La nonviolenza e' in cammino. 862



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 862 dell'8 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Giuliana Sgrena: La mia verita'
2. Anna Bravo: Noi e la violenza, trent'anni per pensarci (parte prima)
3. Tre note sul saggio di Anna Bravo
4. Edi Rabini: La scomparsa di Lisa Foa
5. Anna Achmatova: Nella notte vuota
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: LA MIA VERITA'
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 marzo 2005. Giuliana Sgrena,
intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e'
tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e
islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di,
La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i
califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma
2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e' stata inviata del
"Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente
stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4
febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo. Dal sito del quotidiano "Il
manifesto" riprendiamo, con minime modifiche, la seguente scheda: "Nata a
Masera, in provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948, Giuliana ha
studiato a Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra', la rivista
diretta da Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha sempre
lavorato nella redazione esteri: appassionata del mondo arabo, conosce bene
il Corno d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato la guerra in
Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a Baghdad durante i
bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate 'cavaliere del
lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di tutto di
raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con
professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese.
Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le
fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a
parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista"]

Sto ancora nel buio. E' stata quella di venerdi' la giornata piu' drammatica
della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo
parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi
avrebbero liberato. Vivevo cosi' ore di attesa. Parlavano di cose delle
quali soltanto dopo avrei capito l'importanza. Dicevano di problemi "legati
ai trasferimenti". Avevo imparato a capire che aria tirava
dall'atteggiamento delle mie due "sentinelle", i due personaggi che mi
avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare che mostrava attenzione
ad ogni mio desiderio, era incredibilmente baldanzoso. Per capire davvero
quello che stava succedendo gli ho provocatoriamente chiesto se era contento
perche' me ne andavo oppure perche' restavo. Sono rimasta stupita e contenta
quando, era la prima volta che accadeva, mi ha detto "so solo che te ne
andrai, ma non so quando". A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo
a un certo punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a
scherzare: "Complimenti - mi hanno detto - stai partendo per Roma". Per
Roma, hanno detto proprio cosi'.
Ho provato una strana sensazione. Perche' quella parola ha evocato subito la
liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho capito che era
il momento piu' difficile di tutto il rapimento e che se tutto quello che
avevo vissuto finora era "certo" ora si apriva un baratro di incertezze, una
piu' pesante dell'altra. Mi sono cambiata d'abito. Loro sono tornati: "Ti
accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi
senno' gli americani possono intervenire". Era la conferma che non avrei
voluto sentire. Era il momento piu' felice e insieme il piu' pericoloso. Se
incontravamo qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato
uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto.
Dovevo avere gli occhi coperti. Gia' mi abituavo ad una momentanea cecita'.
Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva piovuto. La
macchina camminava sicura in una zona di pantani. C'era l'autista piu' i
soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa che non avrei voluto
sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi
ci eravamo fermati. "Stai tranquilla, ora ti verranno a cercare... tra dieci
minuti ti verranno a cercare". Avevano parlato per tutto il tempo sempre in
arabo, e un po' in francese e molto in un inglese stentato. Anche stavolta
parlavano cosi'.
*
Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilita' e cecita'.
Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da sole. Ero ferma.
Ho pensato... che faccio? comincio a contare i secondi che passano da qui ad
un'altra condizione, quella della liberta'? Ho appena accennato mentalmente
ad una conta che mi e' arrivata subito una voce amica alle orecchie:
"Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele
Polo, stai tranquilla sei libera".
Mi ha fatto togliere la "benda" di cotone e gli occhiali neri. Ho provato
sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di
questo "Nicola". Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi
amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione quasi fisica,
calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La macchina continuava la sua
strada, attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere, e quasi
sbandando per evitarle. Abbiamo tutti incredibilmente riso. Era liberatorio.
Sbandare in una strada colma d'acqua a Baghdad e magari fare un brutto
incidente stradale dopo tutto quello che avevo passato era davvero non
raccontabile. Nicola Calipari allora si e' seduto al mio fianco. L'autista
aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo
diretti verso l'aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe
americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto... quando... Io
ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si e'
abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti
prima.
L'autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, "siamo italiani,
siamo italiani...", Nicola Calipari si e' buttato su di me per proteggermi,
e subito, ripeto subito, ho sentito l'ultimo respiro di lui che mi moriva
addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo perche'. Ma ho avuto
una folgorazione, la mia mente e' andata subito alle parole che i rapitori
mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a
liberarmi, pero' dovevo stare attenta "perche' ci sono gli americani che non
vogliono che tu torni". Allora, quando me l'avevano detto, avevo giudicato
quelle parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me
rischiavano di acquistare il sapore della piu' amara delle verita'.
Il resto non lo posso ancora raccontare.
*
Questo e' stato il giorno piu' drammatico. Ma il mese che ho vissuto da
sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese
da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni piu' profonde. Ogni
ora e' stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in
giro, arrivavano a chiedermi perche' mai volessi andar via, di restare.
Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella
priorita' che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia.
"Chiedi aiuto a tuo marito", dicevano. E l'ho detto anche nel primo video
che credo avete visto tutti. La vita mi e' cambiata. Me lo raccontava
l'ingegnere iracheno Ra'ad Ali Abdulaziz di "Un Ponte per" rapito con le due
Simone, "la mia vita non e' piu' la stessa", diceva. Non capivo. Ora so
quello che voleva dire. Perche' ho provato tutta la durezza della verita',
la sua difficile proponibilita'. E la fragilita' di chi la tenta.
Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero
semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: "Ma come, rapite
me che sono contro la guerra?!". E a quel punto loro aprivano un dialogo
feroce. "Si', perche' tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un
giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di
essere contro la guerra potrebbe essere una copertura". E io ribattevo,
quasi a provocarli: "E' facile rapire una donna debole come me, perche' non
provate con i militari americani?". Insistevo sul fatto che non potevano
chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore
"politico" non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed e'
contro la guerra.
*
E' stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande
depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdi' del
rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una
parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Li' ho visto la
mia foto in gigantografia appesa al palazzo del Comune di Roma. E mi sono
rincuorata. Poi pero', subito dopo, e' arrivata la rivendicazione della
Jihad che annunciava la mia esecuzione se l'Italia non avesse ritirato le
sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano
loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei "provocatori". Spesso
chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il piu' disponibile che
comunque aveva, con l'altro, un aspetto da soldato: "Dimmi la verita', mi
volete uccidere". Eppure, molte volte, c'erano strane finestre di
comunicazione, proprio con loro. "Vieni a vedere un film in tv", mi
dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per
casa e mi accudiva.
I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera
sui versetti del Corano. Ma venerdi', al momento del mio rilascio, quello
tra tutti che sembrava il piu' religioso e che ogni mattina si alzava alla
cinque per pregare, mi ha fatto le sue "congratulazioni" incredibilmente
stringendomi fortemente la mano - non e' un comportamento usuale per un
fondamentalista islamico -, aggiungendo "se ti comporti bene parti subito".
Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani e' venuto da me
esterrefatto sia perche' la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle citta'
europee e sia per Totti. Si' Totti, lui si e' dichiarato tifoso della Roma
ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in
campo con la scritta "Liberate Giuliana" sulla sua maglietta.
*
Ho vissuto in una enclave in cui non avevo piu' certezze. Mi sono ritrovata
profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che
bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo
nell'alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata
per colpa del mio lavoro. "Noi non vogliamo piu' nessuno", mi dicevano i
sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle
parole dei profughi. E quella mattina gia' i profughi, o qualche loro
"leader", non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale
delle analisi su quello che la societa' irachena e' diventata con la guerra
e loro mi sbattevano in faccia la loro verita': "Non vogliamo nessuno,
perche' non ve ne state a casa, che cosa ci puo' servire a noi questa
intervista?". L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la
comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando
il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere
l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che
cosa e' diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che
chiamano elezioni.
Ora mi chiedo. E' un fallimento questo loro rifiuto?

2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: NOI E LA VIOLENZA, TRENT'ANNI PER PENSARCI
(PARTE PRIMA)
[Dal sito www.donnealtri.it riprendiamo il seguente saggio di Anna Bravo
pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Genesis", saggio su cui si e'
sviluppato un ampio dibattito (sebbene molti degli interventi in tale
dibattito abbiano fatto riferimento piuttosto ad articoli giornalistici che
di esso davano sommariamente notizia che non al testo integrale di esso).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, si e' occupata tra l'altro di
Resistenza, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; ha fatto parte
del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita
promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte. Opere
di Anna Bravo: La vita offesa (con Daniele Jalla), Angeli, Milano 1986; Una
misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia (con
Daniele Jalla), Milano 1994; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza,
Roma-Bari 1991; In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 (con Anna
Maria Bruzzone), Laterza, Roma-Bari 1995]

Premessa
Il (quasi) vuoto storiografico sui femminismi anni settanta e' una doppia
anomalia. Di solito i movimenti che hanno vinto le loro sfide non faticano a
trovare velocemente storici e narratori. Se poi nelle loro file si contano
un certo numero di intellettuali e una componente acculturata, la storia e
il suo primo pubblico possono nascere dall'interno stesso del movimento. Non
cosi' il femminismo, che pure e' l'unico dei soggetti emersi fra il '68 e la
fine del decennio settanta a aver collezionato successi durevoli, anche se
ambivalenti. E che, ancora piu' del '68, si e' caratterizzato per la forte
presenza di ceto medio colto.
Alle ipotesi storiografiche su questa anomalia, vorrei aggiungere il
rapporto irrisolto con la violenza. Non la violenza che lo stato e i gruppi
neofascisti hanno rovesciato sui movimenti, non la violenza esercitata
contro il corpo delle donne, ma quella di cui in vario grado portiamo una
responsabilita' per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata -
una questione che e' rimasta fuori o ai margini estremi della ricerca
storica e della riflessione politica. Scorrendo le annate di "DWF" e di
"Memoria", due riviste classiche degli studi delle donne, ho riscoperto in
un numero del 1980 un articolo di 70 pagine sul legame del femminismo con le
sinistre (in particolare con il leninismo!) in cui il tema della violenza
non viene neppure nominato; lo stesso nei per altro piu' interessanti
commenti critici che lo accompagnano. Come se la cosa non ci riguardasse
(dominio patriarcale?), o come se la dessimo per scontata (adesione al
modello del movimento operaio ufficiale?).
Il "noi" che ha avuto trent'anni per pensarci e' costituito dalle tante che
all'epoca si sono sentite - continuativamente, a tratti, in una sola
occasione - parte del femminismo, e temono che quell'esperienza possa
restare, come ha ammonito Lea Melandri, una "rivoluzione senza memoria". E
si' che le sue molte anime facevano sperare in una storia a piu' facce, e
hanno comunque contribuito a produrre l'arco amplissimo di argomenti e di
temporalita' su cui abbiamo lavorato - in questo casi il noi include
ricercatrici/tori di seconda generazione. Per contrastare le vaghezze di un
pronome sempre sconsigliabile, tranne nel caso di affiliazioni codificate,
cerchero' di volta in volta di specificare a quale noi faccio riferimento.
