La nonviolenza e' in cammino. 806



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 806 dell'11 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. Vandana Shiva: Un avviso
2. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte prima)
3. Ileana Montini: Sul futuro dell'Europa
4. Giancarla Codrignani: Senso e nonsenso del vincere
5. Lidia Ravera: Siamo donne o caporali?
6. Franca D'Agostini ricorda Eugenio Garin
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. VANDANA SHIVA: UN AVVISO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 gennaio 2005. Vandana Shiva, scienziata
e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente
nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come
studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture
native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti
ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli
di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e
programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere
di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990;
Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria,
Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma
2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo
sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre
dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003]

Una lezione fondamentale che il mondo deve trarre dallo tsunami del 26
dicembre e' che dobbiamo prepararci ad altri disastri ambientali in arrivo,
ivi compresa un'anticipazione degli effetti del cambiamento climatico.
Quando le acque, sollevatesi, hanno sommerso le Maldive, ho sentito che la
natura ci stava dicendo: ecco come si presentera' l'innalzamento del livello
del mare, ecco come intere societa' saranno private del loro spazio
ecologico per vivere in pace sul pianeta. Mentre l'amministrazione Usa e gli
scettici dell'ambiente come Bjorn Lomberg continuano a sostenere che il
ricco Nord non puo' permettersi di intervenire per ridurre le emissioni di
Co2 e impegnarsi a ridurre gli effetti del cambiamento climatico, lo tsunami
ci dimostra quanto potranno essere alti i costi se si andra' avanti con il
business as usual. Lo tsunami dovrebbe risvegliare Lomberg dal torpore
dell'autoprodotto "Copenhagen Consensus", secondo cui gli effetti del
cambiamento climatico non saranno cosi' gravi da richiedere un cambiamento
della politica economica e dei paradigmi economici. Lomberg dovrebbe
chiedere agli abitanti delle Maldive se accettano l'inevitabilita' di un
innalzamento irreversibile del livello del mare indotto dal cambiamento
climatico, dovuto al combustibile fossile.
*
Oltre a mobilitarci in massa per soccorrere le vittime dello tsunami,
dobbiamo agire immediatamente per rendere giustizia in futuro alle future
vittime del cambiamento climatico. Come un leader della Alliance of Small
Island States ha detto durante i negoziati sul trattato Onu sui cambiamenti
climatici: "L'istinto umano piu' forte non e' l'avidita'. E' la
sopravvivenza, e noi non permetteremo a qualcuno di barattare la nostra
terra, la nostra gente, e la nostra cultura per interessi economici a breve
termine". Alla luce dello tsunami, il lavoro incompleto della giustizia del
clima deve essere accelerato. I paesi dell'Oceano Indiano subiranno le
conseguenze dei dislocamenti dovuti all'inondazione delle coste per
l'innalzamento del livello del mare. Lo tsunami ci dice di prepararci per
avere un futuro basato sulla giustizia della terra, non sul calcolo
ristretto ed egoistico del mercato.
Il prossimo disastro non sara' necessariamente uno tsunami. Esso potrebbe
consistere, ad esempio, in un'inondazione causata da un terremoto originato
da una diga sul Gange, la diga di Tehri, che e' in costruzione su una faglia
sismica. Dalla diga, l'acqua viaggera' per centinaia di miglia fino a Delhi
per essere privatizzata dalla Suez, il piu' grande rivenditore d'acqua al
mondo. La diga, alta 260,5 metri, raccogliera' 3,22 milioni di metri cubi
d'acqua, che si estenderanno fino a 45 chilometri nella valle del Bhagirathi
e fino a 25 chilometri in quella del Bhilangana. Se la diga facesse da
detonatore a un terremoto, in meno di un'ora e mezza un muro d'acqua alto
260 metri - venti volte piu' alto dello tsunami - spazzerebbe via le citta'
sacre di Rishikesh e Haridwar; in otto ore, un muro d'acqua alto dieci metri
si abbatterebbe su Meerut, 214 chilometri a valle; e in dodici ore, un'onda
alta 8,56 metri colpirebbe Bulanshahar, a 286 chilometri di distanza.
*
Le lezioni dello tsunami sulla necessita' di prepararci ai disastri devono
riguardare tutti i disastri che possono verificarsi in conseguenza di
modelli di sviluppo che ignorano i costi ecologici e la vulnerabilita', a
favore della crescita a breve termine.
Essere veramente preparati ai disastri significa ridurre la vulnerabilita'
ambientale e aumentare la resistenza ecologica, invece che aumentare la
vulnerabilita' ambientale e i rischi esternalizzando i costi ambientali dal
calcolo della crescita economica.
Il bene pubblico e la responsabilita' sociale dei governi non possono essere
sacrificati per il profitto privato e l'avidita' delle corporations. Cibo,
acqua e medicine sono i bisogni piu' urgenti dei sopravvissuti allo tsunami.
Mentre i sistemi pubblici devono mobilitarsi per distribuire questi beni
essenziali, la globalizzazione delle corporations sta facendo una corsa in
avanti con le corporatizzazioni e le privatizzazioni. Mentre l'India e altri
paesi necessitano di farmaci generici a basso costo per affrontare
l'emergenza di sanita' pubblica che lo tsunami ha lasciato dietro di se', il
governo ha emesso un decreto sui brevetti che impedira' la produzione di
medicine a basso costo dal primo gennaio 2005.
Ironicamente, lo tsunami ha fatto emergere l'incongruita' tra il mondo della
globalizzazione delle corporations e il pianeta delle persone. Il decreto
indiano sui brevetti e' stato approvato lo stesso giorno in cui il disastro
colpiva le nostre coste, dimostrando che la globalizzazione delle
corporations e' guidata da forze incapaci di dare una risposta a cio' che
accade alle persone e alle loro vite.
Lo tsunami e' un campanello d'allarme per l'umanita': non possiamo
continuare a dormire a occhi aperti, nella folle corsa alla privatizzazione
dei beni pubblici. Se tutto il cibo e tutta l'acqua saranno ridotti a merci
controllate e soggette al libero mercato dalle corporations globali a fini
di profitto, come fara' la societa' a nutrire gli affamati, come fara' a
dare l'acqua agli assetati?
