La nonviolenza e' in cammino. 824



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 824 del 29 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. Per una bibliografia sulla Shoah (parte quarta)
2. Giovanna Boursier intervista Douglas Greenberg
3. Micaela Procaccia: Un'esperienza alla Shoah Foundation
4. Federica K. Clementi intervista Elie Wiesel
5. Donatella Di Cesare: Di fronte alla condizione inumana
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. MATERIALI. PER UNA BIBLIOGRAFIA SULLA SHOAH (PARTE QUARTA)

NORMAN COHN
Illustre storico. Opere di Norman Cohn: I fanatici dell'Apocalisse, Edizioni
di Comunita', Milano 1965, 1976; Licenza per un genocidio, Einaudi, Torino
1969.

ENZO COLLOTTI
Illustre storico e docente universitario. Opere di Enzo Collotti: segnaliamo
particolarmente La Germania nazista, Einaudi, Torino 1962; Fascismo,
fascismi, Sansoni, Firenze 1989. Tra vari altri suoi importanti lavori cfr.
anche La soluzione finale, Newton Compton, Roma 1995.

FURIO COLOMBO
Nato nel 1931, giornalista, docente, scrittore, parlamentare; e'
principalmente suo merito la legge 20 luglio 2000, n. 211, che ha istituito
il "Giorno della Memoria" nell'anniversario dell'abbattimento dei cancelli
di Auschwitz (27 gennaio 1945) per non dimenticare la Shoah.

NOEMI COLOMBO
Studiosa particolarmente impegnata nell'associazionismo democratico e contro
il razzismo. Opere di Noemi Colombo: (a cura di), La memoria al futuro, Nero
e non solo, 1993.

FRANCESCO COMINA
Francesco Comina, giornalista e saggista, pacifista nonviolento, e'
impegnato nel movimento di Pax Christi; nato a Bolzano nel 1967, laureatosi
con una tesi su Raimon (Raimundo) Panikkar, collabora a varie riviste. Opere
di Francesco Comina: Non giuro a Hitler, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo (Mi) 2000; ha contribuito al libro di AA. VV., Le periferie della
memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino-Verona; e a AA. VV.,
Giubileo purificato, Emi, Bologna.

LAURA CONTI
Nata a Udine nel 1921, partigiana, deportata e sopravvissuta al lager.
Medico, parlamentare, rappresentante autorevole dell'ambientalismo
scientifico e del movimento ecologista. E' scomparsa nel 1993. Opere di
Laura Conti: Assistenza e previdenza sociale, Feltrinelli, Milano 1958; La
condizione sperimentale, Mondadori, Milano 1965; Sesso e educazione, Editori
Riuniti, Roma 1975; Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano 1978; Una lepre con
la faccia di bambina, Editori Riuniti, Roma 1978; Che cos'e' l'ecologia,
Mazzotta, Milano 1981; Il tormento e lo scudo, Mazzotta, Milano 1981;
Ambiente terra, Mondadori, Milano 1988. Opere su Laura Conti: non conosciamo
monografie specifiche, un breve profilo e' nel libro di Andrea Poggio,
Ambientalismo, Bibliografica, Milano 1996. Indirizzi utili: presso
l'Ecoistituto del Veneto e' istituito un Premio ecologia "Laura Conti" a
soggetti impegnati concretamente per un futuro sostenibile: viale Venezia 7,
30171 Mestre (Ve), e-mail: info at ecoistituto.veneto.it

CONSTANTIN COSTA GAVRAS
Regista cinematografico di forte impegno civile. Opere di Constantin
Costa-Gavras: Z. L'orgia del potere (1969); La confessione (1970);
L'amerikano (1973); L'affare della sezione speciale (1975); Missing.
Scomparso (1982); Betrayed. Tradita (1988); Music box. Prova d'accusa
(1989); Mad city. Assalto alla notizia (1997).

ALESSANDRO DAL LAGO
Alessandro Dal Lago e' docente di sociologia dei processi culturali
all'Universita' di Genova, presso la stessa Universita' coordina un gruppo
di ricerca sui conflitti globali; e' membro della redazione della rivista
filosofica "aut aut", ha curato l'edizione italiana di opere di Hannah
Arendt e di Michel Foucault. Tra le opere di Alessandro Dal Lago segnaliamo
particolarmente Non-persone. L'esclusione dei migranti in una societa'
globale, Feltrinelli, Milano 1999. Cfr. inoltre: I nostri riti quotidiani,
Costa & Nolan, Genova 1995; (a cura di), Lo straniero e il nemico, Costa &
Nolan, Genova 1997; La produzione della devianza, Ombre corte, Verona 2001;
Giovani, stranieri & criminali, Manifestolibri, Roma 2001. Polizia globale.
Guerra e conflitti dopo l'11 settembre, Ombre corte, Verona 2003.

GIOVANNI DALL'ORTO
Storico e saggista, nato a Milano nel 1958, impegnato nel movimento
omosessuale, ha condotto ricerche e pubblicato studi sull'omosessualità in
campo storico, sociologico e letterario. Opere di Giovanni Dall'Orto:
segnaliamo particolarmente Leggere omosessuale, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1984; nella rete telematica sono disponibili suoi saggi su nazismo,
fascismo e omosessualita', nel sito
http://digilander.libero.it/giovannidallorto.

ENRICO DEAGLIO
Nato a Torino nel 1947, giornalista e saggista, direttore del settimanale
"Diario". Opere di Enrico Deaglio: segnaliamo particolarmente La banalita'
del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli, Milano 1991, 1993.

GIACOMO DEBENEDETTI
Nato a Biella nel 1901, deceduto a Roma nel 1967, saggista e docente
universitario, una delle figure piu' limpide della cultura italiana del
Novecento. Opere di Giacomo Debenedetti: segnaliamo particolarmente i due
opuscoli 16 ottobre 1943, e Otto ebrei, riediti in unico volume nelle Opere
di Giacomo Debenedetti, da Il Saggiatore, Milano. Opere su Giacomo
Debenedetti: Cesare Garboli (a cura di), Giacomo Debenedetti, Il Saggiatore,
Milano 1968; Angela Borghesi, La lotta con l'angelo, Marsilio, Venezia 1989.

VLADIMIR DEDIJER
Illustre storico, gia' combattente nella guerra di liberazione jugoslava
contro il nazifascismo. Opere di Vladimir Dedijer: oltre a Il groviglio
balcanico e Sarajevo, Il Saggiatore, Milano 1969, segnaliamo particolarmente
il suo saggio Appunti sulla storiografia come strumento d'identificazione
con l'aggressore, in AA. VV. (a cura di Franco Basaglia e Franca Basaglia
Ongaro), Crimini di pace, Einaudi, Torino 1975.

