La nonviolenza e' in cammino. 853



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 853 del 27 febbraio 2005

Sommario di questo numero:
1. Giuliana
2. La strage
3. La sentenza del Tribunale di Verona confermata dalla Corte d'Appello di
Venezia
4. Tre note su nonviolenza e lotta antimafia
5. Andrea Cozzo: Elementi per un approccio nonviolento al superamento del
sistema mafioso (alcuni appunti e considerazioni da sviluppare)
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE.  GIULIANA
[Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le
piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra
cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999;
Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban,
Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005. Dal sito del quotidiano "Il manifesto"
riprendiamo, con minime modifiche, la seguente scheda: "Nata a Masera, in
provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948, Giuliana ha studiato a
Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra', la rivista diretta da
Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha sempre lavorato nella
redazione esteri: appassionata del mondo arabo, conosce bene il Corno
d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato la guerra in
Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a Baghdad durante i
bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate 'cavaliere del
lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di tutto di
raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con
professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese.
Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le
fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a
parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista"]

Cosi' tante voci si son levate a chiedere che Giuliana sia salvata. Cosi'
tante voci che par di sentire la voce dell'umanita' intera. Che chiede che
cessino le uccisioni, tutte; che chiede che cessino le guerre, tutte. La
voce che dice le cose che sempre ha detto Giuliana, volto e figura
dell'intera umanita'.

2. RIFLESSIONE. LA STRAGE
In Iraq, in Colombia, in Israele. Una strage dopo l'altra. E solo la
nonviolenza puo' farle cessare.
E insieme a tutte le altre vittime di eccidi oggi le persone amiche della
nonviolenza piangono anche Luis Eduardo Guerra, fondatore della comunita' di
pace di San Jose' de Apartado', una delle piu' rilevanti esperienze della
nonviolenza in cammino.
Un cammino lungo, faticoso, e necessario: poiche' solo la nonviolenza puo'
salvare l'umanita'.

3. DOCUMENTAZIONE. LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI VERONA CONFERMATA DALLA
CORTE D'APPELLO DI VENEZIA
[Riproduciamo di seguito la sentenza emessa dal Tribunale di Verona nel
processo di primo grado il 27 gennaio 1997, confermata dalla sentenza della
Corte d'Appello di Venezia del 24 febbraio 2005 e quindi - non essendosi
opposta alcuna delle parti - divenuta definitiva. Ci rammarichiamo che il
testo non sia completamente intelligibile in alcuni punti per evidenti
difetti di trascrizione. Abbiamo ovviamente omesso i nomi di persona per
rispetto del diritto alla privacy, mantenendo solo quelli, peraltro
notissimi ma qui particolarmente rilevanti anche ai fini dell'intellezione
del testo, di padre Angelo Cavagna, del professor Antonio Papisca, e del
direttore di "Azione nonviolenta" Mao Valpiana, figure autorevolissime
dell'impegno di pace. Non ci dovrebbe essere bisogno di avvertire i lettori
che il linguaggio giuridico e l'argomentare forense hanno alcune
caratteristiche loro peculiari, e che tutte le sentenze richiedono anche uno
specifico esercizio ermeneutico al fine di coglierne lo spirito e i valori,
la sostanza e le implicazioni, che sovente l'aridita' tecnica e letterale
delle argomentazioni all'uopo efficienti come dei vincoli ai referenti
codicali non permettono di percepire "prima facie" in modo adeguato, si' da
averne piena contezza. E il senso e l'esito di questa sentenza e'
nell'accoglimento delle ragioni esposte dalle testimonianze di Angelo
Cavagna e di Antonio Papisca, nel riconoscimento che non la nonviolenza e'
un reato, ma la guerra; che uccidere e' un crimine, salvare vite umane un
dovere; che questo afferma la Costituzione della Repubblica Italiana che
ripudia la guerra, che questo la nonviolenza invera (p. s.)]

Repubblica Italiana. In nome del popolo italiano, il Tribunale penale di
Verona, Sezione penale, (omissis), ha pronunciato la seguente sentenza nel
procedimento penale contro (omissis) imputati del delitto di cui agli
articoli 110 del codice penale, articolo 1 ultimo comma decreto legislativo
n. 66/1948, perche', in concorso tra loro, ostruivano ed ingombravano i
binari d'entrambe le direzioni di corsa della ferrovia con la presenza
fisica ed anche sdraiandovisi sopra, al fine di impedire la libera
circolazione di un convoglio viaggianti con precedenza assoluta e recante
forniture militari con destinazione Livorno e per il Golfo Persico. In
Pescantina il 12 febbraio 1991.
*
Motivazione
Con decreto del 20 marzo 1996 il giudice dell'udienza preliminare ha
disposto il rinvio a giudizio dinanzi al Tribunale di Verona di (omissis) ed
altre sedici persone indicate nel decreto medesimo in quanto chiamate a
rispondere, in concorso tra loro, del reato di blocco ferroviario di cui
all'articolo1, ultimo comma, del Decreto Legislativo n. 66 del 1948 come in
epigrafe meglio precisato.
All'udienza dibattimentale dell'8 gennaio1997, che si e' svolta alla
presenza dei soli (omissis), e' stata dichiarata la contumacia dei restanti
imputati e il Pubblico Ministero ha svolto la sua relazione introduttiva; il
tribunale ha quindi ammesso le prove orali e documentali richieste dalle
parti, riservandosi in ordine all'acquisizione e alla visione di un filmato
chiesta dal Pubblico Ministero come documento. Sono stati quindi esaminati i
testi (omissis), che ha riferito in ordine ai fatti e alla identificazione
degli imputati, (omissis), che per motivi professionali intervenne in
qualita' di giornalista presso la stazione di Pescantina assistendo
perlomeno parzialmente alla manifestazione, e (omissis), il cui esame e'
stato peraltro sospeso ai sensi dell'articolo 63 del codice di procedura
penale essendo a suo carico emersi indizi di reita' e che, una volta
nominatogli un difensore d'ufficio, si e' avvalso della facolta' di non
rispondere, nonche' gli imputati presenti che hanno dichiarato di avvalersi
della facolta' di non sottoporsi all'esame e che hanno invece letto, previa
autorizzazione del tribunale, un comunicato al cui contenuto si sono
richiamati.