*
La vulnerabilita' di milioni di persone richiede che robusti sistemi
pubblici forniscano cibo e acqua, assistenza sanitaria e medicine. Le
esigenze di beni e servizi pubblici per l'assistenza e la riabilitazione ci
portano in una direzione completamente diversa dalle pretese di
privatizzazione del Wto e della Banca mondiale. Lo tsunami ci ricorda che
non siamo meri consumatori in un mercato che tende al profitto. Siamo esseri
fragili e interconnessi, e abitiamo un pianeta fragile. Questo e' un
richiamo alla responsabilita' e al dovere nei confronti della terra e di
tutte le persone. Lo tsunami ci ricorda che sulla terra siamo tutti
interconnessi. La compassione, e non il denaro, e' la valuta del nostro
essere uniti. Soprattutto, esso ci richiama all'umilta', ci ricorda che
davanti alla furia della natura siamo impotenti.
Lo tsunami ci invita ad abbandonare l'arroganza e a riconoscere la nostra
fragilita'. Con lo tsunami, non solo le onde del mare sono entrate in
collisione con la costa. Sono entrate in collisione due visioni del mondo:
quella del libero mercato e della globalizzazione delle corporations,
impotente e inutile per affrontare i disastri ambientali a cui ha
contribuito; e quella di una democrazia della terra in cui le persone di
mondi diversi si incontrano a formare una sola umanita', per ricostruire la
propria vita e prepararsi per un futuro incerto vivendo nella piena
consapevolezza delle nostre vulnerabilita'.
Mentre facciamo tutto il possibile per aiutare le vittime del disastro, il
piu' importante contributo a lungo termine che possiamo offrire e' ridurre
l'impronta ecologica sul nostro fragile pianeta e ridurre le nostre
vulnerabilita' ecologiche. La resilienza ecologica, e non la crescita
ecologica, saranno la vera misura della capacita' umana di sopravvivenza in
questi tempi incerti.

2. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE PRIMA)
[Ringraziamo di cuore Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci
permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo
libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente
raccomandiamo. Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note,
ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali
ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa. Bruno
Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di
sociologia della cooperazione e di educazione delgi adulti nell'ambito del
Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del
Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano;
dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat
al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet"
(e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno
Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore,
Milano 1998, 2003]

Il campo di Buchenwald. Un prologo
Il campo di Buchenwald occupa uno spazio seminascosto su una collina boscosa
che si affaccia sopra il romantico panorama della citta' di Weimar. Dove lo
sguardo di Goethe si poso' innumerevoli volte, i nazisti incarcerarono
duecentocinquantamila persone, in grandissima maggioranza ebrei ma anche
zingari e oppositori politici, come il leader comunista Ernst Thaelmann
(1886-1944). Assieme a lui morirono di fame, di stenti, di malattia, o
furono uccisi in vario modo sessantacinquemila prigionieri, compresi molti
bambini, vittime di esperimenti medici compiuti senza anestesia.
A oltre mezzo secolo di distanza dalla  Shoah, i Lager non sono solo entita'
statiche, museali, che vengono  conservate per tramandare il ricordo degli
orrori nazisti e delle loro vittime. I Lager continuano a condurre una vita
che si connette in termini dinamici alle svolte della storia, ispirando
sentimenti variabili, cioe' influenzando e subendo i mutamenti ideologici,
le vilta', gli sdegni, gli smemoramenti, i calcoli opportunistici,  i
travagli delle societa' e delle generazioni che si succedono. L'universo dei
Lager resta ad ogni modo una macchina infernale che puo' sfuggire di mano:
mai come in questo caso la percezione-interpretazione del passato proietta
la sua ombra sull'avvenire.
Nei decenni che precedettero la riunificazione della Germania, i campi della
morte situati sul territorio tedesco vennero  presentati in modo diverso.
Nella Germania occidentale (dove c'e' per esempio Dachau, in Baviera),
l'immagine dei Lager risenti' dell'agitato rapporto della Repubblica
federale con la storia del nazismo. Spesso le autorita' locali resistettero
alla richiesta di dare a quei luoghi di morte un adeguato significato,
promovendo cosi' nella popolazione un diffuso processo di rimozione. Piu' in
generale, le generazioni che alla guerra e alla Shoah avevano preso parte, o
avevano assistito, conservarono per oltre vent'anni su questa pagina infame
della storia tedesca un silenzio al limite dell'omerta'. Soltanto dopo il
cambio di generazione, simbolizzato dal '68 e dall'avvento al potere (1969)
di un antinazista come il socialdemocratico Willy Brandt (1913-1992),
caddero molte reticenze ad affrontare il passato.
Nella Germania orientale, cioe' nella defunta Repubblica democratica a
regime comunista, la storia venne trattata con disinvoltura persino
maggiore. Lo sterminio di massa soleva essere presentato come un crimine del
nazismo capitalista: cosi' la responsabilita' ereditaria della Shoah veniva
scaricata sull'altra Germania, quella federale, in virtu' della sua
"continuita' capitalista" con il Terzo Reich, e la Ddr traeva la sua
illibatezza dalla sua identita' comunista.
*
Con la caduta del Muro di Berlino e il crollo del comunismo storico, sul
piano politico e anche su quello storiografico si sono riaperti, com'era
inevitabile, i conti con le principali vicende che hanno contrassegnato il
secolo mortifero da poco terminato. Cosi', nel modo piu' doloroso, sono
riemersi (favoriti anche dai frequentissimi "corti circuiti" tra vedute
storiografiche e opinioni politiche) i dilemmi irrisolti, le ambiguita', le
doppiezze del rapporto della Germania (e del resto d'Europa) con il periodo
nazista.
In particolare alcune scuole di storici (in Germania ma anche in altri
paesi, comprese la Francia e l'Italia), ponendo gli orrori perpetrati dai
regimi nazifascisti a confronto con quelli dei regimi comunisti, si sono
adoperate a sottolineare le analogie, che innegabilmente vi furono, tra le
azioni delittuose ascrivibili ai due grandi totalitarismi del XX secolo. Ma
per questa via hanno perseguito anche una progressiva "normalizzazione" del
nazismo, relativizzando i crimini della Germania hitleriana sino al punto di
rimettere in discussione la singolarita' perversa della  Shoah e
giustificare, in termini neppure troppo velati, lo sterminio di sei milioni
di esseri umani innocenti.