FRANCOIS DE FONTETTE
Giurista e docente universitario francese. Opere di Francois De Fontette:
Sociologie de l'antisemitisme, Paris 1984; Histoire de l'antisemitisme,
Paris 1991; Il razzismo, Mondadori, Milano 1995..

ANGELO DEL BOCA
Nato a Novara nel 1925. Giornalista, storico, docente universitario;
presidente dell'Istituto Storico della Resistenza di Piacenza e direttore
della rivista storica "Studi piacentini". Opere di Angelo Del Boca:
Apartheid: affanno e dolore, Bompiani; Gli italiani in Africa Orientale, 4
voll., Laterza, poi Mondadori; Gli italiani in Libia, 2 voll., Laterza, poi
Mondadori; L'Africa nella coscienza degli italiani, Laterza; Una sconfitta
dell'intelligenza, Laterza; La trappola somala, Laterza; Il Negus, Laterza;
I gas di Mussolini, Editori Riuniti; Gheddafi. una sfida dal deserto,
Laterza. Ha curato anche i volumi collettanei Le guerre coloniali del
fascismo; Adua. Le ragioni di una sconfitta; ambedue presso Laterza.

CLAUDIO DELLA VALLE
Vicepresidente dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di
Liberazione in Italia.

MARCELLA DELLE DONNE
Docente di sociologia delle relazioni umane all'Universita' di Roma.
Impegnata in iniziative di pace, per la convivenza e contro il razzismo.
Opere di Marcella Delle Donne: Convivenza civile e xenofobia, Feltrinelli,
Milano 2000.

HENRI DE LUBAC
Illustre teologo e meravigliosa persona (Cambrai 1896 - Parigi 1991). Opere
di Henri De Lubac: qui segnaliamo particolarmente Resistenza cristiana
all'antisemitismo. Ricordi 1940-1944, Milano 1990. L'opera omnia e' edita
dalla casa editrice Jaca Book, 1978 sgg.

GIOVANNI DE LUNA
Storico e docente universitario. Opere di Giovanni De Luna: Storia del
Partito d'Azione 1942-1947, nuova edizione Editori Riuniti, Roma 1997; (con
Marco Revelli), Fascismo antifascismo, La nuova Italia, Scandicci (Fi) 1995.

2. MEMORIA. GIOVANNA BOURSIER INTERVISTA DOUGLAS GREENBERG
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 gennaio 2005. Giovanna Boursier e' una
studiosa che ha dedicato particolare attenzione ed importanti ricerche alla
storia e alla cultura dei rom, ed allo sterminio nazista. In questa
intervista Douglas Greenberg, principale collaboratore di Steven Spielberg
nell'intrapresa della Shoah Foundation, racconta il progetto e la
catalogazione di questa collezione unica realizzata in 56 paesi e in 32
lingue di 52.000 videointerviste, e la collaborazione con l'Archivio di
Stato per i documenti italiani. La Visual History Foundation esiste dal
1994, realizzata con gli incassi di Schindler's list, ed e' la la piu'
grande raccolta audiovisiva di testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah]