Tengo a precisare che parlo della violenza perche' sento il bisogno di una
riflessione di donne, ma che gli anni fra il '67-'68 e la fine del decennio
settanta, compresa la sua seconda meta', sono stati soprattutto altro: il
tempo in cui uno spaccato consistente di giovani donne e uomini ha avuto il
privilegio di sperimentare la presa di parola, di vivere e inventare in
comune, guardando al futuro con un'intensita' e una fiducia poco
comprensibili oggi, quando ormai la parola cambiamento evoca scenari
allarmanti. Quel che noi donne abbiamo dato e ricevuto lungo quegli anni, e
che e' oggetto di giudizi molto diversi, non e' qui in discussione.
Quello che segue e' un abbozzo fondato sui pochi testi in cui il problema
della violenza affiora, su dialoghi con amiche di allora e di oggi, sulla
mia memoria autobiografica, con i vantaggi e i rischi che comporta, su
vicende degli anni successivi lungo le quali molte idee sono cambiate, per
me come per altre; sarei felice se la ricerca smentisse il pessimismo di
alcune osservazioni. Lo sfondo e' soprattutto torinese. Non mi sembra un
limite grave, le riflessioni piu' originali si devono finora a studi di
dimensione locale, e Torino, se non e' stata all'avanguardia del femminismo,
ha contato molto come laboratorio, soprattutto per quanto riguarda le donne
dei gruppi extraparlamentari e del sindacato.
*
Un esperimento torinese
A farmi ripensare alla violenza e alla sua collocazione nella memoria degli
anni settanta, ha contribuito un avvenimento gioioso. Il 27 novembre 1987, a
Torino, alcuni ex del sessantotto hanno organizzato una festa per il
ventennale dell'occupazione di palazzo Campana, la vecchia sede
universitaria che aveva visto il debutto del movimento - stesso luogo,
nessun discorso, torte giganti, i Nomadi che suonavano. A qualcuno e' venuto
in mente che sarebbe stato interessante rivedersi per continuare a parlare.
Ci siamo assemblati a caso, indipendentemente dalle vecchie amicizie e
appartenenze, e tempo qualche settimana eravamo una microcomunita' chiusa
all'esterno, 13 persone che si ritrovavano ogni 15 giorni per intervistarsi
a vicenda, dodici a interrogare una a rispondere.
Da questa autoricerca durata tre anni, a volte cupa a volte ridanciana, sono
uscite decine di ore di registrazione, piu' di duemila pagine trascritte.
Oggi la vedo come una riappropriazione collettiva del principio di realta'
nei confronti della memoria che avevamo coltivato di quella fase, o almeno
di alcuni suoi aspetti, per esempio la rapidita' con cui palazzo Campana si
era trasformato da casa-nido-tana, in zona libera da difendere, poi in
avamposto da cui muovere bellicosamente verso l'esterno, o il dileguarsi
dell'ala situazionista-hippie torinese di fronte all'ala "politica" dei
pisani.
Sulla violenza, il dato nuovo era che ci riferivamo quasi sempre alla
nostra, raramente a quella della parte avversa, un bel salto di qualita' per
ex protagonisti di movimenti in cui si era fatto molto uso della
distruttivita' altrui per legittimare la propria - il che non diminuisce la
tragedia degli uccisi, da Franco Serantini a Giorgiana Masi. Ricordo scorci
imprevisti - un dirigente del servizio d'ordine di Lotta continua raccontava
di aver immaginato la rivoluzione come uno scenario buio e stagnante, occhi
sbarrati che spiavano dalle inferriate di qualche cantina, come se si fosse
identificato, invece che con i rivoluzionari, con i braccati; un'altra si
sentiva ancora in debito per aver scritto e parlato contro la violenza in
termini piu' da anima bella che da militante. Spesso si trattava di flash, e
non di tutti; c'erano una Bella addormentata e uno Smemorato di Collegno che
tacevano o si stupivano. Non solo: aver messo al centro la soggettivita'
aveva un effetto di svelamento e insieme di offuscamento: nessuno faceva
appello al contesto per "spiegare" i comportamenti, a differenza di quel che
e' avvenuto in varie memorie di terroristi; ma nessuno spingeva
l'interrogazione oltre certi margini di sicurezza, quasi volessimo
proteggere una zona vulnerabile - altra cosa, comunque, dell'aura di
insindacabilita' che di li' a poco sarebbe stata conferita al cosiddetto
versante soggettivo. Sulla violenza nei rapporti uomo/donna ci attenevamo
cautamente al passato.
Era un materiale significativo per quel che diceva e per quel che non
diceva, curioso, a tratti davvero nuovo. Non abbiamo mai accettato di
renderlo pubblico in qualche forma, eppure tre di noi facevano gli storici,
quattro gli insegnanti, uno il sociologo, un altro scriveva narrativa. Le
duemila pagine sono rimaste li'. Perche', credo, eravamo consapevoli che su
due punti, la violenza e i rapporti uomo/donna, ci eravamo fermati a meta'
strada. Gli stessi terreni su cui si era consumata la dissoluzione di Lotta
continua avevano finito per logorare il nostro "Paradiso bimbi", come
scherzava una di noi alludendo alla rimozione del conflitto fra i sessi,
della distruttivita incorporata in ogni dinamica di gruppo - e, nei termini
che ho detto, della violenza. Metto in conto anche il rispetto per gli
assenti, e quel tanto di spirito di corpo che nasceva "dall'aver fatto il
militare insieme", espressione con cui uno di noi sintetizzava la prevalenza
dell'immaginario maschile e una visione dell'impegno politico come rito di
passaggio. Ma c'era di piu', una sorta di sbarramento nella memoria, una
resistenza quasi fisica al rovistare negli angoli oscuri del passato.