All'udienza del 27 gennaio 1997 sono stati esaminati i testi (omissis),
presente anch'egli la sera del 12 gennaio 1991 presso la stazione di
Pescantina, prof. Papisca Antonio, tra l'altro direttore della scuola di
specializzazione in istituzioni e tecniche di tutela dei diritti umani della
Universita' di Padova che ha illustrato le motivazioni di carattere
giuridico contro la cosiddetta "guerra del Golfo" poste a fondamento della
manifestazione dei pacifisti che ha definito nel loro concreto operare
"assertori di una legalita' forte, fondata sui diritti umani" e "assertori
di una legalita' costituzionale internazionale", e padre Angelo Cavagna che
ha illustrato le alte motivazioni morali che ispirarono la condotta degli
imputati. Il tribunale, sciogliendo quindi la riserva in precedenza assunta,
ha disposto l'acquisizione e la visione della videocassetta in quanto le
riprese furono disposte su specifica richiesta del responsabile
dell'operazione di P. G.; indicati, infine, gli atti utilizzabili per la
decisione, il Pubblico Ministero e i difensori hanno concluso come da
verbale e il tribunale ha deciso nel merito con la sentenza del cui
dispositivo e' stata data lettura.
Le articolate difese hanno evidenziato numerosi profili in base ai quali nei
confronti degli imputati si imponeva una sentenza assolutoria.
In particolare, hanno sostenuto che i partecipi al fatto non erano stati,
almeno in parte, identificati con certezza, che comunque parte degli
imputati, non avendo posto in essere materialmente la condotta tipica, non
potevano essere qualificati come partecipi, che, in ogni caso, ammesso e non
concesso che nella condotta degli imputati fosse ravvisabile l'elemento
materiale del reato, il loro comportamento, in quanto originato da un
movente esultante da quello di impedire o rendere la circolazione
ferroviaria piu' difficile, difettava del dolo specifico richiesto per
l'esistenza del reato, che, proprio in relazione al convincimento in essi
presente di agire nell'ambito della piena legalita', secondo la
prospettazione illustrata, anche con dovizia di richiami normativi, dal
teste prof. Papisca e di cui i dimostranti erano portatori, si imponeva il
riconoscimento della causa di giustificazione dell'esercizio di un ridotto o
di quella dello stato di necessita', essendo stata l'azione comunque posta
in essere per salvare delle vite umane compromesse dall'arrivo in Iraq dei
carrarmati trasportati sul convoglio, scriminanti queste che hanno invocato
quantomeno sotto il profilo putativo, e che, in caso di condanna, non poteva
non ritenersi integrata la derubricazione nella piu' lieve ipotesi prevista
dall'articolo 340 del codice penale con la concessione, in ogni caso,
dell'attenuante di cui all'articolo 62, n. l del codice penale.
Osserva, preliminarmente, il Tribunale che non puo' minimamente dubitarsi
che gli odierni imputati fossero effettivamente le persone che la sera del
12 febbraio 1991 innescarono la manifestazione che ha in seguito portato al
processo odierno. Le modalita' di identificazione, compendiate nei verbali
di identificazione in atti, sono state confermate dal teste (omissis) che ha
precisato riferirsi con certezza alle persone presenti sul luogo quella sera
nei pressi del binario che parteciparono, anche se con ruoli diversi, alla
manifestazione.
Quanto all'elemento oggettivo del reato rileva in limine il Tribunale che,
essendo il delitto de quo rientrante nella categoria di quelli cosiddetti di
pericolo - che per loro natura non ammettono la figura del tentativo -, la
condotta materiale, proprio in relazione all'abbassamento della soglia di
punibilita' connessa alla struttura del reato, debba essere individuata con
assoluta certezza e con particolare rigore, pena il rischio di repressione
di una mera condotta sintomatica inidonea a porre in concreto pericolo il
bene giuridico tutelato.
L'azione nel suo concreto estrinsecarsi deve, quindi, rivelarsi idonea allo
scopo di rendere la circolazione ferroviaria apprezzabilmente piu' difficile
o meno agevole e deve essere univocamente diretta a conseguire tale scopo.
In sostanza, ritiene il Tribunale che a differenza dei reati cosiddetti di
pericolo astratto, che presuppongono necessariamente iuris et de iure la
messa in pericolo dell'interesse tutelato dalla norma al semplice
realizzarsi della condotta descritta, come esemplarmente l'articolo 435 del
codice penale (fabbricazione o detenzione di sostanze esplodenti) in cui il
legislatore si e' limitato a tipizzare una condotta al cui compimento si
accompagna anche la effettiva messa in pericolo di un determinato bene
giuridico, il "blocco stradale o ferroviario" non possa essere ricondotto
nell'ambito di tale categoria.
Osta, infatti, a tale inquadramento il fatto che, diversamente da quanto
accade nel paradigmatico caso dell'articolo 435 del codice penale, le
condotte individuate nella norma de qua non sono affatto accompagnate dalla
messa in pericolo della liberta' di circolazione, la cui offesa dovrebbe
necessariamente essere accertata volta per volta. Nella fattispecie, non si
versa infatti in un caso in cui la particolare natura del bene (ad esempio:
l'ambiente), l'impossibilita' di individuare in concreto le modalita' di
lesione (ad esempio: danni causati da prodotti in re ipsa che il legislatore
fa derivare dal mero compimento di determinare condotte (ad esempio:
l'articolo 435 del codice penale citato) possano giustificare una norma
strutturata sul pericolo astratto a cui il legislatore tende a ricorrere
quando esso rappresenti l'unica forma di protezione dei beni giuridici.
Ne' sembra che possa considerarsi ostativo ai fini della configurabilita'
del pericolo concreto il fatto che il tenore letterale della norma
incriminatrice non lo contempli esplicitamente, potendo indubbiamente
l'interprete ricostruire la norma in modo da limitarne l'ambito applicativo
ai soli comportamenti concretamente pericolosi.
Per evitare l'incriminazione di comportamenti inoffensivi appare, quindi,
opportuno riferirsi, come punto di riferimento interpretativo, a quello del
bene giuridico superando anche il criterio esegetico basato sul semplice
tenore letterale della norma.
Tale rigorosa interpretazione discende anche dalla doverosa considerazione
del periodo storico e del contesto politico sociale in cui venne emanato il
Decreto Legislativo de quo, epoca, come noto, caratterizzata da rilevanti
tensioni e dalla necessita' conseguente di darne una lettura interpretativa
compatibile sia con la mutata realta' attuale sia, in particolare, coi
principi costituzionali con cui ogni norma si deve armonizzare.
In proposito, osserva il Tribunale che l'esito dell'istruttoria
dibattimentale ha escluso, o, per meglio dire, non ha consentito di provare
col decorso rigore accertativo - rigore che si impone in relazione alla
particolarita' della fattispecie criminosa suscettibile, se latamente
interpretata, di comprimere, quantomeno in astratto, l'effettivo esercizio
anche di diritti primari costituzionalmente garantiti, quali quelli di
riunione e di libera manifestazione del pensiero di cui agli articoli 17 e
21 della Costituzione - la sussistenza dell'elemento materiale del reato.