Nell'antiebraismo nazionalsocialista, sostiene per esempio lo storico Ernst
Nolte (celebre per le sue tesi "revisioniste"), era presente un "nucleo
razionale" che "consistette nella realta' fattuale del grande ruolo che un
alto numero di singole personalita' di origine ebraica - spesso non in
ultimo a causa delle tradizioni universalistiche e messianiche dell'ebraismo
storico - giocavano nel movimento mondiale socialista e comunista".
Noncurante del fatto che il genocidio ebraico era inscritto in profondita'
nell'ideologia e nei programmi politici di Adolf Hitler, Nolte ravvisa nello
sterminio di sei milioni di ebrei niente piu' che l'imitazione e quasi la
prosecuzione di altri eccidi di massa, e di classe, compiuti dopo la
Rivoluzione d'ottobre dal potere bolscevico. "Se qualcuno" sentenzia lo
studioso tedesco "si riproponeva veramente di contrapporre al bolscevismo un
regime 'di eguale fermezza e coerenza', allora doveva esservi anche
un'analogia con quell''annientamento di classe' cosi' palese a tutti e cosi'
chiaramente richiesto dall'ideologia, e il cui oggetto principale poteva
difficilmente essere un altro gruppo che non gli ebrei".
Come si vede, la storiografia della Shoah e' chiamata a misurarsi con
un'insidiosa politica di "alterazione della memoria", attivamente presente
su diversi fronti. E' una politica che, passando attraverso un surrettizio
uso di criteri analogici e l'annullamento di varie contrapposizioni del
passato, puo' arrivare a un inaccettabile azzeramento della storia; e' una
politica i cui sostenitori piu' estremi (mi riferisco in particolare ai
cosiddetti "negazionisti") non esitano a dichiarare che i crimini contro
l'umanita' commessi dal regime nazista non hanno mai avuto luogo, e che a
null'altro essi si riducono se non a un fantasioso parto della propaganda
fatta circolare subito dopo la guerra dai vincitori del '45, con la
complicita' dell'"internazionale giudaica".
Ma oggi, a oltre cinquant'anni dagli eventi che sono sfociati nella Shoah,
la diffusa impazienza con la quale ci si sforza di mettere in circolazione
una cultura con connotazioni, insieme, "postfasciste" e "postcomuniste" reca
in se' qualcosa di piu' pericoloso delle stesse argomentazioni confezionate
dagli storici "revisionisti". Il rischio maggiore e', a mio avviso, quello
della banalizzazione storiografica, ossia della facilita' con cui vasti
settori della coscienza europea (e cristiana), per costruirsi una sorta di
"rete di protezione" dai fantasmi inquietanti di un passato che si vuole
rimuovere, elaborano modelli di interpretazione storica nei quali gli esiti
piu' tragici dell'antisemitismo vengono isolati dalla loro lunga preistoria,
fatti oggetto di una generalizzata semplificazione e infine relegati entro i
confini dell'"episodio" odioso, ma ormai concluso, del nazionalsocialismo.
La Shoah, insomma, come mero incidente di percorso.
*
La brutale e irreparabile scomparsa dall'Europa centro-orientale dei grandi
focolari tradizionali dell'ebraismo aschenazita e la successiva fondazione
in Palestina di un nuovo e vitale Stato ebraico hanno segnato nel destino
degli ebrei una cesura senza precedenti. Le comunita' stanziate nel vecchio
continente, che sino alla fine degli anni Trenta erano maggioritarie
rispetto alla totalita' degli ebrei nel mondo, dopo la fine della seconda
guerra mondiale costituiscono poco piu' che un'esigua rimanenza, con un peso
e un rilievo ben scarsi a fronte dei due poli principali della vita ebraica
che oggi si trovano in Israele e negli Stati Uniti.
Ma anche l'Europa, e in particolare la Germania come centro geopolitico e
problema storico dell'Europa, sono uscite irrimediabilmente segnate dalle
tragiche vicissitudini del XX secolo. Dopo avere scatenato due guerre
mondiali la Germania, lanciata in una folle conquista del potere planetario,
riusci' solo nell'impresa di distruggere l'Europa come potenza e cancellare
se stessa (per quasi cinquant'anni) come Stato nazionale unitario. Cosi',
mentre l'Europa cessava nel 1945, dopo molti secoli, d'essere l'ombelico del
mondo, l'eredita' dello spirito europeo veniva raccolta al di la'
dell'Atlantico, dove gli Stati Uniti assunsero la custodia dell'identita'
occidentale.
Abraham B. Yehoshua, uno degli scrittori israeliani piu' noti, ha asserito
che  "'normalita'' non e' una parola spregevole ma, al contrario, l'ingresso
in un'epoca nuova e piena di possibilita', in cui il popolo ebraico potra'
(...) associarsi alla formazione dell'umanita' come un membro di pari
diritti nella comunita' internazionale. Si dimostrera' il modo migliore per
essere altri e diversi, unici e particolari (come lo e' ogni popolo) senza
preoccuparci continuamente di perdere l'identita'".
Ansia di normalita' e bisogno di chiarire sempre meglio a se stessi la
propria identita'. Su questo duplice terreno, ritengo che da parte degli
ebrei (tanto nella diaspora quanto in Israele) vi sia modo oggi di
incontrarsi e di avviare un dialogo proficuo con i cittadini della vecchia
Europa: anch'essi alla ricerca di una nuova normalita' e alle prese con una
diffusa crisi d'identita'. Comune agli uni e agli altri e' il bisogno di
prendere le distanze da una storia densa di sciagure e di liberarsi delle
scorie del passato: per puntare non gia' al riconoscimento o al recupero di
improbabili innocenze, bensi' a forme responsabili e finalmente decenti di
coesistenza, all'interno di un mondo sempre piu' simile a un multicentrico
villaggio planetario. Delle scorie del passato, tuttavia, non ci si libera
illudendosi di "superarle", giacche' il passato, proprio perche' e' passato,
non e' purtroppo superabile. Il modo forse piu' giudizioso per fare davvero
i conti con il passato e' quello di accostarsi a esso con studio e con
pazienza, e tentare di capire.