Nel 1994 Steven Spielberg ha cominciato una corsa contro il tempo e, in
qualche modo, a favore della Storia: ha fondato a Los Angeles la Visual
History Foundation per raccogliere quante piu' possibili testimonianze
audiovisive tra i sopravvissuti e i testimoni della Shoah ancora in vita.
Era trascorso gia' mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale ma,
con i soldi guadagnati dal suo film Schindler's list, il grande regista
americano ha messo in piedi un'organizzazione instancabile di collaboratori
e volontari che hanno addestrato 2.300 intervistatori e operatori sparsi in
tutto il mondo per realizzare, in pochi anni, 52.000 testimonianze in 56
paesi e in 32 lingue diverse. Adesso gli originali sono depositati al sicuro
in Pennsylvania, mentre le copie, attraverso un altro enorme lavoro, vengono
catalogate con 30.000 parole chiave da altri volontari in California. Una
memoria monumentale, quindi, 120.000 ore di girato, voci e volti fissati
dalle telecamere che ci restituiscono le vicende del nazifascismo e di
quegli anni orrendi e che sono anche un gigantesco documento storico contro
ogni negazionismo, con l'enorme valore di rimanere per sempre, mentre i
sopravvissuti stanno scomparendo.
Di queste videointerviste oltre 400 sono italiane e domani verranno
ufficialmente consegnate all'Archivio Centrale dello Stato, a disposizione
del pubblico del nostro paese. Sara' Douglas Greenberg, storico, presidente
della Shoah Foundation e braccio destro di Spielberg in tutta questa
operazione, a presenziare alla cerimonia ufficiale di consegna, mentre
Steven Spielberg, come e' nel suo stile, mandera' un video-messaggio.
Greenberg, che a Los Angeles dirige il lavoro immane e incessante di
catalogazione, conservazione e diffusione delle videotestimonianze, accetta
volentieri di parlarne con noi, emozionato per quello che considera piu' che
un accordo tra archivi una "restituzione, un ritorno delle
videotestimonianze nel paese dove sono state raccolte. Il mio viaggio a
Roma - aggiunge - coincide con il giorno della memoria, che quest'anno e'
anche il sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Per
questo e' una data simbolica e importante. E per questo oggi proietteremo
all'Universita' il nostro documentario Voices from the list, di fronte a
piu' di mille studenti universitari e delle scuole superiori. Domani ci
sara', invece, la consegna della collezione italiana, che io considero come
una pietra miliare del nostro lavoro perche' ha un enorme valore storico. E
per noi rappresenta anche la conclusione di una lunga collaborazione con
l'Archivio di Stato iniziata nel 2002, che ha permesso anche di avere tre
archivisti italiani a Los Angeles per la catalogazione delle testimonianze
provenienti dal vostro paese, che cosi' si e' conclusa con successo
nell'agosto scorso".
- Giovanna Boursier: Alla fine, quindi, che bilancio fa della collaborazione
tra la vostra Fondazione e l'Archivio centrale dello stato?
- Douglas Greenberg: Il lavoro e' stato lungo e proficuo e lo spirito di
collaborazione si e' visto fin dall'inizio, perche' l'Archivio ha subito
riconosciuto l'importanza per il pubblico italiano di poter accedere alle
testimonianze italiane. Cosi', diversamente dagli altri paesi, l'Italia ci
ha mandato questi tre archivisti a imparare il nostro sistema di
catalogazione. E di questo vi siamo grati. Inoltre, con l'inaugurazione di
questa collezione la collaborazione entra in una nuova fase, perche'
l'Archivio ha anche acquisito la licenza del nostro sistema di
indicizzazione, che adesso potra' adattare alle sue esigenze e usarlo da
modello per la catalogazione dei materiali audiovisivi in tutto il paese. E
anche questo e' molto importante perche' apre nuove possibilita'
all'accessibilita' delle fonti audiovisive in Italia. Tra noi e il vostro
paese, quindi, il rapporto e' stato facile. Abbiamo relazioni in tutto il
mondo ma nessun caso e' stato piu' semplice di questo.
- Giovanna Boursier: Questa "restituzione" e' stata fatta anche in altri
paesi?
- Douglas Greenberg: Si'. Le nostre collezioni si possono trovare gia' in
sedici paesi. Berlino e Amsterdam sono state le prime citta' dove abbiamo
"restituito" le nostre testimonianze. Altri archivi sono in Ungheria e
Polonia, dove abbiamo anche ricevuto sovvenzioni per la distribuzione di
nuovi materiali educativi per le scuole. Recentemente abbiamo anche firmato
un accordo che, entro il 2008, permettera' allo Yad Vashem di Gerusalemme
l'accesso a tutte le nostre 52.000 videotestimonianze, che naturalmente
comprendono anche 8.500 interviste realizzate in Israele. E infine, pochi
giorni fa, al Centro di documentazione ebraica di Parigi, alla presenza di
Chirac, abbiamo inaugurato anche la collezione francese, piu' di 1.800
testimonianze in francese o registrate in Francia.
- Giovanna Boursier: Come sono le testimonianze italiane?
- Douglas Greenberg: Sono piu' di 400, tra sopravvissuti e altri testimoni,
e sono state raccolte sia in Italia che in altri paesi ma in lingua
italiana. In qualche modo rappresentano bene l'interezza del nostro archivio
che contiene circa 52.000 testimonianze: molti sono sopravvissuti ebrei, ma
ci sono anche soccorritori e liberatori, testimoni ai processi contro i
crimini di guerra e sopravvissuti sinti e rom. E tutti ci offrono la
ricostruzione della loro vita che, adesso, sara' accessibile a un ampio
pubblico che potra' apprendere la lezione preziosa che la storia puo'
insegnare attraverso l'unicita' della narrazione personale dei protagonisti,
comprendendo cosi' meglio la storia del proprio paese. In Italia, per
esempio, abbiamo chiesto a tutti come reagirono alle leggi razziali del
1938.
- Giovanna Boursier: Come sono state condotte le interviste?
- Douglas Greenberg: Da volontari, come in tutti gli altri paesi. Erano
intervistatori e operatori addestrati dalla Shoah Foundation. La telecamera
era fissa e ogni intervistatore doveva rispettare uno schema universale con
tre domande chiave: come era la vita del testimone prima della guerra, cosa
gli era successo negli anni della Shoah, e com'era stata la sua vita dopo la
Shoah. E, nonostante ci siano 52.000 interviste, ogni persona ha dato
risposte uniche e personali a queste domande.
- Giovanna Boursier: Qual era lo scopo?
- Douglas Greenberg: C'erano tre ragioni: commemorazione, conoscenza e
educazione. Commemorazione perche' come esseri umani abbiamo il dovere,
l'obbligo, di ricordare. L'undicesimo comandamento dice "non dimenticare il
passato". Senza le testimonianze dei sopravvissuti noi dimenticheremmo non
solo le loro sofferenze, ma anche quelle dei sei milioni di uccisi che hanno
sofferto ugualmente. Cosi', attraverso le testimonianze, ricordiamo e
commemoriamo anche loro. Conoscenza perche', nonostante sappiamo molto sulla
Shoah, ci sono dettagli ancora da scoprire. Gli storici continuano a
scriverne e adesso le nostre testimonianze forniscono particolari della vita
sotto la dittatura nazista che non e' possibile trovare altrove. Il
risultato si vede dal fatto che in tutto il mondo stanno aumentando studi e
ricerche che utilizzano il nostro archivio. E infine la formazione, perche'
commemorazione e conoscenza non hanno valore se non servono a formare,
educare, le generazioni del futuro. I giovani hanno bisogno di sapere quello
che e' successo agli ebrei in Europa non soltanto per il loro interesse. I
giovani di tutto il mondo devono sapere quello che e' successo in modo da
evitare che accada ancora. Solo attraverso l'educazione, la formazione,
possiamo davvero sperare di evitare che la storia della Shoah si ripeta. In
Cambogia, Rwanda, nei Balcani e in molti altri luoghi, come adesso nel
Darfur, si ripete l'orrore delle uccisioni di massa. I nostri figli stanno
ereditando un mondo violento e noi abbiamo il dovere di dar loro gli
strumenti per trasformarlo in un mondo di pace.
- Giovanna Boursier: C'e' chi pensa che la Shoah sia unica e non ritiene
giusto paragonarla a altri genocidi
- Douglas Greenberg: La Shoah e' certamente unica nelle sue dimensioni. Ma
l'impulso razzista che l'ha guidata e sostenuta, la volonta' di annientare
completamente un altro popolo invece che, eventualmente, sconfiggerlo, e' un
impulso che va diviso tra tutti coloro che hanno commesso genocidi nel
mondo. Naturalmente non e' contraddittorio sostenere che esiste un'unicita'
della Shoah. Ma allo stesso modo esiste un'unicita' del genocidio in Rwanda.
Perche' cosi' e' per ogni evento storico. Pero' i genocidi hanno molto in
comune ed e' questo che cerchiamo di mettere in evidenza alla Shoah
Foundation.