La condotta degli imputati si e' infatti estrinsecata in una mera
manifestazione pacifica anteriore all'arrivo del convoglio, che non
necessariamente avrebbe comportato il blocco e/o il rallentamento del treno
trasportarne i mezzi.
Se, infatti, da un lato e' vero, come risulta dalla visione del filmato in
atti, che parte degli imputati (due o tre con striscioni inneggianti alla
pace), spalleggiati dagli altri - che fornivano ai primi un indubbio
contributo causale volontario idoneo a configurare la compartecipazione nel
fatto, se non altro per l'intenzione da essi esplicitamente manifestata di
sostituirsi ai primi nel caso in cui questi ultimi fossero stati portati via
dai binari da parte del personale della Polfer - occupo' il binario della
linea ferroviaria del Brennero in direzione sud su cui doveva transitare il
convoglio, altrettanto certo e' che cio' avvenne in un momento sensibilmente
precedente all'approssimarsi del treno alla stazione di Pescantina, momento
in cui la reale intenzione dei manifestanti e il comportamento che essi
avrebbero tenuto all'atto dell'arrivo del treno non si era ancora
inequivocabilmente esplicitata.
Se ritardo ci fu, e cio' appare comunque dubbio viste in particolare le
incerte risposte rese in proposito dal teste (omissis) (sul punto cfr. in
particolare il foglio 345: "Non so se vi sia stato un ritardo perche', per
quanto ricordo io, l'orario di inizio del servizio era quello, lo abbiamo
preso a Domegliara", risposta da porre in relazione con un pregresso ritardo
rilevato a Trento), esso dipese esclusivamente dalla decisione di far
rallentare il treno facendolo marciare "a vista" a partire dalla stazione di
Domegliara, quando mancavano quindi ancora alcuni chilometri al possibile
punto di rallentamento e/o di blocco.
Ed infatti, se anche le ragioni di sicurezza dei trasporti e di incolumita'
personale dei dimostranti e delle forze dell'ordine presenti sui binari
alcuni chilometri piu' avanti rispetto al punto dove si trovava il convoglio
all'atto di ricevere l'indicazione di procedere "a vista" possono
indubbiamente ritenersi motivazioni responsabili e piu' che giustificate per
l'adozione di tale doverosa procedura precauzionale, cio' non significa
necessariamente che l'intenzione reale dei manifestanti fosse effettivamente
quella di rallentare o bloccare il treno quando esso si fosse avvicinato
alla stazione di Pescantina restando tale opinamento nell'ambito di una mera
ipotesi, visto che gli stessi, prima dell'arrivo del convoglio, aderirono,
pur continuando a manifestare la loro contrarieta' alla guerra, all'invito a
spostarsi dai binari facendosi identificare.
Che l'intenzione dei pacifisti oggi imputati fosse effettivamente quella di
rallentare o bloccare il treno trova solo un labile riscontro - tale non
essendo il giudizio prognostico fatto dal teste (omissis) circa la
possibilita' che cio' realmente avvenisse - in un estemporaneo invito fatto
da uno dei dimostranti nel momento in cui l'imputato Valpiana, univocamente
indicato come il promotore della manifestazione, venne allontanato dalla
posizione da lui occupata nei pressi del binario. Tale invito per le
caratteristiche sue proprie, come attestato nel filmato acquisito agli atti,
non e' elemento sufficiente a dimostrare l'esistenza di una reale intenzione
dei presenti di realizzare la condotta vietata, apparendo esso una
manifestazione emotiva individuale legata ad un particolare momento di
tensione che ebbe un limitato seguito subito rientrato.
A confronto del fatto che l'eventuale rallentamento fu esclusivamente il
frutto di una doverosa prudente iniziativa unilaterale in prevenzione della
Polfer (che, per giunta, non puo' avere provocato particolari problemi di
circolazione visto il limitato lasso di tempo in cui i fatti si svolsero,
come documentato dal filmato in atti) depone anche una considerazione di
ordine logico formulabile con giudizio ex ante: qualora effettivamente i
pacifisti avessero voluto bloccare o rallentare sensibilmente il trasporto
dei mezzi bellici al porto di Livorno e non invece, come ritenuto dal
Tribunale, e come probabile vista l'esiguita' del loro numero rispetto
all'improbo compito di impedire la marcia di un treno carico di carriarmati,
porre in essere una manifestazione nonviolenta a carattere meramente
simbolico rientrante nell'ambito dei diritti costituzionalmente garantiti ed
in particolare quello della libera manifestazione del pensiero con
riferimento al ripudio della guerra come mezzo per risolvere le controversie
internazionali (forse per trovare un po' di spazio sui mass media impegnati
in quei giorni, in una gara di generale conformismo, nel cercare di
convincere, appiattendosi acriticamente sulla posizione assunta dal governo
allora in carica, l'opinione pubblica italiana che quella che si andava a
combattere in Iraq non era una guerra ma "un'operazione di polizia
internazionale", sulla cui ricorrenza si e' trattenuto il teste Papisca),
essi avrebbero evitato di frazionare la loro iniziativa in diverse stazioni
e/o localita' della linea del Brennero concentrandosi in qualche punto
strategico del percorso, cosa che non fecero - come e' dimostrato dal
processo, con esito assolutorio, risultante dalle produzioni documentali
difensive - l'afflusso di tutti i dimostranti in modo da rendere adeguata,
effettiva e, quindi, idonea l'azione che e' invece risultata inevitabilmente
simbolica e tale da integrare una semplice manifestazione di civile
protesta. Cio' certamente non avrebbe sortito lo stesso lo scopo finale di
fermare i mezzi bellici, ma ne avrebbe significativamente (e non
simbolicamente) ritardato l'arrivo sul teatro delle operazioni di guerra,
con conseguente integrazione - sia sotto il profilo dell'idoneita' sia sotto
quello dell'univocita' degli atti - della fattispecie incriminatrice
contestata.
Conclusivamente logica e realta' fattuale vogliono che la manifestazione
cosi' inscenata dai pacifisti del Movimento Nonviolento sia stata un
semplice atto dimostrativo di carattere meramente simbolico finalizzato a
sensibilizzare l'opinione pubblica in ordine al pericolo di risolvere con le
armi le controversie internazionali e non un tentativo impulsivo, ingenuo e
velleitario di un gruppo di giovani animati da sani principi, tendente ad
impedire la prosecuzione del treno.