Anni dopo, quando Aldo Cazzullo mi ha chiesto un'intervista per il libro su
Lotta continua destinato a diventare I ragazzi che volevano fare la
rivoluzione, ho risposto che non avrei potuto raccontare senza parlare della
violenza, e che non ero pronta a fare i conti con i miei peccati di
omissione - troppo "interne" le critiche che avevo avanzato all'epoca,
troppo tardiva la presa d'atto del vincolo fra mezzi e fini. Esagerare le
proprie responsabilita' puo' essere una autolegittimazione a tacere. Mi sono
chiesta se era stato cosi' per altre - di alcune lo so - e quanto la
violenza fosse un ingombro anche per la ricerca, impossibile ignorarla,
doloroso analizzarla.
Come problema storico-teorico e come dannazione del presente, molte di noi
se ne sono fatte carico in vari modi. Dunque la "svagatezza" sugli anni
settanta sembra soprattutto una questione di biografia individuale e
collettiva. Come se la rivoluzione delle donne, pacifica, sostanzialmente
vittoriosa, durevole, si fosse guardata allo specchio sentendosi rispondere
"sei la piu' bella del reame", e non accettasse di incrinare quell'immagine.
O come se il femminismo, vissuto come seconda nascita, avesse fatto tabula
rasa delle storie e delle responsabilita' precedenti.
Dietro le metafore, le domande sono: fino a che punto siamo riuscite a
smontare le forme mentali e le categorie correnti sul nodo della violenza e
della sofferenza; fino a che punto ha senso oggi difenderci dalla memoria di
quel che e' avvenuto prima della seconda nascita, o che ci ha contornato in
seguito?
*
Una lotta non (troppo) ideologica
Quando si nomina la violenza dei movimenti anni settanta, ci si riferisce di
solito allo scontro di piazza, ai picchettaggi, all'"antifascismo militante"
(su un diverso piano al terrorismo). Ma c'e' una violenza che ha una storia
infinitamente piu' lunga e piu' complicata, quella dell'aborto, in cui il
corpo femminile e' oggetto di manipolazione cruenta e nello stesso tempo
tramite dell'aggressione contro il feto. Di fronte alla somma di
sopraffazioni patite dalle donne, anche oggi si ha quasi paura di scegliere
il punto di vista della distruttivita' in cui siamo invischiate. Dietro
certe semplificazioni e silenzi di allora, c'era la fatica di districarsi
fra la consapevolezza di essere vittime e quella di non essere solo vittime,
e non le sole. Si puo' ben capire - eravamo giovani, nel pieno della lotta
per la depenalizzazione esplosa in tutto il mondo occidentale, si viveva di
corsa e lo trovavamo naturale. Ma in seguito? sono passati piu' o meno
trent'anni, e non siamo state sempre sotto assedio, come avviene oggi con la
legge 40 del 2004 sulla procreazione assistita.
Per chi non c'era o ha dimenticato, bisogna accennare a tre scenari almeno.
Il primo e' il processo secolare lungo il quale il potere religioso,
politico, medico-scientifico - si puo' davvero dire potere patriarcale - e'
arrivato a imprigionare il corpo femminile, fino a dichiarare madre e feto
realta' separate e contrapposte. Le leggi e la loro applicazione potevano
essere piu' o meno dure, le motivazioni variare dalla tutela della persona e
del pudore agli interessi della nazione o di un'ideologia totalitaria. Sono
distinzioni rilevanti sul piano giuridico e politico, e prima ancora per la
vita delle donne. Una cosa e' la maggiore ingerenza dello stato nei paesi
democratici, dove si accompagna all'ampliamento dei diritti legati alla
cittadinanza, al suffragio femminile, spesso al potenziamento
dell'informazione sugli anticoncezionali - e al libero confronto di
opinioni. Tutt'altra cosa e' il dominio sui corpi nella Germania nazista,
nell'Urss di Stalin, nell'Italia fascista. Anche su questo terreno i
totalitarismi non sono la verita' nascosta delle democrazie. Resta il fatto
che il controllo sul corpo e la natalita' da parte degli stati e delle
istituzioni medico-scientifiche e' un aspetto della modernita'; e che le
normative riducono la donna a ambiente di crescita del feto e a sua
potenziale nemica. Fra la Mater dolorosa e Medea, versione procreativa
dell'antinomia vergine/puttana, non c'e' spazio per la paura, il dubbio, la
sprovvedutezza, il sacrosanto rifiuto del sacrificio a tutti i costi, la
voglia di autonomia, e altro ancora.
Pochi cenni sul secondo scenario, che descrive quel che e' stato l'aborto
fino alla legge 194 del 1978. Clandestinita' a caro prezzo, metodi sempre
pericolosi, a volte mortali; per chi poteva, cliniche in Italia o viaggi a
Londra. Dietro la ventata di liberazione sessuale dei primi anni settanta,
c'erano ancora molta paura e ignoranza, mentre lo speciale potere della
Chiesa cattolica nella politica nazionale e la prudenza del partito
comunista sul tema ostacolavano le prospettive di riforma. Il rischio era
che per reazione il movimento delle donne imboccasse una deriva ideologica.
