Fwd: Venezuela: cos’è in gioco questo 10 gennaio



Venezuela: cos’è in gioco questo 10 gennaio

Il Tribunale supremo di Giustizia del Venezuela ha ratificato ieri che la presenza del presidente eletto Hugo Chávez non è necessaria per l’insediamento previsto per oggi 10 gennaio. «Il potere esecutivo continua a esercitare le sue funzioni in piena legittimità e in continuità amministrativa». Inoltre ha stabilito che il presidente Chávez ha regolarmente chiesto il permesso per assentarsi dal paese per ragioni note e che permangono e che di conseguenza non c’è un vuoto di potere né temporaneo né assoluto «perché il presidente ha ricevuto all’unanimità il permesso ad assentarsi dal paese per motivi di salute senza limite temporale». Ma cosa è in ballo in questo passaggio?

di Gennaro Carotenuto

 

Con ogni evidenza le condizioni di salute del presidente venezuelano, a oltre tre settimane dall’intervento chirurgico al quale è stato sottoposto all’Avana, sono gravi. È tristemente probabile che non sarà in grado di tornare al governo, ma non sono così disperate da accelerare quanto previsto dalla Costituzione bolivariana, ovvero nuove elezioni nelle quali il vicepresidente Nicolás Maduro sarà il candidato del partito socialista mentre l’opposizione si dibatte tra il confermare Capriles, battuto da Chávez in ottobre, o rimettere tutto in gioco.

Oggi a Caracas, e in molti altri posti nel Continente e nel mondo, si terranno grandi manifestazioni di solidarietà per Hugo Chávez, alle quali parteciperanno diversi capi di Stato, che dimostrano così la vicinanza al dirigente che più ha lavorato per l’integrazione dell’America latina nell’ultimo decennio. In particolare la potenza regionale brasiliana ha compiuto una serie di passi per garantire la stabilità e la continuità del processo bolivariano e ha appoggiato la decisione del tribunale caraqueño.

Che piaccia o no, dunque, ancora una volta, come sempre, in Venezuela viene rispettata la legge e la Costituzione. Perde così ogni pathos la scadenza di oggi, 10 gennaio, quando Chávez sarebbe dovuto subentrare a se stesso nel nuovo mandato presidenziale conquistato a larghissima maggioranza lo scorso 7 ottobre. Perde di senso anche la canea di supposizioni che si sono rincorse in queste ore e che correvano sui fili delle veline pubblicate senza freni dai media mainstream o anche dalla fervida fantasia di qualche presunto chavista voglioso di azione in una pellicola apparentemente stazionaria come le condizioni cliniche del povero Chávez.

Nell’immediatezza politica tale decisione comporta alcune conseguenze. Nicolás Maduro, vicepresidente e successore designato, continua a fare funzione presidenziale esercitando l’elettorato, che pure lo conosce da sempre, anche in quanto autore del fondamentale statuto dei lavoratori, a considerarlo il possibile leader futuro. L’opposizione, che pure salvo poche punte di livore, ha mantenuto un atteggiamento decoroso, con il passar del tempo potrebbe rimettere in discussione la candidatura Capriles e aprire a nuove primarie, cosa che la indebolirebbe. Chiede che Chávez passi dallo status di «permesso autorizzato dal parlamento» a quello di «assenza temporale», un livello inferiore all’«assenza assoluta» che imporrebbe nuove elezioni. È una richiesta opinabile ma non irragionevole, fatta però senza particolare enfasi, cosciente che è talmente forte la partecipazione popolare per la malattia del presidente che non manifestare rispetto sarebbe un errore esiziale. Capriles stesso ha tenuto un profilo basso in merito e in generale i venezuelani appaiono più rispettosi rispetto alle sguaiatezze con le quali ci deliziano i commentatori della grande stampa internazionale, spesso così volgari da non dissimulare lo sprizzare gioia da tutti i pori per la gravità del cancro che colpisce l’uomo che ha riscritto l’agenda politica continentale.

Alcuni sognano o paventano un sicuro golpe organizzato dagli USA, pronti ovviamente a far capo sui soliti militari latinoamericani con i baffoni e gli occhiali scuri, senza ricordare le differenze tra la situazione degli anni ‘70 e quella attuale o più semplicemente tra George W Bush e Barack Obama o tra paesi a democrazie ben più fragili, come il Paraguay o l’Honduras, dove golpe filostatunitensi sono avvenuti di recente, e il Venezuela che ha in questi anni mostrato una straordinaria vivacità democratica rendendo ancora più velleitaria un’avventura golpista come quella tentata nel 2002 da Bush, Aznar e l’FMI. Altri millantano di essere certi dello scoppiare una guerra civile tra i «boliproletari» del vicepresidente Maduro e i «boliborghesi» del presidente del parlamento Diosdado Cabello. Il primo avrebbe disposto di migliaia di soldati cubani armati fino ai denti mentre il secondo, in quanto riconosciuto narcotrafficante, avrebbe utilizzato la «narcoguerriglia» colombiana delle Farc.