3. MEMORIA. MICAELA PROCACCIA: UN'ESPERIENZA ALLA SHOAH FOUNDATION
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 gennaio 2005. Micaela Procaccia,
studiosa e ricercatrice, lavora all'Archivio centrale dello stato ed ha
collaborato al lavoro di indicizzazione delle interviste ai sopravvissuti
italiani della Shoah]

Arrivando nella sede della Shoah Foundation di Los Angeles, la prima
reazione e' di sorpresa. Pensando a questa organizzazione, fondata da Steven
Spielberg per raccogliere il maggior numero possibile di testimonianze sulla
Shoah, e' difficile liberarsi del tutto da un'immagine vagamente
hollywoodiana. E, invece, il posto e' assolutamente spartano: un gruppetto
di prefabbricati con tavolini all'aperto e ombrelloni contro il sole
californiano. All'interno, in locali essenziali (ai muri foto, poster,
scritte spiritose) una squadra non enorme di persone procede a un lavoro di
indicizzazione analitica delle oltre 52.000 interviste, in 36 lingue,
realizzate in 52 paesi. Sono stata la', con Lucilla Garofano e Giovanni
Contini, per indicizzare le 434 interviste in italiano, per incarico della
Direzione generale per gli archivi del Ministero per i beni e le attivita'
culturali. L'accordo, firmato nel 2001, era che noi avremmo indicizzato le
interviste in italiano che poi sarebbero state consegnate in copia (insieme
al nostro lavoro) all'Archivio Centrale dello Stato: cosa che adesso
avverra', con una cerimonia pubblica.
Abbiamo cominciato il nostro lavoro nell'estate 2002 e lo abbiamo finito a
settembre scorso, andando e venendo dall'Italia: 23 mesi di lavoro
effettivi, trascorsi guardando le interviste per circa dieci ore al giorno,
mentre il sistema informatico scandiva il racconto in segmenti di un minuto
ciascuno, ai quali noi "agganciavamo" le parole-chiave prese da un thesaurus
di 30.000 termini. Ogni momento del racconto e' stato cosi' identificato con
il luogo, l'anno e il tema trattato. Le parole-chiave, infatti, si
riferiscono anche alle esperienze narrate, sia oggettive (arresto, fuga da
una retata, condizioni di vita nei campi, nascondigli, etc.), sia di tipo
psicologico (percezione del tempo nel campo, senso di abbandono, e cosi'
via).
Questa indicizzazione permette ai ricercatori di individuare subito in tutte
le interviste ogni segmento in cui si parla di un certo argomento e consente
la ricerca per luogo, per tempo e per tema del racconto. Accanto a questo
lavoro, abbiamo anche inserito in un'apposita banca dati i dati biografici
di tutte le persone nominate nel racconto e la loro relazione con
l'intervistato (madre, padre, amico, guardia del campo, etc.). Questo
lavoro, apparentemente asettico, non lo e' affatto: non c'e' nulla di
astratto o banalmente tecnologico nell'indicizzare i ricordi di fuga di chi
era allora un bambino, o il ricordo della mano del padre strappata dalla
propria all'arrivo ad Auschwitz. Nessuno di noi tre, credo, ne e' uscito del
tutto indenne.

4. MEMORIA. FEDERICA K. CLEMENTI INTERVISTA ELIE WIESEL
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 gennaio 2005.
Federica K. Clementi ha studiato all'Universita' di Roma e alla Brandeis
University in Massachusetts; profonda conoscitrice dell'opera di Wislawa
Szymborska, e' giornalista, saggista, traduttrice, acuta studiosa del
linguaggio poetico e della pratica della traduzione, ed autrice di un
apprezzato dizionario italiano-inglese ed inglese-italiano.
Elie Wiesel, nato nel 1928 a Sighet in Transilvania, venne deportato ad
Auschwitz e Buchenwald. Dopo la guerra e' stato giornalista, scrittore,
testimone impegnato per i diritti umani, premio Nobel per la pace. Tra le
opere di Elie Wiesel si vedano in particolare i due volumi delle memorie
Tutti i fiumi vanno al mare, Bompiani, Milano 1996; ... E il mare non si
riempie mai, Bompiani, Milano 1998, 2003. Tra i suoi molti libri e'
indispensabile leggere innanzitutto almeno La notte, Giuntina, Firenze 1980.
Segnaliamo anche almeno il colloquio tra Jorge Semprun ed Elie Wiesel,
Tacere e' impossibile, Guanda, Parma 1996]