Il terzo scenario mostra che non e' andata del tutto cosi'.
La campagna inizia nel 1971, quando il neonato Movimento di Liberazione
della Donna, vicino al partito radicale, lancia una raccolta di firme per
una legge di iniziativa popolare che abolisca il reato di aborto, senza
introdurre norme in positivo. La facolta' delle donne di decidere se essere
madri e' fatta rientrare (insieme a violenza sessuale, lavoro, salute)
nell'alveo dei diritti civili; che la legge criminalizzi una pratica
secolare e' la prova del limite posto alla autodeterminazione delle donne,
dunque depenalizzare l'aborto equivale a reintegrarle nella piena
cittadinanza.
La prima a respingere la proposta, lo stesso anno 1971, e' probabilmente
Carla Lonzi, che insiste sul nesso fra maternita' e sessualita' femminile
imposto come legge naturale dal sistema dei rapporti di genere; la domanda
da porsi non e' se abortire o no, e': "per il piacere di chi sto
abortendo?". Anche la Libreria delle donne di Milano rifiuta il concetto di
diritto di aborto, che lo assimilerebbe a una tappa nell'allargamento
graduale dei diritti civili e umani, e discute, ma con il timore di esporla
apertamente, la posizione delle "disinteressate al problema dell'aborto",
"l'obiezione della donna muta , di quella cioe' che non vuole essere
descritta, illustrata, difesa da nessuno". Ad alcuni collettivi sembra
assurdo sostenere una legge che pretenda di decidere sul corpo di altre
donne, e che finirebbe per favorire l'irresponsabilita' maschile; di fronte
a una gravidanza inopportuna, un uomo potrebbe piu' facilmente caldeggiare
l'aborto. Previsione in parte sbagliata: con l'enfasi crescente sulla
maternita' e sulla paternita', il maggior potere contrattuale femminile e la
stessa maturazione maschile, e' spesso accaduto il contrario - la donna che
rivendica il suo diritto esclusivo a decidere, l'uomo che chiede di esserne
fatto partecipe. Sempre piu' vicina al femminismo, l'Udi preme per una
normativa che fissi alcune condizioni e procedure, salvando pero' la
facolta' di decidere delle donne.
Nel frattempo prende forma una svolta. Alcuni gruppi mutuano dal '68 e dalla
nuova sinistra la pratica degli obiettivi, come si diceva allora - cioe' la
messa in atto di comportamenti giusti e illegali di contro a situazioni o
leggi ingiuste. Nel '73 viene fondato il Cisa (Centro italiano
sterilizzazione e aborto) espressione dell'area radicale-femminista, che
pratica interventi alla luce del sole, in centri privati e a prezzi
politici. E' la prima uscita dalla clandestinita'. Nel 1975 nascono il Crac
(Coordinamento romano aborto contraccezione), e in varie citta' i Centri per
la salute della donna, composti per lo piu' da militanti di Avanguardia
operaia, Lotta continua, Manifesto, e da vari collettivi femministi. Il Cisa
punta sulla disobbedienza civile e sull'importanza di renderla visibile, i
Centri danno spazio al self-help e all'autocoscienza prima e dopo
l'intervento, e si concentrano sulla ricerca di modalita' il meno possibile
traumatiche. In tutti e due i casi l'autogestione favorisce l'approccio piu'
pragmatico che caratterizza la lotta per l'aborto rispetto ad altre.
Fra le varie componenti del movimento, potevano correre toni duri. Per le
femministe dei gruppi extraparlamentari e del sindacato, l'aborto
rappresentava anche quell'opportunita' di uscire "allíesterno" cara alla
loro formazione movimentista; e uscita all'esterno voleva dire raccolte di
firme, grandi manifestazioni fragorose e colorate, e intervento nei
quartieri a fianco delle donne. Stare dalla parte dei piu' deboli, o
presunti tali, e' stato il sogno migliore della nuova sinistra, per quanto a
volte in veste di Zorro e con precipitose semplificazioni populiste - come
quando ci facevamo forti della tranquillita' con cui molte proletarie
sembravano affrontare l'aborto. Le femministe storiche, stremate dal
martellamento delle "scadenze politiche", dagli appelli a sottoscrivere
documenti e a scendere in piazza, convenivano su una legge che garantisse
condizioni sicure per la gravidanza e la sua interruzione; ma altra cosa era
organizzare manifestazioni "abortiste", e per di piu' in compagnia dei
maschi, una scelta che mimetizzava il conflitto uomo/donna proprio sul piano
del rapporto fra sessualita' e concepimento. Tensioni inevitabili, dunque.
Evitabile, invece, la delegittimazione reciproca affidata alla decrepita
abitudine di scambiarsi etichette distorcenti: "borghesi" autoreferenziali e
sorde ai problemi delle masse, le femministe storiche; "gruppettare"
eterodirette dai capi le donne della nuova sinistra - dal "chi vi paga" con
cui alcuni sindacalisti reagivano ai volantinaggi alla Fiat, si era passati
al "chi vi manovra?". Potevamo fare di meglio, tutte.