Una diversa e piu' rigoristica interpretazione della norma circa l'inizio
della attivita' punibile che giungesse a ritenere integrato l'elemento
materiale del reato anche a fronte di comportamenti meramente simbolici di
protesta civile, come quello oggetto di deliberazione, chiaramente tesi, non
gia' ad impedire od ostacolare la liberta' dei trasporti ma a rendere palese
e ad esternare una posizione di non allineamento a quella degli organi
ufficiali, renderebbe la norma penale mezzo strumentale alla repressione del
dissenso che e' bene garantito da ogni societa' democratica, come appunto
quella delineata dalla nostra Costituzione.
E che l'intenzione fosse quella di cui si e' detto vi e' chiara traccia
anche nel comunicato, pienamente coerente col comportamento tenuto dagli
imputati, letto in udienza e fatto proprio da quelli di loro presenti,
laddove si puo' leggere: "Quando partecipammo a quella manifestazione
nonviolenta eravamo perfettamente consci di non essere in grado di fermare,
se non simbolicamente, l'escalation della guerra...", "La nostra e' stata
un'azione che e' andata piu' in la' della politica, nella speranza di
poterla un giorno contaminare" (cfr. foglio 358).
Ad ulteriore conferma va evidenziato che se e' vero che per bloccare o
rallentare un treno non e' necessario un rilevante numero di persone,
altrettanto vero e' che per le forze dell'ordine impegnate nel doveroso
compito di garantire la continuita' e la sicurezza del servizio risulta in
tal caso sufficientemente agevole liberare la linea anche in presenza di
atti di resistenza passiva, sicche' anche per tale considerazione di
carattere pratico appare problematico rinvenire in capo agli imputati una
reale intenzione di porre in essere la condotta loro ascritta.
D'altronde il fatto che se a provocare il blocco concorre una moltitudine di
persone la finalita' puo' essere piu' facilmente (e spesso impunemente)
perseguita e', per fatto notorio, proprio dimostrato, come ricordato nelle
appassionate arringhe difensive, dalla cronaca di questi giorni con la nota
vicenda delle occupazioni di strade ed aeroporti da parte degli allevatori
per protestare per le quote del latte, anche se tali manifestazioni, per le
sicuri implicazioni di natura corporativa, e per le modalita' di esecuzione
ampiamente illustrate dai mass media, non possono certo fregiarsi
dell'appellativo di disobbedienza civile ne' rivendicare l'eventuale
sussistenza di una causa di giustificazione scriminante neppure di natura
putativa.
Per le caratteristiche assunte la manifestazione era assolutamente inidonea
e non inequivocamente diretta ad impedire la prosecuzione del convoglio con
la conseguenza di non integrare, quindi, la soglia minima di punibilita'
prevista per il reato ipotizzato. Per tale motivo e per la segnalata carenza
probatoria in ordine ad un effettivo ritardo del treno, tutti gli imputati
vanno mandati assolti dal reato loro ascritto perche' il fatto non sussiste.
Va, conseguentemente, disposto il dissequestro e la restituzione agli aventi
diritto del materiale in sequestro.
Per questi motivi,
visto l'articolo 530 del codice di procedura penale,
assolve tutti gli imputati perche' il fatto non sussiste.
Dissequestro e restituzione del materiale in sequestro agli aventi diritto.
Verona, 27 gennaio 1997
Il Presidente
Il Giudice estensore.

4. RIFLESSIONE. TRE NOTE SU NONVIOLENZA E LOTTA ANTIMAFIA
1. E' preziosa la riflessione che gli amici del "Centro impastato" di
Palermo e con essi alcuni amici della nonviolenza siciliani stanno svolgendo
sul contributo della nonviolenza alla lotta antimafia. Un contributo che
storicamente e' gia' stato enorme e che a parere di chi scrive e' e sara'
decisivo, poiche' solo una lotta nonviolenta di massa puo' sconfiggere la ma
fia.
2. Chi scrive queste righe da molti anni propugna la tesi che la parte piu'
cospicua della mobilitazione popolare contro la mafia e' stata nonviolenta,
e consapevolmente nonviolenta. E' stata lotta nonviolenta quella del
movimento contadino; e' stata lotta nonviolenta quella di Danilo Dolci; e'
stata lotta nonviolenta quella delle donne; e' stata lotta nonviolenta
quella della societa' civile che particolarmente negli anni ottanta sostenne
uno scontro durissimo con il sistema di potere mafioso; e' stata lotta
nonviolenta quella de "I Siciliani" come quella di don Pino Puglisi.
Sono documento di queste esperienze, oltre ai libri di e su Danilo Dolci,
alcuni ormai classici lavori di Umberto Santino e delle ricercatrici e
ricercatori militanti del Centro Impastato, il lavoro di Pippo Fava e de "I
Siciliani", alcuni libri di Nando dalla Chiesa, molti libri di donne e
particolarmente alcuni ineludibili volumi di Renate Siebert.
3. A fronte di questo dato storico negli ultimi tre decenni e' mancato
sovente sia nella pubblicistica di area nonviolenta, sia in quella del
movimento antimafia, un riconoscimento di questa realta', ed una
comprensione dei rispettivi lessici e delle comuni esperienze. Nella stampa
di area nonviolenta si sono talora scritte cose a dir poco astratte -
nonostante la fulgida testimonianza della figura e dell'opera di Danilo -;
nella pubblicistica impegnata contro la mafia spesso il concetto stesso di
nonviolenza e' stato del tutto ignorato (e ancora oggi, anche da parte di
studiosi autorevoli, della nonviolenza viene presentata una versione
pressoche' caricaturale, che non tiene conto della pluralita', varieta' e
ricchezza delle sue dimensioni, delle sue tradizioni, delle sue
estrinsecazioni). Invero lo stesso dibattito in corso, avviato dall'articolo
di Enzo Sanfilippo che abbiamo presentato a suo tempo, e sviluppato ora da
alcuni interventi che presenteremo via via ai lettori, offre forse talora
un'immagine inadeguata della realta', con qualche limite di genericita',
astrattezza e riduzionismo. C'e' molto lavoro da fare, ragione di piu' per
mettercisi d'impegno.