Ungherese di nascita, superstite dei campi di sterminio nazisti, dove perse
tutta la famiglia, naturalizzato americano nel 1963, Elie Wiesel e' da
alcuni decenni un personaggio pubblico di fama internazionale, quasi un
simbolo della lotta per il rispetto dei diritti umani nel mondo e
soprattutto per la conservazione e rispetto della memoria dell'Olocausto. E
alla vigilia del giorno della memoria, a sessant'anni dall'apertura dei
cancelli di Auschwitz, lo scrittore settantasettenne - magro, elegante,
vestito come sempre di scuro - ci accoglie nel suo ufficio pieno di luce e
libri sulla punta di un grattacielo dell'Upper East Side a New York, per
tracciare - in una lingua composita, che alterna ebraico, francese e
inglese - un bilancio del significato contemporaneo di questa
commemorazione.
- Federica K. Clementi: Nel corso di questi sessant'anni l'Olocausto, che e'
stato, ed e' tuttora, un dramma "personale" per tutto il popolo ebraico, ha
raggiunto un'ampiezza universale? O con il passare del tempo questa
tragedia, nella percezione comune, e' ridiventata una storia soltanto
ebraica?
- Elie Wiesel: In passato questo evento veniva sentito come un'esperienza
storica che riguardava solo gli ebrei. Oggi, invece, sebbene venga ancora
considerato come un dramma del popolo ebraico, appaiono sempre piu' evidenti
le sue implicazioni universali. D'altro canto, io ripeto sempre che non
tutte le vittime dell'Olocausto erano ebrei, ma tutti gli ebrei ne furono
vittime.
- Federica K. Clementi: Lei vive da molti anni negli Usa. Pensa che esista
un modo tipicamente "americano" di "leggere" l'Olocausto? In altri termini:
esistono approcci ideologicamente diversi a questa storia?
- Elie Wiesel: No, non penso che esista un atteggiamento americano o europeo
o israeliano di considerare l'Olocausto. Quello che conta e' che tutti
lavoriamo sullo stesso progetto: ricordare.
- Federica K. Clementi: Ma come ricordare? Come ricostruire, a distanza di
sessant'anni, quando la maggior parte dei testimoni sono morti, la memoria
di un evento che comunque fin dall'inizio appare inenarrabile?
- Elie Wiesel: Questo e' il problema: come far comprendere
l'incomprensibile. Io ho scritto quarantacinque libri, ma raramente i miei
libri ne parlano. Ancora adesso, ogni volta che pronuncio la parola
"Auschwitz" devo fermarmi e tremo davanti ad essa. Forse, quando ne
parliamo, dovremmo anche includere il silenzio, l'inenarrabile, la memoria
del silenzio... non il silenzio della memoria.
- Federica K. Clementi: Puo' un museo ricreare quello che nemmeno un
testimone oculare sa dire?
- Elie Wiesel: Forse e' piu' facile per un museo che per il singolo
individuo trattare di questo tema: i musei dispongono di una vasta gamma di
rappresentazioni: dai documenti alle fotografie alle opere d'arte... Ma e'
vero, nemmeno questo basta. Sono convinto che solo chi ha vissuto
l'Olocausto sa di cosa si e' trattato. Nessun altro ha accesso alla
conoscenza di quell'orrore. E' la tragedia meglio documentata della storia,
ma il suo quadro restera' sempre insoddisfacente.
- Federica K. Clementi: E di tutti i media utilizzati per raccontare la
Shoah - film, romanzi, testimonianze - pensa che qualcuno possa avere
effetti negativi? Non dovremmo temere che la "societa' dello spettacolo" nel
proporci questa tragedia possa calcificare gli stereotipi, o istigare un
voyeurismo morboso?
- Elie Wiesel: Il pericolo e' reale, soprattutto quando si tratta
dell'Olocausto in modo "romanzesco". E specialmente al cinema. Ma d'altro
canto, chi sono io per dire alla gente come deve ricordare? Personalmente,
non potrei mai scrivere un romanzo sull'Olocausto, e ho molta fiducia nei
documentari. Ma poi leggo una poesia scritta da un ragazzino a
Theresienstadt e per me ha lo stesso valore di una preghiera, e' verita'
tanto quanto un documento che sopravvivera' a testimonianza dell'accaduto.
- Federica K. Clementi: Lei accenna all'impossibilita', e al contempo alla
necessita', di trasmettere la conoscenza della Shoah. Ma e' legittimo
costringere gli altri a ricordare? Insomma, insegnare l'Olocausto non si
risolve nel vergognarsene, o nel compatire la sofferenza umana.
- Elie Wiesel: Oggi non c'e' una sola scuola superiore negli Stati Uniti che
non abbia nel proprio programma almeno un libro che tratti dell'Olocausto.
Questo significa che tutti gli studenti sono ugualmente recettivi verso
questa problematica? Proprio no. Io non posso costringere nessuno a provare
cio' che provo. In compenso pero', credo che sarebbe una buona idea istruire
meglio gli insegnanti che spesso non fanno un buon lavoro nel trattare
questo argomento. Anche se sono convinto che sia impossibile ricavare una
lezione positiva da tanto male, spero che si possano imparare piccole
lezioni quotidiane, che ci aiutino a non dimenticare ma soprattutto a non
perpetrare gli orrori del passato. Ci sono poche speranze per un mondo
migliore, ma come direbbero i francesi "et pourtant"... malgrado tutto,
bisogna tentare.
- Federica K. Clementi: La generazione a cui lei appartiene ha lavorato
molto per ricostruire sulle ceneri degli orrori passati. Eppure, qualcosa
deve essere andato storto se il nuovo millennio si apre con tante
manifestazioni di antisemitismo, con una nuova guerra...
- Elie Wiesel: E' vero, le cose non sono andate come ci si sarebbe aspettati
sessant'anni fa. Nel 1945 io ero sull'orlo di un baratro. Eppure,
idealisticamente credevo che ormai il peggio ce lo eravamo lasciati dietro.
Che l'odio e l'antisemitismo non avrebbero piu' preso il sopravvento,
perche' s'era visto cosa generavano: Auschwitz. E invece, ecco dove siamo
arrivati. A volte mi chiedo dove ho sbagliato, se la colpa non sia in parte
anche mia. Forse non ho trasmesso bene il messaggio che intendevo lasciare,
forse se avessi trovato le parole giuste... non so. E' una domanda con la
quale facciamo i conti giornalmente.
- Federica K. Clementi: Eppure, lei ha scelto di rimanere nella diaspora.
Tempo fa il premier israeliano Ariel Sharon in visita in Francia ha
suggerito a tutti gli ebrei francesi di fare l'Aliyah (l'emigrazione in
Terra Promessa). Una provocazione poco gentile... ma aveva poi tutti i
torti? Perche' per lei la risposta e' stata New York, piuttosto che Tel
Aviv?
- Elie Wiesel: Appartengo ancora alla diaspora. Non so perche' non ho voluto
fare l'Aliyah. Non ero pronto allora e non sono pronto oggi.
- Federica K. Clementi: E questo ha rappresentato per lei un problema nei
rapporti con Israele?
- Elie Wiesel: C'e' sempre stato un tremendo divario fra gli ebrei della
diaspora e gli israeliani. In Israele ci trattavano come ebrei di secondo
grado. Quando ricevetti il Nobel per la pace, solamente due paesi
criticarono l'assegnazione del premio a me: e uno dei due era Israele.
Ovviamente fui accolto con tutti gli onori di stato; ma in giro tutti
dicevano: "Che venga a vivere in Israele, allora! Che ci fa ancora in
America?".
- Federica K. Clementi: Tutto sembra trasformarsi in controversia quando si
tratta di ebrei e soprattutto di Olocausto: questa parola stessa e' oggetto
di discussione, perche' e' inflazionata, usata con troppa "leggerezza".
Cosi' io le chiedo: come vuole che ci si riferisca a cio' che accadde ad
Auschwitz? Olocausto? Shoah? Genocidio?
- Elie Wiesel: Sfortunatamente, devo ammettere di essere stato io ad aver
introdotto il termine "Olocausto" per definire lo sterminio degli ebrei
nella seconda guerra mondiale. La parola naturalmente gia' esisteva, ma io
la utilizzai con questa accezione nello scrivere un saggio sul sacrificio di
Isacco - la Bibbia in questo contesto usa la parola "ola" che significa
bruciare l'offerta sacrificale e che viene resa in greco con "olocausto",
appunto.
Mi sembro' un termine appropriato per una tragedia che ha tanto a che fare
col fuoco e la distruzione totale. Sfortunatamente il termine prese piede e
divenne sinonimo della tragedia. Ma a me non piace affatto e cerco di non
utilizzarlo. Lo stesso vale per la parola ebraica Shoah, un termine usato
liberamente per indicare anche cio' che gli ebrei soffrirono in ere
precedenti allo sterminio per mano nazista. Confondendo cosi' in un solo
termine la "soluzione finale" e i pogrom. Io resto dell'idea che non esista
una parola giusta per qualificare cio'. E questo e' un altro dei crimini
straordinari commessi dal nemico: un crimine del linguaggio. Ci hanno
privato delle parole per parlare di cio' che ci hanno fatto. Personalmente,
preferisco usare "Auschwitz" - una parola-simbolo della piu' vasta tragedia,
una parola-simbolo di cio' che hanno fatto a me. Mi hanno deportato ad
Auschwitz, e li' progettavano di sterminarmi.
- Federica K. Clementi: Nel suo discorso in occasione del Nobel, lei
descrisse Auschwitz: "L'altare in fiamme sul quale la storia del nostro
popolo e il futuro dell'umanita' dovettero essere sacrificati". Crede ancora
che il destino degli ebrei e quello dell'umanita' siano inestricabilmente
legati?
- Elie Wiesel: Assolutamente. Noi fummo i primi a patire una simile
tragedia, ma attraverso la nostra tragedia l'umanita' intera ha perduto
qualcosa. Hanno ucciso un milione e mezzo di bambini. Fra questi c'era
magari il futuro scienziato che avrebbe trovato la cura contro il cancro.
Con gli ebrei hanno sterminato la speranza messianica, l'Europa cristiana
che ne e' erede, e una fetta d'umanita' che avrebbe potuto contribuire al
bene comune.
- Federica K. Clementi: Lei pensa che l'arte possa contribuire al tikkun
'olam? Che il mondo possa essere risanato, reso nuovamente perfetto, uno? E
puo' la letteratura meglio della politica raggiungere questo scopo?
- Elie Wiesel: Si', credo profondamente nella parola.
- Federica K. Clementi: Le parole hanno creato anche Auschwitz.
- Elie Wiesel: Le parole possono annientare. Ad Auschwitz le parole non
avevano piu' significato. Auschwitz stesso inizio' con una parola. In
Germania crearono delle parole per esso. Chiamavano gli ebrei "Dingen",
oggetti. Io credo che ognuno, nel creare cose positive, contribuisca al bene
universale. Il tikkun 'olam non e' solo una speranza per gli ebrei, ma per
l'umanita'.
- Federica K. Clementi: Parafrasando una ben piu' felice frase del
tradizionale Seder della Pasqua ebraica, vorrei chiederle in conclusione
perche' questo Olocausto e' diverso da tutti gli altri olocausti.
- Elie Wiesel: Il Faraone diede ordine che solo i bambini ebrei fossero
uccisi. I nazisti volevano che tutti gli ebrei morissero. Da questo
Olocausto non c'era via d'uscita. Ogni certificato di nascita per un ebreo
divenne un certificato di morte. Ogni bambino ebreo fu condannato a non
esistere prima di essere nato. Una cosa del genere non ha precedenti: i
crociati e gli inquisitori lasciarono aperta la porta della conversione come
possibilita' di salvezza per gli ebrei. Noi trovammo tutte le porte murate.