L'aspetto interessante e' che la discussione ha sempre cercato di ancorarsi
all'esperienza, sebbene dell'esperienza si sottolineassero aspetti diversi -
per le radicali l'abuso di potere dello stato, per le femministe storiche il
cortocircuito sessualita'/procreazione, per le extraparlamentari, almeno in
un primo tempo, l'ingiustizia dell'"aborto di classe". E' grazie a questo
legame con il vissuto che alla contrapposizione aborto/non aborto abbiamo
sostituito quella fra aborto legale e aborto clandestino, che abbiamo
insistito sul destino dei figli non voluti voluti, mentre hanno avuto
pochissimo seguito posizioni estreme, come quelle cui si ispirava la
proposta di legge presentata da due deputati della sinistra
extraparlamentare, Pinto e Corvisieri, per l'aborto libero fino a 22
settimane di gravidanza - aborto sempre o quasi, versione speculare di
"aborto mai". Avremmo meritato una legge migliore della 194.
Con qualche contraddizione rispetto alla presunta disinvoltura delle
proletarie, la donna era presentata invariabilmente come vittima di una
violenza plurima: la pretesa di controllo sul suo corpo, la pratica
abortiva, la rinuncia a un figlio che in condizioni diverse forse avrebbe
voluto. Chi interveniva "nel sociale", insisteva sui costi fisici e
psichici - descrizione verosimile, ma anche tentativo di superare attraverso
la certificazione del dolore l'ideologia del contrasto fra interesse della
donna e interesse del concepito. Negare di aver sofferto era pressappoco la
rottura di un patto tacito.
Soprattutto, al di la' di grandi ansie e incertezze, su un punto siamo
rimaste ferme. Erano anni in cui il Movimento per la vita mostrava
fotografie di minuscoli feti con braccia gambe testa, bambini in miniatura,
mentre la propaganda antidepenalizzazione (e Pasolini) definivano l'aborto
un omicidio. Per noi (tutte noi), convinte che la soggettivita' sia un fatto
di relazioni, la vita cominciava quando si entrava in contatto con il mondo
e con gli altri; che il feto fosse materia vivente, non implicava
considerarlo una vita. Eppure non ci siamo mai lasciate trascinare a
discutere sul momento in cui avverrebbe il passaggio dall'una all'altra
condizione.
Credo che all'epoca nessuno avrebbe potuto pretendere di piu', tranne noi
stesse.
*
Cose non dette
Ci sono punti su cui si e' taciuto, o forse si e' parlato fra poche, e mi
chiedo se non sia stato un segno di poca fiducia nella nostra capacita' di
reggerli, e di poca cura verso noi stesse.
Torno al rapporto fra interesse della donna e interesse del feto, fra i
rispettivi "diritti alla tutela" (ma come suona sempre ipocrita il termine
diritto se lo si applica a chi non puo' rivendicarlo, e come hanno ragione
le studiose che hanno criticato l'ipertrofia giuridicista che fa di ogni
relazione un fatto di diritti e doveri). Giusto denunciare l'artificialita'
dell'espressione "vita fetale"; il concepito vive della madre e attraverso
la madre, visto come entita' a se' si puo' al massimo dire che esiste. Ma
appunto esiste come qualcosa (qualcuno) d'altro, diversamente l'organismo
materno non dovrebbe rimodulare il proprio sistema immunitario per
neutralizzare gli anticorpi che lo espellerebbero come entita' estranea; se
non c'e' contrapposizione, c'e' distinzione. Giusto, di fronte a questa
situazione unica in cui il corpo deve negoziare con se stesso prima ancora
che con il feto, ribadire che nessun diritto spetta allo stato, e affidarsi
alla coscienza femminile. Se non che, coscienza e' la piu' ingannevole delle
parole (e lo sapevamo), che nasconde una dimensione niente affatto libera da
ambivalenze e oscillazioni. Sulla coppia madre/figlio, luogo delicatissimo
dell'immaginario (non solo) femminile, pesano fantasmi di lunga durata. La
madre ostile e' un topos cosi' numinoso che le fiabe la sdoppiano nella
matrigna. Nella fantascienza e nella fantasy ricorre l'incubo del feto (o
neonato) nemico, potente e subdolo, Rosemary's baby o la creatura di Alien.
La paura del bambino mostro non abbandona mai una donna, e neppure la paura
di essere incapace di accogliere il figlio.
Di questo fardello non c'e' traccia, quantomeno nei discorsi e negli scritti
pubblici, dove si sorvolava sulla sensazione di essere invase da un
estraneo, e sulla madre ostile - quella che ci ha generato, quella che
potevamo diventare. Doppio paradosso per noi che predicavamo il diritto ai
nostri tempi in potenziale collisione con i tempi dell'altro - e il feto e'
un altro; per noi che della madre nemica avevamo fatto a volte esperienza
diretta - come scrive Dorothy Parker, ci sono donne molto restie ad
abbandonare la speranza in un fallimento delle figlie. E ci sono figlie per
le quali scegliere l'aborto e' il modo piu' immediato per non diventare come
le madri. Il grande (o forse piccolo) mito ideologico di quegli anni era
partorire se stesse.
Il perche' del silenzio si puo' in parte intuire. Che la minaccia al feto
venissse dall'esterno era facile da accettare, che venisse dalla madre, no,
ne' che le sue ambivalenze non si sciogliessero affatto nell'accettazione.
Eletta a garanzia contro "l'aborto facile", la sofferenza non aiutava a
vedere la realta' in tutte le sue implicazioni, a cominciare dal
destinatario duplice della violenza. Come sembrano piu' lineari (e antiche)
certe questioni su cui si spendeva la nuova sinistra, partito o non partito,
votare o non votare.