5. RIFLESSIONE. ANDREA COZZO: ELEMENTI PER UN APPROCCIO NONVIOLENTO AL
SUPERAMENTO DEL SISTEMA MAFIOSO (ALCUNI APPUNTI E CONSIDERAZIONI DA
SVILUPPARE)
[Dal sito del Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato" (per
contatti: via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax:
091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it) riprendiamo
questo recente testo di Andrea Cozzo. Andrea Cozzo (per contatti:
acozzo at unipa.it) e' docente universitario di cultura greca, studioso e amico
della nonviolenza, promotore dell'attivita' didattica e di ricerca su pace e
nonviolenza nell'ateneo palermitano, tiene da anni seminari e laboratori
sulla gestione nonviolenta dei conflitti, ha pubblicato molti articoli sulle
riviste dei movimenti nonviolenti, fa parte del comitato scientifico dei
prestigiosi "Quaderni Satyagraha". Tra le sue opere recenti: Se fossimo come
la terra. Nietzsche e la saggezza della complessita', Annali della Facolta'
di Lettere e filosofia di Palermo. Studi e ricerche, Palermo 1995; Dialoghi
attraverso i Greci. Idee per lo studio dei classici in una societa' piu'
libera, Gelka, Palermo 1997; (a cura di), Guerra, cultura e nonviolenza,
"Seminario Nonviolenza", Palermo 1999; Manuale di lotta nonviolenta al
potere del sapere (per studenti e docenti delle facoltà di lettere e
filosofia), "Seminario Nonviolenza", Palermo 2000; Tra comunita' e violenza.
Conoscenza, logos e razionalita' nella Grecia antica, Carocci, Roma 2001;
Saggio sul saggio scientifico per le facolta' umanistiche. Ovvero
caratteristiche di un genere letterario accademico (in cinque movimenti),
"Seminario Nonviolenza", Palermo 2001; Filosofia e comunicazione.
Musicalita' della filosofia antica, in V. Ando', A. Cozzo (a cura di),
Pensare all'antica. A chi servono i filosofi?, Carocci, Roma 2002, pp.
87-99; Sapere e potere presso i moderni e presso i Greci antichi. Una
ricerca per lo studio come se servisse a qualcosa, Carocci, Roma 2002;
Lottare contro la riforma del sistema scolastico-universitario. Contro che
cosa, di preciso? E soprattutto per che cosa?, in V. Ando' (a cura di),
Saperi bocciati. Riforma dell'istruzione, discipline e senso degli studi,
Carocci, Roma 2002, pp. 37-50; Scienza, conoscenza e istruzione in Lanza del
Vasto, in "Quaderni Satyagraha", n. 2, 2002, pp. 155-168; Dopo l'11
settembre, la nonviolenza, in "Segno" n. 232, febbraio 2002, pp. 21-28;
Conflittualita' nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa,
Edizioni Mimesis, Milano 2004]

In un suo articolo sulle possibilita' di rapportarsi alla mafia in modo
nonviolento Enzo Sanfilippo ha ricordato i limiti della strategia repressiva
e, sulla scia di un pensiero che era anche di Giovanni Falcone, l'importanza
di un approccio sistemico che non separasse troppo nettamente la gente
"perbene" dai "mafiosi", "noi" da "loro". In ottica nonviolenta, come
suggerisce ancora Enzo Sanfilippo, e' utile impostare la questione nei
termini del "superamento" del sistema mafioso (1). Vorrei provare a
sviluppare ulteriormente il discorso sull'aggiunta che l'approccio
nonviolento puo' apportare in questa direzione.
Parto dal presupposto che pensare in modo sistemico e nonviolento significa
non polarizzare il conflitto (parola che, di per se', non e' ancora sinonimo
di "violenza"), dare spazio a cio' che congiunge gli esseri umani piu' che a
cio' che li separa, fare appello alle energie e capacita' solitamente
trascurate quando lo scopo e' quello di contrapporsi a qualcuno, e mettere
in atto una dinamica realmente comunicativa che arrivi al cuore (nel senso
emotivo) dell'avversario ("avversario" e non "nemico") (2).
Vediamo quali elementi, strutturali e conflittuali, possiamo considerare
parti in causa allo scopo di un'azione sociale che contribuisca al
superamento del sistema mafioso (mi riferisco ai soli fattori che permettono
di pensare un cambiamento della mafia in quanto fenomeno dotato di
specifiche caratteristiche (3):
1) Attori mafiosi, di vario livello gerarchico, sottostanti ad un sistema di
regole che favoriscono la solidarieta' del gruppo e l'anonimato, ed agenti
attraverso il controllo del territorio e sulla base della minaccia diretta o
trasversale (intimidazione).
2) Pentiti di mafia.
3) Familiari di membri della mafia (4).
4) Politici (5).
5) Vittime, sottoposte a minaccia di subire danni di vario genere - da
quelli economici a quelli fisici, fino al rischio della vita loro o dei loro
familiari.
6) Istituzioni dello Stato con il loro apparato a) politico, b)
giuridico-repressivo, c) culturale (scuola, universita', mass media,
linguaggio, sistema generale dei valori).
7) Societa' civile, nella sua articolazione in: a) associazioni o singole
espressioni religiose attive nell'analizzare e contrastare il fenomeno
mafioso; b) opinione pubblica, solitamente inerte, e capace di scendere in
piazza solo in occasione di eventi tragici eclatanti; c) cittadini che
costituiscono, a causa delle condizioni di emarginazione socio-culturale in
cui vivono, il bacino principale per l'"arruolamento" mafioso.
Il quadro si presenta dunque articolato e complesso ma, cosi' tratteggiato,
permette forse di pensare la tipologia del conflitto e le forme di
intervento possibile. Ci troviamo di fronte ad un conflitto asimmetrico, che
chiamerei complesso. Con "asimmetrico" si intende un conflitto in cui la
parte che opprime ha maggior forza (in questo caso per l'anonimato e l'uso
illimitato della violenza diretta sulle vittime designate o, trasversale,
sui parenti di queste ultime). Chiamo il conflitto anche "complesso" perche'
la parte che opprime opera per cosi' dire in due direzioni: verso le vittime
specifiche e, al contempo, verso le leggi e la societa' in generale; e
perche' esso vede la presenza di diverse terze parti che possono svolgere un
ruolo di interposizione e, nel momento in cui il potere delle parti risulta
bilanciato (dunque, adesso, "simmetrico"), di mediazione.
*
Mediazione
Comincio da quest'ultima che si presenta forse con caratteristiche piu'
facili da delineare.