5. RIFLESSIONE. DONATELLA DI CESARE: DI FRONTE ALLA CONDIZIONE INUMANA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 gennaio 2005. Donatella Di Cesare,
gia' allieva di Gadamer, docente di filosofia del linguaggio, e' acuta
studiosa della riflessione filosofica contemporanea; dal sito
www.donadice.com riportamo la seguente notizia: "Donatella Di Cesare si e'
laureata in Filosofia nel 1979 all'Universita' La Sapienza di Roma. Ha
proseguito gli studi all'Universita' di Tubinga dove ha conseguito il
dottorato con Eugenio Coseriu nel 1982. Dal 1985 e' stata ricercatrice di
filosofia del linguaggio all'Universita' La Sapienza di Roma. Nel 1996 ha
ottenuto la borsa di studio Alexander von Humboldt presso Hans-Georg Gadamer
all'Universita' di Heidelberg; in questa universita' ha compiuto ricerche
anche presso la Hochschule fuer Juedische Studien. Nel 1998 ha vinto il
concorso di professore associato, nel 2000 quello di professore ordinario.
Dal 2001 e' professore ordinario di filosofia del linguaggio alla facolta'
di filosofia dell'Universita' La Sapienza di Roma. E' membro della Societa'
italiana di filosofia del linguaggio, della Societa' italiana di studi sul
secolo XVIII, della Deutsche Hamann-Gesellschaft, della Academie du Midi,
della Associazione italo-tedesca di Villa Vigoni, dello International
Institut for Hermeneutics, della Heidegger-Gesellschaft, e' membro fondatore
della Walter-Benjamin Gesellschaft. Fa parte della redazione scientifica
dello Jahrbuch fuer philosophische Hermeneutik, dirige la rivista di
filosofia Eidos. Pubblicazioni di Donatella Di Cesare: segnaliamo i seguenti
volumi: Wilhelm von Humboldt y el estudio filosofico de las lenguas,
Anthropos, Barcelona 1999; Die Sprache in der Philosophie von Karl Jaspers,
Francke Verlag Tuebingen-Basel 1996; La semantica nella filosofia greca,
Bulzoni, Roma 1980; ha inoltre curato i seguenti libri: Filosofia,
esistenza, comunicazione in Karl Jaspers, a cura di D. Di Cesare e G.
Cantillo, Loffredo, Napoli 2002; L'essere che puo' essere compreso, e'
linguaggio. Omaggio a Hans-Georg Gadamer, a cura di D. Di Cesare, Il
Melangolo, Genova 2001; "Caro professor Heidegger...". Lettere da Marburgo
1922-1929, a cura di D. Di Cesare, Il melangolo, Genova 2000; Wilhelm von
Humboldt, La diversita' delle lingue, a cura di Donatella Di Cesare,
Laterza, Roma-Bari 1991, 2000. Wilhelm von Humboldt, Ueber die
Verschiedenheit der Sprache, hrsg. und mit einer Einleitung von Donatella Di
Cesare, Paderborn, UTB, 1998; Eugenio Coseriu, Linguistica del testo.
Introduzione all'ermeneutica del senso, a cura di Donatella Di Cesare,
Carocci, Roma 1997, 2000; Lexicon grammaticorum, a cura di T. De Mauro e D.
Di Cesare, Niemeyer, Tuebingen 1996; Torah e filosofia. Percorsi del
pensiero ebraico, a cura di D. Di Cesare e M. Morselli, La Giuntina, Firenze
1993; Karl Jaspers, Il linguaggio. Sul tragico, a cura di Donatella Di
Cesare, Guida, Napoli 1993; Le vie di Babele, a cura di D. Di Cesare e S.
Gensini, Marietti, Milano 1987; Iter babelicum. Studien zur Historiographie
der Linguistik. 1600-1800, a cura di D. Di Cesare e S. Gensini, Nodus
Publikationen, Muenster 1990"]