*
Sono convinto che la Shoah rappresenti un fenomeno troppo complesso perche'
sia possibile racchiuderlo in un giudizio sintetico. Il genocidio ebraico
non e' certo l'unico inferno cui il secolo scorso abbia dato luogo (anche se
non mi sembra casuale il fatto che il termine "genocidio" sia stato coniato
dal giurista americano Raphael Lemkin nel 1943). Pur  senza risalire nel
tempo sino all'eccidio degli armeni (1894-1918), rammento che nei Lager
nazisti furono sterminati anche gli zingari, i testimoni di Geova, i malati
mentali, gli omosessuali. E poi ci furono gli inferni comunisti dei Gulag,
ci furono i genocidi nell'Ucraina collettivizzata, ci furono le stragi
perpetrate in Cambogia dai khmer rossi di Pol Pot. E poi, in tempi piu'
vicini a noi, l'Europa e' stata il teatro delle ignobili "pulizie etniche"
inscenate dai popoli balcanici, condannate retoricamente da tutti e ben
presto dimenticate dai piu'. Ancora una volta, "pulizie etniche" quali
semplici incidenti di percorso. Ancora una volta, come gia' negli anni della
Shoah, eventi catastrofici lasciati accadere in un clima di diffusa apatia e
insensibilita'.
Detto cio', a mio parere il genocidio ebraico, compiutosi nel cuore stesso
di quella cultura europea che era stata la culla della modernita', e' e
continuera' a essere la matrice fondamentale per la comprensione del nostro
tempo storico. Evento rivelatore del contrasto tra il potere spaventoso
degli uomini e la loro inettitudine a crescere e maturare sul terreno della
civilta', si porra' per sempre quale paradigma e testimonianza della
millenaria follia del mondo.
Come ha scritto Gershom G. Scholem (1897-1982), "per quanto sublime possa
essere l'arte di dimenticare, noi non possiamo praticarla". Queste parole
sono un monito a non lasciare che le memorie dello sterminio si inabissino
nel rimosso della storia. Ne accolgo la necessita', insieme con l'auspicio e
la convinzione che "solo conservando la memoria di un passato che peraltro
non potra' mai essere compreso veramente fino in fondo, potremo coltivare la
speranza (...) di una riconciliazione tra coloro che sono stati separati".

3. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: SUL FUTURO DELL'EUROPA
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e  curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Su Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]

Bernard Lewis, professore emerito dell'Universita' di Princeton, tra i
massimi studiosi di storia mediorientale, e' stato intervistato dal
quotidiano "La Repubblica" (7 gennaio 2005) sul futuro dell'Europa. Lo
studioso ha dipinto un futuro (fra cento anni) a dominanza islamica per il
vecchio continente. Secondo lui, se questo trend immigratorio e demografico
continuera', la maggioranza sara' presto islamica con prevedibili
conseguenze.
Puo' darsi che gli immigrati di religione musulmana e i loro figli diventino
la maggioranza, ma come si fa a dire che la loro religiosita' e cultura in
generale, resteranno intatte, ovvero non assumeranno valenze ibride,
mescolanze variegate come  quasi sempre succede quando si entra in contatto
con altre? Difficile prevedere quale sara' l'evoluzione interiore degli
individui, anche perche' si tratta di appartenenti a una religione
monoteista, in grado piu' che altre di conferire il sentimento
dell'identita' e dell'appartenenza.
Comunque sia, ne veniamo interrogati; e certamente non ha torto il
professore americano nell'affermare che "il problema della donna" e' forse
il piu' spinoso. Sembra, per esempio, che l'immigrazione rilanci l'istituto
della poligamia, perche' avere fino a quattro mogli e' segno di una buona
riuscita del progetto migratorio. "Poco tempo fa - afferma Lewis - ho letto
su un giornale saudita un pezzo in difesa della poligamia; chi scriveva
diceva che l'uomo ha un istinto sessuale piu' forte di quello delle donne, e
che per di piu' la donna e' indisponibile per lunghi periodi, o per via
delle mestruazioni o delle gravidanze. L'Occidente, asseriva l'autore
dell'articolo, affronta la questione con l'adulterio e la promiscuita',
l'Islam con la poligamia, che e' migliore perche' rispetta la donna".
Questa cosa dell'istinto sessuale che sarebbe piu' forte negli uomini, non
ci e' del tutto estranea. Fa parte  anche del nostro dna culturale
cattolico, come e' stato dimostrato nel corso di focus group con giovani
studenti italiani per una ricerca sul tema dell'identita' femminile e
maschile (AA. VV., Il desiderio e l'identita' maschile e femminile. Un
percorso di ricerca, Franco Angeli, Milano 2004). E come risulta anche nella
lettera del cardinal Ratzinger sulla donna.
*
Insomma, le tre religioni "del Libro" si basano sul concetto di una natura
immutabile perche' creata da dio. Le differenze tra uomo e donna avrebbero
cosi' origine nell'anatomia. Si legge in un sito islamico in lingua
italiana: "Iddio ha assegnato alla donna musulmana un ruolo specifico,
nell'ambito dell'ordine islamico". Le donne occidentali sarebbero ree di
avere abbandonato l'ordine naturale: e anche alcuni Paesi islamici, come il
Marocco e la Tunisia, seguirebbero l'Occidente: "In esse si e' fatto strada
il concetto che 'maggiore liberta' significa maggiore occidentalizzazione',
e di cio' ne fanno le spese proprio le donne, che finiscono per essere
strumentalizzate da dittature sanguinarie ma 'liberali perche' laiche' e
perdono cosi' la maggior parte dei diritti che Dio ha loro concesso". Mentre
l'Iran (sic) viene citato come un Paese che permette alle donne i giusti
cambiamenti. Quindi sembra che chi si trova nell'immigrazione non apprezzi i
mutamenti legislativi e di costume in atto nei paesi del Magreb.