Relativa al momento in cui il singolo affiliato di mafia ha gia' scelto di
cooperare, o anche in cui e' semplicemente stato scoperto ed e' gia' in mano
alla giustizia, la mediazione tra l'attore mafioso e la vittima - nei suoi
diversi attributi: dialogante, di prossimita', rigenerativa o restaurativa,
comprensiva, riparativa - puo' rientrare nel percorso che va sotto il nome
di mediazione penale, volta in prima istanza all'espressione delle "verita'
personali", cioe' degli esseri umani in quanto tali, distinti dai loro ruoli
(6). Si tratta di un iter che ha la sua gradualita' e i suoi tempi, le sue
tecniche (ascolto, rispecchiamento, parafrasi, empatia), nonche' i suoi
criteri di "prova" della reale dissociazione, fondata non solo sulla
collaborazione, diciamo cosi', pentitistica, ma anche sull'attivita' di
risarcimento, concreto o simbolico, verso le vittime o la societa'. Forse si
puo' pensare addirittura ad uno spazio di confessione pubblico, diffuso e
aperto (come avveniva nelle sedute della Commissione per la Verita' e la
Riconciliazione in Sudafrica), per il processo di dissociazione. Sarebbe
direttamente la societa' nella sua interezza ad essere informata.
Dunque, in primo luogo, dare spazio all'ascolto, alla costruzione di ponti,
alla visibilita' collettiva - operazioni che, sia chiaro, non mettono sullo
stesso piano le azioni dei responsabili di crimini e quelle di chi gli
effetti di questi crimini ha subito, bensi' offrono l'occasione, a chi e'
incorso nel reato, di una vera presa di coscienza della sofferenza da lui
causata.
"Mediazione" si puo' intendere anche nel senso della mediazione comunitaria.
In questo caso il livello di intervento e' dunque un altro e interessa
l'aspetto dell'azione mafiosa che svolge un ruolo mediatore-clientelare tra
la gente comune e i potenti, o mediatore delle liti tra soggetti; le stesse
persone qui si possono presentare come vittime della mafia e al contempo
suoi complici non solo passivi (7). In questo caso, si possono prospettare
come rimedi due elementi: l'introduzione di principi di democrazia
partecipativa (sulla scia dei Cos - Centri di Orienamento Sociale -
capitiniani) e la formazione alla risoluzione nonviolenta dei conflitti
privati (attraverso negoziazione o mediazione sul modello delle boutiques du
droit introdotte in Francia da J.-P. Bonafe'-Schmitt) (8): Luoghi di
aggregazione gia' esistenti (parrocchie, centri sociali, associazioni)
potrebbero costituire validi supporti a tale ripresa del territorio come
spazio di comunicazione sociale. Questo non e' solo un momento conflittuale,
ma e' anche parte di un programma costruttivo di una societa' alternativa.
*
(Interposizione e) Difesa Popolare Nonviolenta
Andiamo all'altro caso, piu' difficile e necessitante di un'azione
coordinata e su piu' versanti, cioe' quello dell'interposizione; essa pero',
nella misura in cui la nonviolenza viene praticata anche direttamente dalle
vittime, o dalla societa' civile gia' consapevole di essere essa, nella sua
interezza, vittima, - insomma nella misura in cui il conflitto si immagina a
due attori -, si viene a trovare in una situazione che rientra
nell'orizzonte della Difesa Popolare Nonviolenta (Dpn). Quest'ultima nozione
designa propriamente la possibilita' degli abitanti di un Paese di
difendersi da attacchi stranieri senza l'uso della violenza; ma, poiche'
essa ha come suo principio di base l'idea che l'occupazione straniera del
territorio non coincide ancora con la sconfitta degli abitanti, mi pare che
almeno alcune sue modalita' possano valere anche come pratiche di
comportamento nei confronti della mafia che proprio sul controllo del
territorio fonda essenzialmente il suo potere (9).
La Dpn e' innanzitutto una capacita', anche tecnica, di comunicare con gli
avversari. Sono principalmente tre i messaggi che da parte di chi adotta la
Dpn devono giungere con chiarezza a chi opera mafiosamente:
1) l'ingiustizia e, piu' specificamente, la sofferenza che si sta patendo
("dire all'altro il male che fa") (10);
2) la propria volonta' di rispettare l'avversario;
3) la ferma intenzione di resistere senza minacciare a propria volta (il
rifiuto nonviolento di accettare intimidazioni).
Tutti e tre i fattori appena menzionati sono indispensabili per la buona
riuscita della comunicazione e, all'interno della Dpn, vanno attuati
contemporaneamente perche', legati circolarmente, rafforzano reciprocamente
ognuno l'effetto degli altri (considerati isolatamente essi corrispondono
tendenzialmente ai tre meccanismi dell'azione nonviolenta che Gene Sharp ha
studiato e ha chiamato rispettivamente persuasione, accomodamento,
coercizione nonviolenta) (11).
Il primo, solitamente trascurato perche' ritenuto ovvio, e' fondamentale per
far comprendere all'altra parte la concretezza della sofferenza che essa
infligge, per fare appello alla sua coscienza. E' bene precisare che non si
tratta di ostentare quella che in siciliano si chiama piatusaria, debolezza
lamentosa e priva di dignita'. Richiamare l'ingiustizia e presentare la
sofferenza come una propria scelta, al contempo fiera ma richiedente la
cessazione dell'ingiustizia, e non come una passiva accettazione, significa
tentare un'opera di coscientizzazione, mettere l'altra parte di fronte agli
effetti della sua azione, mostrare un'evidenza che essa, con gli occhi fissi
sui propri scopi, rifiuta di vedere. Dunque, anziche' condannare e, per
cosi' dire quasi prima di protestare, e' importante far conoscere e rendere
esplicito il male a colui stesso che lo commette (la trasformazione
dell'avversario, a questo livello, e' una sua persuasione).
Sull'importanza del rispetto dell'avversario nel libro di Giovanni Falcone,
Cose di Cosa Nostra, si trovano diverse osservazioni, oltre a quelle gia'
citate nel saggio di Sanfilippo, che a mio parere possono costituire altri
preziosi suggerimenti per l'elaborazione di un approccio nonviolento al
superamento della mafia: si tratta di applicare queste indicazioni sia al
livello istituzionale (come era per Falcone; ed in questo caso esse valgono
anche per il caso presentato nel paragrafo precedente), sia al livello
diffuso, civile. Cosi', in alcune pagine, leggiamo: "perche' questi uomini
d'onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perche' sanno quale rispetto
io abbia per i loro tormenti, perche' sono sicuri che non li inganno, che
non interpreto la mia parte di magistrato in modo burocratico, e che non
provo nessun timore reverenziale nei confronti di nessuno. (...) Sono dunque
diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perche', in un modo o
nell'altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in
parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto
faticavano a parlare di se', a raccontare misfatti di cui ignoravano le
possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati
della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara
la violazione della legge dell'omerta'. Provate a mettervi al loro posto:
erano uomini d'onore, riveriti, stipendiati da un'organizzazione piu' seria
e piu' solida di uno Stato sovrano (...), che all'improvviso si trovano a
doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con
un'organizzazione inferocita per il tradimento, dall'altra. Io ho cercato di
immedesimarmi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogatori
veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali
di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che,
possono confortare il pentito nella sua ansia di parlare. Ma non
ingannandolo mai sulle difficolta' che lo attendono per il semplice fatto di
collaborare con la giustizia. Non gli ho mai dato del tu, al contrario di
tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere
autorizzati a fare" (12).