In particolare la balla dei cubani armati fino ai denti è copiata alla lettera dal Plan Zeta creato ad arte dal generale cileno Gustavo Leigh, sodale di Pinochet, nel 1973 per preparare l’11 settembre. Nei documenti declassificati negli USA nel 1999 è candidamente ammesso che il Plan Zeta, del quale si discusse per anni come una cosa scontata, facesse parte della «guerra psicologica» per spaventare la classe media contro il governo democratico di Salvador Allende ieri, di Hugo Chávez oggi. Ovviamente quelli che scrivono di America latina sui media non hanno memoria se non per gli stereotipi e riproducono le veline facendo credere di essere ben introdotti fino alle segrete stanze del palazzo di Miraflores a Caracas o addirittura nel letto di dolore di Chávez all’Avana dove (una calunnia tira l’altra) questo sarebbe ucciso non dalla gravità del male ma dall’imperizia dei medici cubani.

A chi scrive sembra che le cose siano ben più semplici e dignitose sia dal punto di vista umano che politico. Avendo conosciuto personalmente il presidente Chávez mi sento particolarmente vicino alla sua sofferenza umana. Lo immagino cosciente del male severo che, salvo che per lunghi momenti di sedazione, non ne tocca la lucidità. È un uomo ancor giovane, 58 anni, e fino a ieri fortissimo nel fisico e nello spirito. Sente sulle sue spalle un processo che considera storico e ha appena conquistato con uno sforzo fisico sovrumano la riconferma alla Presidenza della Repubblica, dopo una difficile ma limpida campagna elettorale nella quale le ragioni progressiste sono risultate ancora una volta più forti di quelle della restaurazione neoliberale.

Sente di non volere e non poter rinunciare se non nell’imminenza della fine e tuttavia ha predisposto le cose per la sua successione. Ha parlato con gli amici più fidati, i brasiliani, i cubani, sono andati a trovarlo Evo Morales, Rafael Correa, oggi verrà Cristina Fernández e senz’altro ricorderanno Néstor, l’altro grande leader dell’integrazione latinoamericana di questo inizio di XXI secolo, prematuramente scomparso. Ha indicato chiaramente Nicolás Maduro come candidato e non ci sarà alcuna guerra per la successione. Certo, se mancherà Chávez mancherà (tra l’altro) la sua straordinaria capacità di sintetizzare le tante anime del processo bolivariano nella sua persona e questo non può non comportare il riaccendersi di aspirazioni personali come avverrebbe in ogni altra democrazia. L’esaltazione mediatica di queste lotte, fino a descriverle come una guerra, fino a inventare due partiti inconciliabili all’interno di un movimento da sempre poroso come quello bolivariano, fa parte però di quel processo che qui abbiamo spesso descritto a metà strada tra la scarsa o nulla conoscenza, il pregiudizio razzista, lo stereotipo svilente e la calunnia sfacciata.

Il Venezuela resta un paese difficile per tanti versi, ma è assurda e spesso in malafede la pervicacia del non vedere come, salvo l’avventurismo del 2002 dell’opposizione, sia la sinistra sia la destra, inizialmente tutta eversiva, si siano in questi anni esercitati al gioco democratico in maniera ammirevole. Tutto ciò, ma non mi illudo che venga riconosciuto, è dovuto innanzitutto alla grande opera di Hugo Chávez e dei suoi nel mettere in piedi, quasi dalla radice, una socialdemocrazia dove i diritti siano garantiti e che nessuno, neanche la parte maggioritaria dell’opposizione vuole o può più mettere in discussione e che si esplicita in processi elettorali aspri ma trasparenti.

Se Chávez verrà a mancare, o se ne costaterà l’inabilità assoluta a esercitare le sue funzioni, verranno convocate nuove elezioni nei termini previsti dalla Costituzione partecipativa della V Repubblica. In entrambi gli schieramenti si aprirà un dibattito ma poi si voterà. Personalmente mi pare che il processo di spostamento dell’egemonia culturale in corso da almeno un decennio in America latina verso l’uguaglianza e la giustizia sociale in controtendenza verso un mondo occidentale caratterizzato dall’individualismo e la riduzione dei diritti, sia un fatto sostanziale che non verrà spazzato via dalla scomparsa di un leader, sia pure importante come Chávez. Sono ottimista per il futuro del Venezuela e dell’America.

Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it

 




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Gennaro Carotenuto per Giornalismo partecipativo
 

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