I dettami del Corano prescrivono alle donne come non diventare un oggetto
della concupiscenza maschile mediante l'osservanza della "modestia
dell'abbigliamento" (velo e altre coperture), il cui compito e' proprio
quello  di preservarne "l'integrita'". E' evidente il sentimento di stare di
piu' dalla parte di dio, cioe' della natura: "L'Islam si adatta
perfettamente, e con garbo, alle naturali inclinazioni dell'animo umano,
maschile e femminile. (...) L'uomo non ha potere sulla donna, tranne che
nello specifico contesto delle relazioni familiari". In un altro sito si
scrive esplicitamente che le  "sacri leggi del Libro della natura, sulla
condizione e sui compiti assegnati alle donne  sono validi come pilastri
fondamentali di una societa' sana e costruttiva. L'Islam ha imposto obblighi
e diritti ad entrambi i sessi, secondo la natura e il fine della creazione
dell'umanita'. Secondo la legge coranica, Dio assegna ad ogni uomo ed ogni
donna compiti differenziati; l'uomo e la donna nell'Islam sono posti sullo
stesso piano, ma non sono confrontabili, in quanto sono stati creati da Dio
con finalita' diverse. La donna e' libera di lavorare e di avere una giusta
equiparita' nel mondo del lavoro, ma per l'assunzione, a parita' di
curriculum, e' da preferire sempre un uomo ad una donna, non perche' l'uomo
sia migliore della donna, ma per il semplice motivo che in una  famiglia
musulmana e' l'uomo che ha l'obbligo di lavorare e portare i soldi a casa, a
meno che la situazione famigliare della donna non sia precaria e non sia
meglio un lavoro alla donna. La donna non puo' rinnegare i suoi compiti di
moglie, madre, tutelatrice dei beni del marito in sua assenza". Quindi, il
lavoro della donna inteso come ambizione professionale di una donna non e'
consentito nell'Islam.
*
I siti in lingua italiana, rivolti ai non musulmani per spiegare e affermare
la propria identita', o per i musulmani stessi, sono molti e in crescita.
Segno di un bisogno chiaro di coesione e affermazione del senso di
appartenenza, ma forse anche di difesa (maschile?) rispetto a spinte
innovatici (di sottrazione alla tutela maschile paterna o maritale) di cui
soprattutto le donne giovani sono portatrici.
Forse il problema non e' tanto quello intravisto da Lewis, quanto piuttosto
di una sorta di lenta e progressiva saldatura sotterranea tra spinte alla
regressione, o mantenimento della tradizione, da parte nostra, e paura della
perdita dei privilegi da parte maschile musulmana. Una perdita di
prerogative e privilegi che nell'immigrazione generano un surplus di
sofferenza perche' fanno risaltare il distacco dalla terra d'origine. Le
difficolta' d'inserimento fanno sentire i maschi meno virili e la misura
della virilita' sta nella capacita' di imporsi alle donne, in tutti i sensi.
D'altronde, appunto, l'idea che ci sia una differenza naturale dei ruoli
permane nel nostro tessuto  culturale connettivo, in particolare italiano.
Basta guardare la tv degli spot dove il ruolo di cura della casa e' ancora
svolto esclusivamente dalla donna. Ma si potrebbe anche fare riferimento al
mondo psicoterapeutico e psicoanalitico, soprattutto junghiano, per scoprire
che l'idea di un femminile modellato sull'utero che contiene, riceve, cura,
trattiene, o imprigiona, risucchia, ingoia, e' ancora alla base della
teorizzazione e pratica clinica. Mentre il pene indicherebbe la polarita'
attiva, penetrativa, forte e dura.
Sono le donne, le giovani immigrate dai paesi musulmani, a costituire la
forza del cambiamento.
Ma allora, a cominciare  dalla scuola, dovrebbero trovare stimoli e
sostegno.

4. RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: SENSO E NONSENSO DEL VINCERE
[Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri at libero.it) per
averci messo a disposizione questo suo intervento. Giancarla Codrignani,
presidente della Loc (Lega degli obiettori di coscienza al servizio
militare), gia' parlamentare, saggista, impegnata nei movimenti di
liberazione, di solidarieta' e per la pace, e' tra le figure piu'
rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace e la nonviolenza.
Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai telai, Thema,
Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le altre,
Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994]

Non sono sicura di trovare consenso se dico che, quando ci si trova in mezzo
alle tempeste, importa soprattutto cercare di prevedere gli esiti delle
tempeste che non si e' stati capaci di prevenire. Insomma:mettiamoci a
ragionare per non cedere alle paure (indotte).
Dal secolo scorso, breve o lungo che lo si giudichi, abbiamo ereditato sia
la tensione verso ulteriori grandezze dell'ingegno (abbiamo frantumato
l'atomo, siamo andati sulla luna, abbiamo forzato la genetica), sia la
coscienza del fallimento (due guerre mondiali, la terza copertamente in
corso contro i poveri della terra, la priorita' data alle armi rispetto alla
salute umana e all'ambiente).
Molti e molte di noi accusano il modo capitalistico in cui si organizza il
sistema umano, ormai obbligato a contarsi globalmente e ancora diviso solo
nelle abitudini tradizionali della mente. Ma molti e molte riconoscono che
si tratta di un modo ineludibile: chi non vi si rassegna e' un perdente.
Forse e' proprio qui, nei meccanismi che inducono a giudicare che c'e' chi
vince e chi perde anche tra chi sta da una parte sola o da nessuna, che si
deve indagare per capire come siamo fatti. Non in tutto siamo fatti bene.
Tra uomo e donna, anche quando c'e' amore, c'e' chi gioca la parte del
vincitore, anche solo per riflesso condizionato e fa la donna "oggetto".
Non mi riferisco ai fenomeni piu' eclatanti e, purtroppo, piu' diffusi,
dell'uomo che manca di rispetto, che offende o picchia; e tanto meno al Sud
del mondo, dove non c'e' uomo cosi' povero che non abbia al suo fianco un
essere piu' povero di lui che comunque gli "appartiene". Penso all'uomo
fine, intelligente, fedele, che presume di conoscere il bene della sua
compagna e decide per lei anche quando e' il tempo di fare l'amore. A noi
non e' dato, perche' per secoli non ci e' stato affidato il compito di
difendere o di tutelare qualcuno, ma di dedicarci alla cura del difensore.