Come si puo' comprendere "quel che e' accaduto"? Come si puo' anzi presumere
di comprendere l'estraneita' assoluta del male radicale?
La domanda, in forma piu' o meno esplicita, circola nel senso comune, nella
politica, nell'arte, nella psicologia, nella storia, nella filosofia. E
sembra quasi ovvio che non si possa comprendere - a sessant'anni di
distanza. A partire dal silenzio che nell'immediato dopoguerra Theodor W.
Adorno prescrive ai poeti, questa posizione si e' andata affermando, ad
esempio nell'arte, che appare ancora stretta nell'alternativa tra
l'oscenita' del kitsch e il moralismo apologetico. La difficolta' di
rappresentare l'irrappresentabile emerge nell'idea dei monumenti
non-monumenti costruiti in questi ultimi anni nelle citta' europee ed
americane. Analoghe precauzioni attraversano altri ambiti.
Nel pamphlet filosofico uscito da poco in Italia Piccola metafisica
dell'omicidio (Genova 2004) l'autrice Eliette Abecassis torna a sottolineare
i pericoli che deriverebbero da ogni tentativo di comprendere o anche solo
di frequentare il male radicale. Il pericolo maggiore sarebbe quello del
contagio, gia' solo per la seduzione che il male esercita. Insomma per il
suo carattere inglobante "il male - secondo Abecassis - comprende chi vuole
comprenderlo". Il potere infinito del male, nella sua metafisica
trascendenza, sembrerebbe allora imporre un silenzio del dire e un silenzio
del comprendere.
Trincerarsi tuttavia dietro il non-comprendere, anche solo per precauzione,
comporta pericoli non minori. Dal non dire al negare il passo e' breve - e
nella storia si e' giunti a negare i fatti. Percio' non ci sarebbe nulla da
comprendere. Il male sarebbe appunto un nulla, un non posto fuori
dall'essere, fuori da cio' che e', che si puo' dire e che si puo'
comprendere. Questo negare e' un modo di prendere parte alla grande impresa
dello sterminio. La parola ebraica Shoah significa, com'e' noto,
annientamento, distruzione, rovina. Il male ha voluto non solo la
cancellazione delle coscienze e la morte dei corpi, ma la negazione totale
della comprensione.
Perche' allora accettare che Auschwitz sia un indicibile incomprensibile?
Non si rischia - come ha avvertito Giorgio Agamben - di concedere ad
Auschwitz il privilegio della mistica e di adorarlo in silenzio? La domanda
deve essere oggi rivolta soprattutto alla filosofia che ha interpretato il
male radicale come l'opposto del pensiero contribuendo in modo determinante
a confinare Auschwitz nel dominio del mistero, di cio' che e' inesplicabile,
indicibile, incomprensibile. Ma respingendo Auschwitz al di fuori della
propria sfera di competenza, la filosofia ha allo stesso tempo rinunciato al
suo compito e confessato il suo scacco. Anche le questioni piu' dibattute
negli ultimi anni, quella della colpa e quella del perdono, ribadiscono alla
fin fine i limiti tra l'anti-mondo e il mondo e sono, semmai, tentativi di
pensare il male trasformandolo in bene. Cosi' pero' la filosofia non sbaglia
solo mira; perde anche l'opportunita' di un'inversione di rotta, la
possibilita' forse di quel nuovo inizio post-metafisico da tempo cercato.
*
Perche' non fare filosofia di nuovo a partire da Auschwitz? Perche' non
ricominciare dall'anti-mondo del mondo, dall'"universo concentrazionario" -
per seguire la definizione data da David Rousset - che contiene in se'
dispiegati e spiegati tutti gli universi totalitari e tutte le
concentrazioni a venire? Perche' non riprendere da quella situazione-limite,
al limite di tutte le umane ovvero inumane situazioni-limite, e tentare di
guardare da la' di nuovo il mondo ritrovando il nesso tra l'anti-mondo e il
mondo? Auschwitz, nome proprio insostituibile, metonimia di "quel che e'
accaduto", e' l'evento che non ha senso dire "unico", perche' sarebbe
astrarlo dalla storia, ma che si puo' chiamare unprecedented - secondo la
tesi ancora molto controversa che ha proposto il filosofo Emil Fackenheim,
da poco scomparso - per essere spinti a cercare precedenti nel passato e a
vigilare perche' non divenga precedente nel futuro.
Cesura che segna un prima e un poi nella nostra storia, Auschwitz e' una
sfida lanciata alla filosofia sia perche' la spinge a rivedere i propri
concetti, da quello di morte a quello di liberta', da quello di legge morale
a quello di ragione, sia perche' la rinvia a concetti impensati, rimasti
sinora fuori dall'inventario filosofico. Ma e' una sfida soprattutto
perche', a partire dall'essere umano, non piu' umano, disumanizzato e
inumano, delle vittime e dei carnefici, a partire dalla loro condizione
inumana, costringe la filosofia a ripensare radicalmente la condizione
umana. Se questo e' un uomo - cosi' si interroga Primo Levi gia' nel 1947 a
proposito del Muselmann (etimologia ancora non spiegata), cioe' del
"mussulmano", dell'essere umano "in dissolvimento" all'interno del lager.
Ed e' forse proprio dalla testimonianza che la filosofia deve riavviare la
propria riflessione - anche quella sul concetto stesso di testimonianza.
D'altronde, nella latitanza della filosofia di fronte ad Auschwitz, le prime
domande e le prime risposte filosofiche sono venute sin qui in gran parte
dai testimoni. Esemplare, e particolarmente significativa per la riflessione
filosofica, e' la questione del comprendere. Seguendo le testimonianze si
dovrebbe rovesciare la domanda piu' ovvia e comune. E occorrerebbe allora
chiedersi: come si puo' non comprendere? Come si puo' rinunciare a
comprendere Auschwitz? Proprio la' dove il non comprendere e il non essere
compresi, dove la negazione totale della comprensione ha mostrato tutta la
sua capacita' di morte?
*
Testimone ad Auschwitz-Monowitz della situazione-limite del parlare e del
comprendere o, meglio, del non-parlare e del non-comprendere, Primo Levi
intitola "Comunicare" un capitolo del suo ultimo libro I Sommersi e i
salvati. E vale la pena a questo proposito sottolineare che, malgrado la sua
grande notorieta', il contributo di Levi alla riflessione su Auschwitz non
e' stato ancora pienamente apprezzato. Con lucida precisione viene descritto
l'antilinguaggo nell'universo concentrazionario del lager dove si erge
implacabile una "barriera linguistica totale". Questa barriera non si
sperimenta nel "mondo normale" in cui, perfino nell'incontro con le lingue
piu' lontane ed estranee, "il quasi-non-capirsi puo' addirittura essere
divertente come un gioco". La barriera linguistica ad Auschwitz e' totale