Dunque, innanzitutto rispetto e, addirittura, empatia ("Provate a mettervi
al loro posto", " Io ho cercato di immedesimarmi"). Del resto, quest'ultima
e' in qualche modo strettamente connessa col primo, e tutto cio' ha a che
fare con la verita': Falcone sostiene perfino di avere avuto in questo "una
lezione di moralita'" dalla mafia (13). Sul rispetto e sulla sincerita', sul
suo desiderio di non ingannare, Falcone insiste ripetutamente (14); non solo
in quanto atteggiamenti etici ma anche come veri e propri strumenti
comunicativi: "I membri di Cosa Nostra esigono di essere rispettati. E
rispettano solo chi manifesta nei loro confronti un minimo di riguardo"
(15).
La cultura dell'onore, che il comportamento mafioso enfatizza, e' un dato
antropologico non da estirpare ma da incanalare correttamente (16), e in
ogni caso da tenere nella dovuta considerazione per rapportarsi in modo
chiaro a chi vive in ambiente mafioso. (Tra l'altro proprio il senso
dell'onore puo' essere importante per permettere una riformulazione del
principio, non-nonviolento, della legalita' in quello, nonviolento, della
responsabilita', che evita la trappola del concetto di obbedienza
all'autorita' - legale o mafiosa, dal punto di vista della maturazione
critica e spirituale non e' molto differente - per sancire il diritto alla
disubbidienza civile).
Ancora: "Giudico inammissibile, ad esempio, - sostiene Falcone - che le
forze dell'ordine non tengano un comportamento di assoluta correttezza nei
confronti dei sospettati. So di un commissario di polizia che, recatosi per
l'ennesima volta a perquisire la casa di un capomafia in quel periodo
detenuto, di fronte alla moglie che lamentava "Ma siamo perseguitati, presto
ci ritroveremo senza un soldo", si permise di tirar fuori di tasca 500 lire
e dargliele. Umiliazione inutile, servita solo a procurare un attimo di
soddisfazione al commissario in questione ma molto rancore dall'altra parte"
(17). Quest'ultima osservazione ci induce a riflettere sull'importanza del
rispetto e della comunicazione nonviolenta anche nella fase
giuridico-repressiva.
Come si puo' tradurre l'azione di rispetto al livello sociale della Dpn?
Abbozzo la risposta che qui rispetto puo' significare non-emarginazione
dell'avversario, non-separazione scostante da esso, non-rottura del ponte
comunicativo, non-disprezzo, e, di piu', ricerca del dialogo per scoprire la
"verita' dell'altro" e quella che Aldo Capitini chiamava "apertura al tu"
(forse attraverso manifestazioni che giungano sotto casa dei boss o anche
attraverso franchi colloqui diretti richiesti da parte di gruppi di
cittadini, non per accusare ma per comprendere - e per dire la propria)
(18). (Se si considera il rispetto nella sua doppia direzione - dato e
ricevuto -, quando si fosse raggiunto questo risultato si avrebbe qualcosa
di simile ad un accomodamento, perche' l'affiliato di mafia decide di non
ricorrere alla violenza).
Passo all'ultimo punto: il fermo rifiuto di accettare intimidazioni.
L'azione di mostrare rispetto (come del resto quella di presentare la
propria sofferenza se appare piatusaria), da se' sola, puo' essere ancora
scambiata per sottomissione. In questo caso, se cioe' l'avversario crede che
il nonviolento abbia paura, si restera' lontani dalla possibilita' di venire
rispettati. Percio' e' indispensabile che si sappia anche comunicare
all'altro il coraggio e la determinazione da cui si e' mossi.
Anche questo fatto appena menzionato era gia' chiaro a Falcone che, in un
passo sopra citato dichiarava che gli affiliati di mafia con cui aveva a che
fare sapevano non solo che egli aveva per loro vero rispetto, ma anche che
non provava verso di loro "nessun timore reverenziale". Ancora una volta,
nonviolenza vuol dire buona capacita' di comunicare, e perche' lo stato di
chiarezza sia raggiunto occorre quindi che il rispetto sia accompagnato
dalla ferma dimostrazione di coraggio: valgono qui interamente le parole di
Gian Carlo Caselli secondo cui il coraggio e la determinazione sono
"requisiti oggi indispensabili al pari dell'onesta' e della preparazione"
(19).
La situazione in cui puo' bastare il solo coraggio (in quanto elemento di
coercizione nonviolenta) e' quella che vede anche la messa in atto di una
interposizione ad opera di pochi attori della societa' civile come sola
terza parte. (Ma ribadisco che, in quanto tecniche della Dpn, i tre fattori
discussi vanni concepiti in funzione integrata). A questo livello, azioni di
diplomazia popolare, oltre a svolgere eventualmente operazioni di scorta
nonviolenta o empowerment della parte oppressa, organizzeranno pubblicazioni
di manifesti e volantini, dimostrazioni e azioni simboliche, digiuni,
boicottaggi economici, trasmissioni radiofoniche e televisive ecc., per un
allargamento del conflitto che riesca a coinvolgere la restante societa'
civile come parte attiva. Quest'ultimo elemento si rivela praticamente
decisivo, come decisiva e' al momento la sua indifferenza che abbandona le
vittime alla solitudine di un rapporto polarizzato con i loro oppressori.
Da questo punto di vista e' fondamentale sottolineare che non ci sono parti
estranee al conflitto o non responsabili per una loro mancanza di
complicita' con gli aggressori. Chi non reputa proprio il problema della
mafia solo perche' non aderisce ad essa o non ne approva l'operato, chi
forse ne ignora addirittura l'esistenza, non e' innocente. In un insieme
considerato sistemicamente l'ignoranza non e' piu' un alibi, c'e' un dovere
di attenzione che fa si' che qualsiasi disattenzione sia essa stessa gia'
responsabile. Come viene detto da A. Bendana e C. Villa-Vicencio a proposito
della situazione dell'apartheid sudafricano, "perche' si produca una vera
riconciliazione, l'attenzione della nazione deve in ultima analisi
allontanarsi dalla considerazione dei soli autori dei reati (...) per
concentrarsi su coloro che hanno beneficiato del regime di apartheid, e
richiedere che tutti coloro che hanno tratto vantaggio dall'apartheid
contribuiscano a risarcire materialmente quelli che ne hanno subito le
conseguenze" (20). Di piu', "la riconciliazione richiede inoltre che anche
gli aggressori, i beneficiari e coloro che hanno assistito senza reagire ai
soprusi commessi contro altre persone, prendano atto della disumanizzazione
che li ha marchiati. Spesso si tratta di sete di privilegi, arroganza,
avidita', indifferenza, ignoranza, paura" (21). Nemmeno l'ignoranza e'
innocente, perche' e' egocentrica, chiusa nel "non fare agli altri cio' che
non vorresti fosse fatto a te", non orientata all'altro, non attenta, non in
ascolto al bisogno e alla sofferenza degli altri, non volta a "fare agli
altri cio' che vorresti fosse fatto a te".