E, infatti, nei secoli e nei luoghi, la difesa e la giustizia sono rette da
regole solo apparentemente neutre. Per questo le donne che si emancipano
senza partire da se' aspirano a diventare soldate o giudici sotto queste
regole.
*
Alla radice non ci dovrebbe essere la contrapposizione latente di un nostro
individualismo onnipotente, bensi' la coscienza profonda che per conoscere
il bene dell'altro bisogna essere in grado di conoscere in qualche modo se
stessi. Mi danno molto da pensare i moniti non certo femministi che stavano
incisi sul frontone del tempio di Apollo: "conosci te stesso" e "attenzione
al limite". Disattesi e distorti nel tempo antico, come oggi. Anche noi
donne, per essere andate a scuola, diamo loro un significato mediato
attraverso una filosofia della razionalita' che ignora la difficile,
complessa interezza non dell'essere piu' o meno in se', ma dell'essere
persone singole e singolari nelle infinite differenze che connotano i loro
luoghi e modi di esistere.
Se si parte da un se' integro e - almeno vagamente - conosciuto, si potrebbe
essere piu' attenti/attente nel considerare gli altri, che, proprio per
essere diversi, possiamo aiutare, ma non espropriare dalla responsabilita'
di conoscere il loro bene.
La relazione, allora, sarebbe non per vincere, ma per con-vivere in senso
umano. Un senso umano che impedirebbe di realizzare scelte comuni sulla base
di principi di autorita' e competenza (la mamma sceglie il frigorifero e il
babbo l'automobile), o di comando (a casa di tizio "comanda la Francia") o
di presunto amore (lo-faccio-per-lui/per-lei).
Vincere o perdere servono a poco anche fuori dalle relazioni familiari. La
democrazia non ha ancora esplorato tutta la sua forza/debolezza di essere un
sistema "di concertazione" e non "d'imperio", di diritti da definire e
rispettare nell'equita' e non nella potenza di armi, ricatti, vendette.
La storia studiata e' tutta una sequela di vittorie/sconfitte che, prive
dell'analisi di merito, sembrano poco sensate perche' anche scambiando i
termini non si sarebbe mutato di molto la sostanza del mondo. Vi si puo',
tuttavia, leggere un percorso ben preciso: siamo andati avanti lottando per
difendere non solo il nostro essere, ma il nostro avere, e per acquistare
anche l'avere degli altri. Un sistema fondato sulla dialettica interessata
di difesa e guerra, che ha creato vincitori e vinti per definizione piu' che
per virtu'.
Oggi quel sistema e' arrivato al capolinea: per non parlare
dell'imprevedibilita' del terrorismo, abbiamo a disposizione arsenali
nucleari, chimici, batteriologici e perfino virtuali, addirittura a buon
mercato e capaci di annullare ogni rapporto di potenza.
Eppure tutti/tutte stiamo a guardare l'indice che ci indica il pericolo di
diventare "perdenti" e non vediamo che il problema e' chiedersi che senso
ha, perfino nelle gare sportive e nelle lotterie, vincere.
C'e' stato un tempo in cui amiche femministe di Milano si erano proposte "la
voglia di vincere". Io allora vedevo altre amiche, che, per essere
parlamentari e avere una "dignita'" superiore a quella del loro uomo e per
non essere piu' disponibili in casa a tempo pieno, hanno perduto l'unita'
familiare.
Probabilmente se la politica accettasse la voce - quella autentica e non
condizionata - delle donne, si capirebbe di piu' che cosa costa pensare in
termine di "chi vince" e " chi perde".
E si farebbe meno fatica a pensare al futuro in termini di vita comune nella
difficile difesa della liberta' di tutti e non solo di utopie scollate dal
realismo delle azioni di guerra. Cioe' di sconfitte.

5. RIFLESSIONE. LIDIA RAVERA: SIAMO DONNE O CAPORALI?
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 24
dicembre 2004. Lidia Ravera e' nata a Torino e vive a Roma; scrittrice,
giornalista, sceneggiatrice per il cinema e la televisione; tiene
abitualmente corsi e laboratori di scrittura. Il linguaggio di questo
articolo e' particolarmente crudo e mimetico [riproducendolo qui una parola
irriferibile abbiamo sostituiito con altra meno turpe], chi legge sapra'
cogliere quanto vi e' di eccesso, di riuso di forme della cultura di massa e
di gesto letterario espressionistico, e sapra' non perdere di vista il fondo
amaro e dolente e ortativo della riflessione entro quegli stilemi immerso,
ad un tempo nascosto per pudore, e per contrasto rilevato]

Rischia tre anni di carcere, la caporala R. per aver preso a calci un
soldato gia' sottoposto a sevizia ginnica senza giusta causa, posto che una
causa giusta esista, per punire fisicamente qualcuno, intendo dall'eta'
della pietra in avanti e nella civilissima Europa.
Nonnismo, hanno detto, e, subito dopo, "toh, guarda, bizzarro: anche il
nonnismo ha il suo femminile, e non si tratta di ferri da calza e nipotini,
bensi', come nel simpatico box maschile, di sopraffazione e violenza".
Immagino schiere di fotografi pronti a immortalare l'energica
ventiquattrenne con il compiacimento che si riservo' alla prima donna
pilota, la prima cardiochirurgo, la prima primo ministro e che si riservera'
alla prima donna prete, se mai ci sara'. Toh, guarda, la prima
donna-deiezione. Non e' rassicurante, consolante, moderno e postmoderno?
No, e' soltanto triste.
*
Nessuno, fra quanti - donne e uomini - hanno letto la cara vecchia Elena
Gianini Belotti nel suo famoso Dalla parte delle bambine crede che la
femminilita' (in quanto dolcezza, istinto di cura, anagressivita', voglia di
relazione) sia una qualita' naturale. Sappiamo tutte che, se siamo cresciute
piu' riflessive, e' perche' ci limitavano lo sfogo fisico. Se siamo
invecchiate piu' belle e' perche' ci hanno devastate col mito della
bellezza.