A ripensarci oggi, mi sembra che un certo grado di ottusita' fosse
necessario per difenderci dalle immagini da Grand Guignol degli
antiabortisti, per resistere a una propaganda cosi' brutale e insinuante che
non c'era bisogno di essere credenti per sentirsene ferite. Il Movimento per
la vita invitava a non abortire promettendo assistenza e l'adozione
pre-nascita da parte di amorose famiglie "regolari" (ironia: essendo oggi
ammessa in vari paesi la pratica dell'utero in affitto, si potrebbe parlare
di lavoro non pagato); dopo l'approvazione della 194 correva voce che in
alcuni ospedali si cercasse di organizzare funerali per i feti abortiti. Se
esistesse il reato di istigazione al senso di colpa, questo sarebbe un
esempio da manuale, proprio il contrario della riduzione del danno che ci
stava a cuore - per quanto il termine all'epoca non fosse in uso. In fondo,
e' stata una fortuna viverci come figlie, puellae, angeli sterili,
all'interno di movimenti in cui signoreggiava il mito del puer aeternus e
l'adultita' era rinviata a un futuro impreciso.
Ma come dovevano sentirsi sole quelle di noi che avessero sentore o
consapevolezza di quei problemi, le forse non molte che, pur lottando per la
depenalizzazione, non avrebbero mai potuto abortire, le poche che
praticavano gli interventi nei consultori autogestiti.
Penso soprattutto alla difficolta' di fare i conti con la parte di noi che
restava impigliata nel corpo del feto, e all'incapacita' di trovare un modo
per dare forma al lutto - a distanza di anni, una "disinvolta proletaria"
ricordava il feto abortito nei minimi dettagli, quasi non fosse mai uscito
dalla sua mente e dalla sua vita. Agnostiche o religiose che fossimo,
abbiamo avversato con perfetta ragione i riti del Movimento per la vita; ma
non siamo andate al di la', troppo sensibili al rischio di una egemonia
cattolica, troppo preoccupate di fare il gioco dell'avversario,
programmaticamente sospettose verso un possibile ritorno del sacro. E inermi
di fronte alla morte. La scheggia di generazione che eravamo (qui parlo
soprattutto di donne e uomini dei gruppi extraparlamentari) l'aveva
trasformata da corollario della vita a evento inscritto nello scontro
politico. Scandire "per i compagni morti non basta il lutto, pagherete caro,
pagherete tutto" valeva a indicare i responsabili e insieme ad alleviare la
sofferenza grazie a un sostegno simbolico potente: i morti si piangevano, e
piangerli voleva dire anche vendicarli.
Poi quella fase si e' chiusa, il rito militante ha perso senso, e sono
arrivati i terribili funerali di fine anni settanta - primi anni ottanta:
sparite le bandiere, i discorsi, i pugni chiusi, e al loro posto la
solitudine in mezzo a tanti, e niente e nessuno che potesse contenere il
dolore. Infatti sono nate presto nuove cerimonie, con canzoni, poesie,
fiori, letture, in qualche caso con la riscoperta del tradizionale pasto in
comune al rientro dal cimitero. Forse anche per l'aborto qualche forma di
rito - opposto alla logica del Movimento, non codificato, tenero, pudico -
avrebbe portato un po' di consolazione. La vicinanza delle amiche
prefigurava qualcosa di simile, e credo che nessuna, o quasi, sia andata ad
abortire senza la compagnia di un'altra donna: dove non arrivava la teoria
arrivava l'empatia. Ma chissa' se qualcuna ha capito il bisogno di
ritualita', o se tutte ci eravamo consegnate allo schematismo iperlaicista.
Ricordo la volta che Alexander Langer aveva detto di provare compassione per
le donne che abortivano, e la mia reazione istantanea: "e' rispetto che
vogliamo" - come se le due posizioni non potessero coesistere, e la
compassione fosse un sentimento dubbio, troppo poco militante, troppo
"cattolico".
Che la religione e le credenze religiose andassero smontate e
"vivisezionate", per capirne le ragioni e rubargliele, era, se c'era,
un'idea di poche.
(Parte prima. Segue)

3. RIFLESSIONE. TRE NOTE SUL SAGGIO DI ANNA BRAVO
La prima: il femminismo, i femminismi, e piu' ampiamente: il pensiero e le
prassi delle donne, sono la "corrente calda" della nonviolenza in cammino.
Lo stesso saggio di Anna Bravo ne e' la conferma in atto, e ne sono conferma
i molti interventi di donne che a questa acuta, acuminata e sollecitante
proposta di riflessione di Anna Bravo hanno risposto - in forme e toni e
stili variegati assai, ed esprimendo opinioni assai diversificate e sovente
divergenti - in questi ultimi mesi, interventi alcuni dei quali abbiamo gia'
pubblicato anche su questo foglio. Se, come crediamo, la nonviolenza e'
quella teoria-prassi di solidarieta' e di liberazione che afferma la
dignita' umana di ogni essere umano, la coerenza tra i mezzi e fini, la
scelta della verita', concretamente agita, sperimentale, contestuale,
aperta, ebbene, le esperienze di pensiero e di azione delle donne sono
exemplum atque figura e principale motore storico e teoretico della
nonviolenza come progetto politico-sociale e come modalita' relazionale;
come scommessa, struttura e trama esistenziale, e come scelta
logico-assiologica, ermeneutica, metodologica ed operativa.