Senza riconoscere la responsabilita' di tutti, la riconciliazione (della
societa' civile con le vittime) sara' tutt'al piu' momentanea perche' non
potra' trasformarsi in una lezione per il futuro.
*
Note
1. E. Sanfilippo, Il contributo della nonviolenza al superamento del sistema
mafioso, in "Quaderni Satyagraha" 3, 2003, pp. 195-215 [riprodotto anche ne
"La nonviolenza e' in cammino" n. 674].
2. Anche questo elemento e' sottolineato bene nel saggio di Enzo Sanfilippo.
3. Pertanto indirizzarne l'evoluzione nel senso di un'organizzazione
criminale comune puo' essere gia' uno scopo positivo.
4. Su questo elemento cfr. ancora Sanfilippo, Il contributo della
nonviolenza, cit., che lo tratta come "area di contiguita' affettiva".
5. Per un'analisi attenta e puntuale su questo versante cfr. U. Santino,
Introduzione allo studio del fenomeno mafioso, in A. Cavadi (a cura di), A
scuola di antimafia. Materiali di studio, criteri educativi, esperienze
didattiche, Centro di Documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1994, pp.
15-35, part. alle pp. 25 sgg. si suggerisce che la soggettivita' politica
della mafia e' data dal suo essere organizzata come un gruppo politico (con
norme, ambito territoriale, coercizione fisica, apparato amministrativo) e
dal fatto che essa, attraverso un rapporto di identificazione o
compenetrazione con gli apparati burocratici e istituzionali, "determina o
contribuisce a determinare le decisioni e le scelte riguardanti la gestione
del potere e la distribuzione delle risorse".
6. Cfr. A. Cozzo, Conflittualita' nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta
comunicativa, Mimesis, Milano 2004, pp. 244-255.
7. Cfr. U. Santino, Appunti su mafia e pedagogia alternativa, in A. Cavadi
(a cura di), A scuola di antimafia, cit., pp. 67-71. A p. 68 si legge
dell'azione intermediaria della mafia, "ruolo tradizionale, ma non per
questo obsoleto". Proprio su questo ruolo che oggi torna ad essere
pienamente attuale fanno luce E. Bellavia e S. Palazzolo, Voglia di mafia,
Roma, Carocci 2004.
8. Cfr. J.-P.Bonafe'-Schmitt, Les mediations: logiques et pratiques
sociales, Glysi, Lyon 2001; R. Di Rosa, La Mediazione. Gestione del
conflitto e (ri)costruzione sociale, La Zisa, Palermo 2002.
9. Cfr. per esempio, P. Borsellino, Mafia: il nodo e' politico, in F.
Petruzzella (a cura di), Sulla pelle dello Stato, La Zisa, Palermo 1991, pp.
158-165 (gia' in "Segno", n. 100, 1988).
10. Jean e Hildegard Goss-Mayr, La nonviolenza evangelica, La Meridiana,
Molfetta (Ba) 1991, p. 88. E, forse anche meglio, direi: "dire all'altro il
male che ci fa".
11. G. Sharp, Politica dell'azione nonviolenta. 3. La dinamica, tr. it.
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997, cap. XIV. La persuasione (o conversione)
si ha quando l'avversario perviene ad una trasformazione del proprio punto
di vista in modo tale da comprendere ed includere i fini dell'attore
nonviolento; l'accomodamento avviene quando l'avversario rinuncia alla sua
azione di oppressione, pur potendo continuarla, per timore di riuscire
danneggiato: non si ha un mutamento di opinione, ma un mutamento di azione
per evitare un proprio rischio; la coercizione nonviolenta si realizza
quando l'avversario, per comportamenti nonviolenti come la noncollaborazione
e la disobbedienza civile, pur non avendo cambiato opinione, non e' piu' in
grado di opprimere.
12. G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, Feltrinelli, Milano  2004 (II ed.), pp.
67-69.
13. G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., pp. 70-71: "Ho imparato a
riconoscere l'umanita' anche nell'essere apparentemente peggiore; ad avere
un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. (...)
L'imperativo categorico dei mafiosi, di "dire la verita'", e' diventato un
principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti
veramente importanti della mia vita. Per quanto possa sembrare strano, la
mafia mi ha impartito una lezione di moralita'".
14. G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., p. 49: "esprimendo il mio
rispetto ed esigendo il loro"; p. 58: "mi sono sempre espresso con i mafiosi
che interrogavo e che affermavano di voler collaborare in modo crudo,
distaccato, scettico e quindi sincero. (...) I mafiosi, al pari di chiunque
altro, devono essere trattati con franchezza e correttamente".
15. G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., p. 50. Naturalmente non si tratta
di un automatismo, ma di un processo che, tanto piu' quanto ci si riferisce
a rapporti non diretti, ha tempi suoi. Per le dinamiche sociali in generale
Sharp, Politica dell'azione nonviolenta. 3., cit., p. 238, elenca cinque
fasi: l'indifferenza, lo scherno, le ingiurie, la repressione e il rispetto.
16. Cfr. A. Cavadi, Per una pedagogia antimafia, in A. Cavadi (a cura di), A
scuola di antimafia, cit., pp. 72-113, part. pp. 97-98.
17. G. Falcone, Cose di Cosa Nostra, cit., p. 156.
18. La nonviolenza di Gandhi e', in altro contesto e con altri
interlocutori, ricca di esempi di incontri di tal genere.
19. G. C. Caselli, Prefazione a Bellavia e Palazzolo, Voglia di mafia, cit.,
p. VIII.
20. A. Bendana e C. Villa-Vicencio, La riconciliazione difficile. Dalla
guerra a una pace sostenibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2002, p. 38.
21. Bendana e Villa-Vicencio, La riconciliazione difficile, cit., p. 79.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 853 del 27 febbraio 2005

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