Sappiamo bene che nulla e' naturale o molto poco, giusto la predisposione
del corpo a ospitare e formare esseri umani, la iattura mestruale, e il non
poter vedere il nostro organo sessuale, non poterci giocare, non dipendere
dalle sue erezioni e defezioni.
Tutto il resto e' cultura.
E' cultura "belline e dolci". E' cultura "a mia mamma con l'alzheimer ci
pensa mia sorella perche' sai... lei e' una donna". E' cultura "l'ha
lasciata perche' sai... lui ha solo 50 anni, lei ne ha gia' 40!". E' cultura
lo stereotipo dell'infermierina senza ambizioni innamorata del bullo che
cammina sui cadaveri, perche' al testosterone non si comanda...
La natura ci vorrebbe tutti persone, ma cio' che e' naturale fa paura, in
genere si preferisce pompare modelli culturali che la ingabbino, la natura,
la rendano funzionale al sistema di valori dominanti, alla filosofia di vita
che si spaccia, al momento, per vincente.
*
E' per questo che la storia della caporalmaggiore R. mette i brividi,
perche' parla di un modello culturale, non solo di una singola cretinetta
senz'anima come ce ne sono tante, da Siena a Guantanamo ad Abu Ghraib.
Il modello culturale, per le ragazze di oggi, sembra essere un'alternativa
del diavolo: o velina o bulletto. Entrambe le soluzioni appaiono al servizio
del maschio "d'antan", quello che avevamo messo fuori dalla legge dell'amore
decente gia' trent'anni fa. Possibile che, in pieno duemila, o fai l'oggetto
di desiderio o sei soggetto, ma ad imitazione?
Forse non te ne accorgi, ma imiti l'ometto anni cinquanta andando a mettere
i dieci euro nel perizoma del ragazzetto che si spoglia per te, lo imiti
mettendo la carriera avanti a tutto e finendo di decidere di diventare madre
quando ti e' venuto a noia sbatterti, ma a quel punto resti fregata perche'
il tuo corpo porta una scadenza (in questo l'ometto e' inimitabile).
Imiti l'ometto quando fremi al semaforo perche' devi conquistare mezzo
millimetro (per andare dove? Fregando chi?) e gridi e ti agiti perche' tu
si' che sai guidare.
Imiti l'ometto quando fai la dura col soldato tanto tu sei sopra e lui e'
sotto.
E poi, chissa' perche', quando si imita l'altro genere e' sempre emulazione
del peggiore. Alla maggior parte degli uomini, infatti, ripugnerebbe
profondamente prendere a calci un ragazzo che sta facendo un centinaio di
flessioni. Anche fargliele fare (e certamente farle).
Ricordate il bellissimo e durissimo Full metal jacket? Era una denuncia
spietata contro l'inutile violenza militare, quella che ha per obiettivo
negare la dignita' umana e sfornare fantocci. L'autore era un uomo, mister
Stanley Kubrick, uno dei quelli che ci piacerebbe imitare. Ma certo non e'
facile, darsi modelli alti. Piu' facile abbaiare come Jo il Mastino o
pizzicare glutei come Bob il Bagnino.
*
Con la caporalmaggiore R., siamo alla rivincita della barbarie. Il presente
ritorna al passato e il futuro e' una caserma piena di donne che sembrano
uomini scemi. Si continuera' a marciare indietro? E fino a dove? Dove si
casca fuori dalla storia? Quando? E che rumore fa?
Le piu' ingenue fra noi dimostrarono, me lo ricordo bene, una certa
soddisfazione quando si aprirono, per le donne, le porte delle caserme e
delle questure. Sono le stesse che ambirebbero a vescove e cardinaline e
magari, perche' no, una Papessa... sono quelle che sognano l'annullamento
della differenza, che aspirano all'omologazione totale fra generi fino al
conseguimento di una assoluta pace sessuale e, per conseguenza, di una noia
mortale.
Io, lo confesso, tengo invece parecchio alla differenza fra donne e uomini,
quel poco che ne resta, dovessi anche attingere al mito delle origini,
quando ci chiamavano addirittura "gentilsesso"... Mi piace pensare che una
sottufficiale femmina accorra, soccorrevole, a sollevare da terra il soldato
pestato, e denunci, con poche fiere parole, l'eventuale violenza commessa da
qualche energumeno borioso e villoso come da copione.
Se "Siamo donne o caporali?" e' la domanda sottesa al triste episodio della
signorina R., mi piacerebbe poter rispondere con un chiaro e forte: donne,
naturalmente. Almeno finche' quelle di noi che si comportano male, faranno
notizia, invece di essere - come i nonnisti maschi - routine.

6. MEMORIA. FRANCA D'AGOSTINI RICORDA EUGENIO GARIN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 dicembre 2004 riprendiamo questo
articolo.
Franca D'Agostini e' autrice di fondamentali ricognizioni sulla riflessione
filosofica contemporanea europea ed americana, ed ha particolarmente
tematizzato la differenza di approccio tra "continentali" (area europea) ed
"analitici" (area angloamericana).
Eugenio Garin e' stato un immenso maestro per molti di noi, anche chi scrive
queste brevi notizie introduttive e' cresciuto sui suoi libri]

Con Eugenio Garin, morto nella sua casa di Firenze mercoledi' scorso
all'eta' di novantacinque anni, scompare uno degli esponenti piu' autorevoli
di un modo di concepire e praticare la filosofia che puo' dirsi tipicamente
italiano: non soltanto perche' Garin e' stato un insigne storico dell'Italia
filosofica, in particolare del Rinascimento e del neoidealismo, ma anche e
soprattutto perche' nella sua ricerca si esprimeva uno stile di lavoro che
al di fuori del nostro paese non ha avuto grande seguito e fortuna.