La seconda: la nonviolenza e' la scelta necessaria per condurre hic et nunc
la lotta contro le immani violenze che stanno devastando il mondo. La scelta
necessaria. E urgente. Chi pensa di poter lottare per la pace, la giustizia
e la dignita' umana con metodi che la violenza riproducono, in verita' non
sta lottando per la dignita' umana, la giustizia e la pace, ma coopera alla
catastrofe riproducendo, provocando, perpetuando e magnificando l'iniquita'
dominante.
La terza: dalle esperienze e dalle riflessioni del movimento delle donne, e
dalle concrete esistenze, elaborazione e pratiche dalle donne agite (a
partire almeno da Saffo: prima costruttrice e animatrice di una comunita' di
pace e di nonviolenza, prima promotrice di una cultura della solidarieta',
della liberazione e dell'amore come paradigma educativo e principio di
organizzazione sociale), abbiamo tutti imparato qualcosa, qualcosa di
cruciale e ineludibile, poiche' quelle esperienze e riflessioni parlano a
tutta l'umanita' e fanno scuola in primo luogo alle persone di genere
maschile eredi e corresponsabili di millenni di oppressione che hanno negato
piena qualita' umana a meta' dell'intera umanita' (e proprio alla meta' che
l'umanita' concretamente riproduce e fa esistere ancora), e quindi
all'umanita' intera: dimidiandola, mutilandola, accecandola, sbranandola
infine.
E' persuasione di questo foglio che la scelta della nonviolenza sia una
necessita' ormai evidente per tutte le persone ragionevoli; e' persuasione
di questo foglio che della nonviolenza il pensiero e le pratiche delle donne
siano il referente storico, epistemologico ed esperienziale decisivo.

4. LUTTI. EDI RABINI: LA SCOMPARSA DI LISA FOA
[Ringraziamo Edi Rabini (per contatti: edorabin at tin.it) per questo ricordo.
Edi Rabini, che e' stato grande amico e stretto collaboratore di Alex
Langer, e' impegnato nella Fondazione Alexander Langer (per contatti:
e-mail: langer.foundation at tin.it, sito: www.alexanderlanger.org).
Lisa Giua Foa, nata nel 1923 a Torino da una famiglia di illustri
intellettuali antifascisti, partigiana, intellettuale, storica e saggista,
attenta osservatrice dell'est, un lungo impegno politico nel Pci, tra i
fondatori del "Manifesto", poi in "Lotta Continua", poi ancora impegnata, da
ultimo nella Fondazione Alexander Langer. Opere di Lisa Foa: tra le altre
segnaliamo: La societa' sovietica, Loescher, Torino 1973; sua la prefazione
a Yolande Mukagasana, La morte non mi ha voluta, La meridiana, Molfetta
(Bari) 1998; E' andata cosi', Sellerio, Palermo 2004. Scritti su Lisa Foa:
segnaliamo il profilo scritto da Adriano Sofri in Italiane, Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Roma 2004; e la pagina a lei dedicata dal quotidiano
"Il manifesto" del 5 marzo 2005, che riporta anche un suo profilo estratto
dal capolavoro di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi e Mondadori,
varie edizioni ("Lisetta era identica al fratello Renzo, alta, magra,
pallida, diritta con gli occhi accesi, con i capelli corti e un ciuffo sulla
fronte. Andavamo insieme in bicicletta...". E ancora alla fine del libro:
"Lisetta non era molto cambiata, dal tempo che andavamo in bicicletta e mi
raccontava i romanzi di Salgari. Era sempre magra, dritta e pallida, con gli
occhi accesi e col ciuffo sugli occhi. Sognava, a quattordici anni, imprese
avventurose: e aveva avuto qualcosa di quello che aveva sognato, durante la
Resistenza. Era stata arrestata, a Milano, e incarcerata a Villa Triste.
L'aveva interrogata la Ferida. Amici travestiti da infermieri l'avevano
aiutata a fuggire. Poi si era ossigenata i capelli, per non essere
riconosciuta. Aveva avuto, tra fughe e travestimenti, una bambina...")]

Ancora un lutto nella Fondazione Alexander Langer, dopo Anna Segre e Renzo
Imbeni.
Ora Lisa Giua Foa.
Anche lei faceva parte del piccolo gruppo che dal 1996 ha pensato di voler
dedicare ad Alex una Fondazione e continuare la sua ricerca di "talenti" che
potessero far riflettere su di un luogo e un tema.
Soprattutto a lei si devono il premio ruandese a Yolande Mukagasana e
Jacqueline Mukansonera nel 1998, e quello ultimo alla fondazione polacca
Pogranicze, per i quali ci ha messo a disposizione le sue reti di amicizie e
scambi maturati in decenni di intelligente lavoro.

5. POESIA E VERITA': ANNA ACHMATOVA: NELLA NOTTE VUOTA
[DA Anna Achmatova, Poema senza eroe, Einaudi, Torino 1966, 1993, p. 127.
Anna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (1889-1966), e' una
delle grandi poetesse del Novecento, e delle piu' alte voci contro la guerra
e il totalitarismo. Opere di Anna Achmatova: Poema senza eroe, Einaudi,
Torino 1966, 1993; Io sono la vostra voce, Edizioni Studio Tesi, Pordenone
1990, 1995; Lo stormo bianco, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995,
Fabbri, Milano 1997. Opere su Anna Achmatova: Lidija Cukovskaja, Incontri
con Anna Achmatova. 1938-1941, Adelphi, Milano 1990]

E quel cuore piu' non rispondera'
Alla mia voce, esultante e afflitto.
Tutto e' finito... E il mio canto risuona
Nella notte vuota, ove piu' tu non sei.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 862 dell'8 marzo 2005

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