia lettera.
Marcelo Barros, monaco brasiliano, teologo della liberazione, priore del
monastero benedettino di Goias Velho, impegnato per i diritti umani di tutti
gli esseri umani, ha scritto con Francesco Comina il libro Il sapore della
liberta', La meridiana, Molfetta (Bari) 2005.
Un profilo di suor Dorothy Stang, scritto da Maurizio Matteuzzi, e' nel n.
843 di questo foglio]

Qui in Brasile, stiamo ancora vivendo il dramma del martirio della sorella
Dorothy Stang. Era una suora nord-americana, naturalizzata brasiliana, che
ho conosciuto negli anni '70 e che ha sempre lavorato con i contadini nello
stato del Para'. Abbiamo lavorato insieme nella pastorale della terra,
quando io ero segretario della Commissione Pastorale della Terra, per alcuni
anni le sono stato molto vicino. Quando l'hanno assassinata aveva 73 anni.
Mi ricordo sempre il suo sorriso di pace e di fermezza, la forza con la
quale difendeva i contadini minacciati di schiavitu', l'impegno di denuncia
contro la destruzione della fioresta amazzonica.
La stampa qui in Brasile pubblica le parole di un testimone che ha visto
suor Dorothy parlare con il suo assassino: "Non faccia questo" - gli ha
detto - "Segua il cammino di Dio. Sono soltanto una vecchia senza difese.
Non faccia questo, figlio mio. Vada a casa sua e si prenda cura dei suoi
figli e di sua moglie". Queste sono state le sue ultime parole.
Ho appena ricevuto una e-mail di Joao Paulo, un giovane di Brasilia, molto
legato al monastero dell'Annunciazione di cui sono priore. Joao aveva
pensato di entrare nella comunita'. Con il martirio della suora, ha deciso
di andare adesso in Amazzonia come avvocato del Movimento Sem Terra).
Pregate per lui.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 865 dell'11 marzo 2005

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