Alla base di questo stile e' l'idea del "fare teoria con la storia": un
programma che si tende per lo piu' a riportare all'hegelismo, ma che
percorre tutta la nostra tradizione da Machiavelli a Vico, da Croce a
Gentile, da Labriola a Gramsci, fino ad Abbagnano. Gli italiani, si dice,
eccellono nella cosiddetta "ricostruzione storico-critica": sono maestri
nell'affrontare i fatti storici con l'occhio di una prospettiva progettuale,
che scopre il fascino e il risalto della storia rilevandone l'aggancio con
il presente e con il futuro. Oggi questa combinazione di teoria e
storiografia non gode di molta fortuna. Con il diffondersi
dell'antistoricismo strutturalista e poi di quello analitico le tendenze in
direzione anti-storica sono diventate agguerrite e attive anche in Italia, e
a volte vengono difese con ottime ragioni. Spesso si dimentica pero' che
l'idea di usare la storia per la teoria o per la vita, o anche piu'
specificamente per la politica, come riteneva Garin seguendo Gramsci, puo'
avere molte accentuazioni diverse, alcune delle quali sono molto meno
discutibili di altre. In particolare la scuola di Garin ha portato
innovazioni decisive nella tradizione dello storicismo o del
quasi-storicismo italiano.
*
Anzitutto, alcune delle sue tesi sono diventate punti di non ritorno nella
storiografia filosofica.
Con Il Rinascimento italiano (1941), Medioevo e Rinascimento (1954) e gli
scritti su Pico della Mirandola, Garin si distanziava dalla visione
semplicistica del Rinascimento come un rilancio del paganesimo, contrapposto
alla religiosita' medievale. Con L'umanesimo italiano (1952), ridefiniva
l'Umanesimo non come una semplice tendenza filologico-letteraria (come
veniva presentato da Kristeller), ma come un vero movimento filosofico,
dotato di sue direttive metodologiche, tendenti a sostituire alla fondazione
logica della filosofia una fondazione storico-filologica, politica e morale:
da cui la continuita' con l'idealismo, il marxismo e in generale le correnti
del Novecento italiano, basate su una filosofia della prassi.
Allievo di Gentile e ammiratore di Croce, Garin si sottraeva alla visione
dei due massimi neoidealisti come portatori di tendenze divergenti e
incompatibili. Nelle sue Cronache di filosofia italiana (1955), in La
cultura italiana tra Ottocento e Novecento (1962), nella Storia della
filosofia italiana, in Intellettuali del XX secolo (1974), e non ultimo
nella sua Intervista sugli intellettuali a cura di Mario Ajello (1997),
presentava una visione chiara e penetrante dell'evolvere della cultura
italiana nell'eta' contemporanea. Al centro di questa visione e' la celebre
diagnosi per cui i mali del paese devono ricondursi alla "mancata
modernizzazione laica" dell'Italia. Una malattia la cui cura e' gia' segnata
nella nostra storia, con l'idea di "riformare il presente" rileggendo e
ripensando i mali del passato. Spiace che queste cure cosi' limpidamente
teorizzate siano tanto poco usate, e che in Italia si tenda a ripercorrere
ossessivamente le stesse vie.
Nel fondamentale scritto su La filosofia come sapere storico, del 1959,
ripubblicato nel 1990 con uno schizzo autobiografico (Laterza), Garin
teorizzava cio' che si e' sempre espresso nel suo lavoro: l'idea di una
erudizione senza impoverimento del pensiero, di una filologia pronta
sistematicamente alle nozze con la filosofia: e' di qui che emerge quel che
credo sia ancora oggi il maggior interesse della impostazione di Garin.
*
Proprio l'attenzione alla concretezza della storia portava Garin a due
conclusioni metodologiche importanti.
La prima e' la visione storica come antidoto contro le universalizzazioni
semplificanti. Nel suo contributo alla discussione su filosofia e
storiografia filosofica, Garin partiva dal presupposto che ogni riferimento
"alla Filosofia", ossia "a una filosofia intesa come unico termine di
riferimento" e' una sorta di pugnalata al cuore della verita' storica. Se ci
si adatta a questa visione, lo storico ha finito il suo lavoro. Ma "non
esiste la Filosofia, scriveva, esistono uomini che hanno cercato di rendersi
criticamente conto in modo unitario della loro esperienza e del loro tempo";
questi uomini hanno stabilito rapporti, hanno letto libri, si sono
incontrati, hanno conosciuto convergenze e conflitti, hanno escogitato
soluzioni e usato soluzioni altrui. Tutto questo significa che lo storico,
specie lo storico della filosofia con interessi anche teorici, cioe' rivolti
alla soluzione dei problemi del presente, e' un individuo sensibile tanto
all'unita' quanto all'alterita', ed e' costantemente attento a rilevare
l'unita' senza cadere in semplificazioni banalizzanti.
Proprio l'antipatia nei confronti di un teorizzare che viola la verita'
storica a vantaggio di semplicistiche simmetrie portava Garin alla seconda
acquisizione metodologica, che credo abbia molto da insegnare ai dibattiti
del presente filosofico. L'attenzione storica, anche e soprattutto come cura
filologica, dovrebbe mettere al riparo da un tipico errore del pensiero
critico: l'uso delle cosiddette "false dicotomie". Garin non apprezzava
l'uso di etichette contrastive, oppositive (di marca storicista o
anti-storicista). Per questo sfumo' la visione del Rinascimento come
contrapposto al Medioevo, di Croce opposto a Gentile. L'uso piu' nobile di
una vera storiografia filosofica e' l'insegnarci a non pensare
oppositivamente, in modo parassitario rispetto a fantasmatici nemici. Quegli
storici o quasi tali che oggi vedono Kant contrapposto a Hegel, e Kant e
Hegel contrapposti a Hume, oppure l'ermeneutica contrapposta alla filosofia
analitica, o riescono a pensare solo in termini di realismo e antirealismo,
razionalismo contro empirismo e cosi' via, avrebbero dovuto andare a lezione
da Garin. Il migliore risultato di chi non si inventa false contrapposizioni
e' precisamente riuscire a vedere le contrapposizioni reali, i cui danni
sono ogni giorno sotto i nostri occhi, e di cui la storia deve impegnarsi a
dare conto.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 806 dell'11 gennaio 2005

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