come il totalitarismo che viene fondato attraverso il non-comprendere e il
non-farsi-comprendere. Il meccanismo del potere si instaura qui. E la
barriera, totale e totalitaria, non tollera nessuno spazio di gioco: "pena
la vita". Molto semplicemente: chi non comprende muore.
Ad Auschwitz, Babele del ventesimo secolo, il gergo del lager e' una
variante scheletrica del tedesco del Terzo Reich, contaminata dall'jiddish,
dal polacco, dal dialetto slesiano, dall'ungherese. Ma sapere o non sapere
il tedesco e' lo spartiacque tra la vita e la morte. I prigionieri italiani
appena arrivati, che non capiscono, che non fanno in tempo a capire, dopo
pochi giorni annegano "nel mare tempestoso del non-capire" - morti a prima
vista per fame, freddo, fatica, malattia, ma soprattutto, a ben guardare,
per "l'urto" contro quella barriera linguistica. Secondo un modello ben
consolidato nella manipolazione etnica del linguaggio, per le SS chi non
capisce il tedesco e' un "barbaro", balbetta e non parla. Se si ostina a
balbettare la "sua non-lingua", bisogna farlo tacere perche', dato che non
ha una lingua, non e' neppure un "Mensch, un essere umano".
Insieme alla barriera linguistica totale, nell'universo concentrazionario la
comunicazione presenta infatti un'altra caratteristica: l'uso della parola
cade in disuso. Per Levi e' un segnale: "per quegli altri, uomini non
eravamo piu'". Il linguaggio diventa uno strumento che serve solo per dare
ordini a un essere disumanizzato con cui si tratta come con una bestia.
Parlare a questo essere non piu' umano sarebbe come riconoscerne l'umanita'
che gli si vuole invece sottrarre.
Si comunica con una dozzina di "segni variamente assortiti, ma univoci, non
importa se acustici o tattili o visivi". Svuotati di ogni contenuto, questi
segni vogliono dire molto: sono l'estrema, feroce trasformazione dell'altro
nel se', l'episodio ultimo del cannibalismo occidentale in cui il se' si
assolve definitivamente dall'altro. E dato che non c'e' piu' bisogno di
parlare, non c'e' piu' bisogno neppure di tradurre. Nel lager di Mauthausen
il nerbo di gomma viene chiamato Dolmetscher, l'"interprete". Tutti
capiscono il linguaggio del nerbo e diventa inutile tradurre - e a partire
da qui, si dovrebbe meditare sul valore della traduzione e
dell'interpretazione per la vita umana. Questo nerbo e' la parola
mortificata e revocata nella cosa, e' parola morta, e' anzi la morte della
parola. E' l'annientamento del linguaggio e con cio' dell'essere umano.
Nel ricordo di Levi i primi giorni nel lager sono come un "film in grigio e
nero, sonoro ma non parlato". Da quel frastuono di fondo non affiora piu' la
parola umana. Quello che si riesce a strappare all'indistinto, e
all'insensato, sono solo frammenti paragonabili a bucce di patate: servono
per sfamare la fame di parlare, il bisogno di comunicare. Nel laboratorio
del lager questo bisogno viene sperimentato in modo parossistico. Si muore
per mancanza di informazione. Muore chi non sa di ordini, divieti,
prescrizioni. Ma muore anche e soprattutto chi non riesce a comunicare
perche' nessuno gli rivolge piu' la parola.
Non tutti soffrono allo stesso modo per questa eclissi della parola. Ma
accettarla indica l'inizio della fine, l'approssimarsi della indifferenza
definitiva che segna il Muselmann. Chi puo' si difende mendicando o
inventando notizie e informazioni - pretesto dell'informazione per la
comunicazione - si difende "aguzzando occhi e orecchi a cogliere ed a
cercare di interpretare tutti i segni offerti dagli uomini, dalla terra e
dal cielo".
*
Ad Auschwitz si muore nell'urto contro il linguaggio reso uno strumento di
potere, di oppressione, di morte. Si muore a causa del non-comprendere. E si
muore percio' anche a causa del non-parlare. L'esempio portato da Levi e'
quello del bambino di tre anni Hurbinek, nato clandestinamente e a cui
nessuno aveva insegnato a parlare. Con il suo bisogno esplosivo della
parola, che preme in tutto il corpo, con il suo balbettio soffocato,
Hurbinek dice molto di piu' di tutti gli esperimenti scientifici e di tutte
le speculazioni filosofiche sulla necessita' della parola per l'essere
umano. Necessaria non e' solo la parola indirizzata all'altro; necessaria e'
anche la parola rivolta dall'altro - segno di attenzione e di accoglienza -,
necessaria e' la parola ascoltata. In breve, e questo e' il punto decisivo,
dove manca il vocativo assoluto viene a mancare anche la vita.
Quel che resta del linguaggio ad Auschwitz e' da un canto il rumore
assordante delle urla quasi inarticolate, dall'altro il balbettio soffocato,
quasi un rantolo che minaccia di spegnersi. E' questo balbettio, questo
rantolo, che Paul Celan ha raccolto, ripreso, riecheggiato nella sua poesia
inscrivendolo nella lingua tedesca - lingua della madre e lingua della
morte. Un modo, sinora forse il piu' convincente, per dire Auschwitz e per
comprenderlo. Un Gegen-Wort, una "anti-parola", quella della poesia e
dell'arte, contro ogni tentativo di fare di Auschwitz un indicibile
incomprensibile, di dissolverlo nel nulla, di annientarlo ancora. Una via
indicata anche alla filosofia perche' finalmente, e nonostante tutto, dica e
comprenda Auschwitz - a partire da Auschwitz.
*
Certo non si tratta di fermarsi nell'anti-mondo, ma di passare semmai, non
senza difficolta', dall'anti-mondo al mondo per guardare questo mondo, il
nostro, alla luce di Auschwitz. Ed e' possibile che molte questioni
filosofiche assumano contorni nuovi, inconsueti o anche solo piu' precisi.
Cosi' l'anti-mondo di Auschwitz puo' cominciare a chiarire quanto vitale sia
il comprendere anche nelle situazioni-limite del nostro mondo. Non solo
perche' e' indispensabile per la vita, perche' anche nei casi piu' banali e
quotidiani segna il limite tra la vita e la morte. Ma soprattutto perche'
agisce sulla vita e la rende possibile.
Il movimento del comprendere asseconda la vita che si oltrepassa
continuamente per sopravvivere. Come si potrebbe vivere senza questo
"oltre"? Ma andare oltre se' e divenire altro da se' e' possibile solo
grazie alla parola rivolta dall'altro e indirizzata all'altro che oltrepassa
il limite di quella strettoia, di quell'angustia in cui la vita potrebbe
chiudersi, sprofondare in se stessa e ammutolire annientata. Dire, anche
solo balbettando, l'incomprensibile, e' la via d'uscita, il passo in fuori e
al di la'.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 824 del 29 gennaio 2005

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