Da Portici alla Virginia alla Colombia: giustizia (mediatica) è fatta



Da Portici alla Virginia alla Colombia: giustizia (mediatica) è fatta

narco Teresa Lewis è stata giustiziata stanotte. La stampa mondiale non se n’è data cura. Quella italiana è giustificata, troppo impegnata con la cucina monegasca perfino per parlare del femminicidio di Teresa Buonocore.

Invece ha fatto breccia la morte di Jorge Briceño, il Mono Jojoy, uno dei capi militari storici delle FARC colombiane, ucciso in un’azione di guerra smisurata, 32 aerei, 27 elicotteri, centinaia di uomini, un bombardamento massiccio e indiscriminato del quale ci racconta Guido Piccoli.

di Gennaro Carotenuto

L’ottimo Simone Bruno, ai microfoni di SkyTg24, ha ben descritto come si sia messa per l’ennesima volta in scena una “demonizzazione del nemico” perfettamente orchestrata e inoculata dai media. Simbolo di ciò è sempre più El País di Madrid (immagine) che definisce direttamente il corpo di Briceño come il corpo “del narco” (narcotrafficante) e parla di lui e degli altri guerriglieri come dei “narcos abbattuti”.

Diventa a questo punto superfluo perfino lo storico dibattito sull’uso antitetico di termini quale “guerriglia” e “terrorismo”. Perfino terrorista è poco per Briceño e per quella ventina di ragazzi che sono morti con lui. L’odio, va da sé, non serve a spiegare, ma solo a schierare e a rafforzare la negazione dei motivi di 40 anni di guerra civile colombiana nella costruzione di un presente edulcorato fatto di buoni, il governo, e cattivi, i narcoterroristicomunisti.

Come abbiamo già scritto in queste pagine, stiamo assistendo ad un rafforzamento dei monopoli dell’informazione e dell’imposizione del pensiero unico. E’ un rafforzamento che sembra un indurimento ed una rinnovata capacità di posizionamento rispetto al ruolo svolto da Internet e dal giornalismo partecipativo. Fino a qualche anno fa esecuzioni particolarmente repellenti come quelle di Teresa Lewis bucavano lo schermo ed erano rintuzzate solo in quanto “antiamericanismo”. Oggi Teresa può morire nel sostanziale silenzio. La sola valvola di sfogo di Internet non basta a commemorarne la vita disgraziata e la morte sempre ingiusta. Quindi lo spot “United States”, l’odio antiamericano, non serve più a fare pubblicità, nonostante Pierluigi Battista sul Corriere abbia riciclato per la trentesima volta lo stesso articolo scritto vent’anni fa e rispolverato ogni volta cambiando solo i nomi.

Al contrario è divenuto facile solidarizzare con una Sakineh scelta non a caso tra le mille Sakineh di questo triste tropico planetario. L’uso delle gigantografie al quale i nostri comuni si prestano docilmente è una catarsi che ci fa sentire molto “we are the world”. A pensar male si fa peccato (e ribadisco la solidarietà a Sakineh) ma se Sakineh avesse avuto i lineamenti grossolani di Teresa Lewis, se non avesse avuto quel volto dolce, avrebbe avuto la stessa solidarietà? Se invece che iraniana fosse stata saudita?

Non smettono nello stesso contesto di essere scandalosi, in un continente dove i prigionieri politici restano migliaia, i milioni di parole dedicate a una ventina di presunti prigionieri politici cubani che, stando ad Amnistia Internazionale, che pure ne stigmatizza a buon diritto la carcerazione, non rischiano né tortura né morte e sicuramente non prefigurano quel “gulag tropicale” dal quale Yoani Sánchez è libera da anni di raccontarci minuziosamente. Conosciamo perfino la pressione arteriosa del dissidente cubano Guillermo Fariñas in sciopero della fame e abbiamo letto ovunque della morte di Franklin Brito in Venezuela, ma non una riga passa, in una virtuale orwelliana censura mondiale, delle centinaia di prigionieri politici mapuche in Cile processati e condannati ancora secondo le leggi dettate da Augusto Pinochet.

L’agenda setting mondiale per l’America latina ricorda molto quello di un paese incartato come l’Italia, impegnato da mesi a parlare del cognatissimo di Fini, della sua Ferrari e della sua casa di Montecarlo, una pagliuzza in confronto ai mille travi che si occultano, la fedina penale di mezzo parlamento, la fine della Repubblica fondata sul lavoro, il femminicidio di Teresa Buonocore, mentre cade il velo e la farsa della monnezza nascosta sotto il tappeto riemerge.

C’è qualcosa di vertiginosamente, intollerabilmente scandaloso in questo agenda setting imposto con grande malizia che stravolge completamente dimensioni e gravità delle cose. Torniamo alla Colombia, paese importante del quale si parla solo in limitatissimi casi. Ogni tanto passano numeri che al grande pubblico non possono non risultare incomprensibili. Com’è possibile spiegare con la presenza di 20 o 30.000 guerriglieri (comunisti, terroristi, narco, sanguinari…) il fatto che in Colombia ci siano 3 o 4 milioni di “desplazados”, profughi, e che altrettante persone si sono nel frattempo stabilite in Venezuela, aggravando di molto i problemi di quel paese? A leggere i giornali le FARC esistono perché sono narcoterroristi e perché il negraccio dell’Orinoco, Hugo Chávez, li “foraggia”. Ammettiamo per un attimo che sia vero e che sia tutta la spiegazione, anche se ciò vorrebbe dire che le FARC siano dei marziani piovuti dal pianeta Candanga senza alcun radicamento nella storia colombiana.

Ma non avranno ragione studiosi come il nostro Guido Piccoli quando sostengono in maniera documentata che non più del 3% della violenza, dei profughi e del narcotraffico siano attribuibili alla guerriglia e che il resto vada attribuito all’esercito, ai paramilitari, ai narco veri che fanno affari con la parapolitica, all’agroindustria esportatrice che ha sottratto in questi anni milioni di ettari ai contadini che perciò hanno ingrossato le file dei profughi? Se Piccoli ha ragione, e ha ragione, non si vergognano i grandi media a presentare una realtà virtuale nella quale la guerriglia è descritta come “il problema”?

E’ una realtà virtuale, altro che realismo magico, per la quale Álvaro Uribe e perfino Felipe Calderón sono degli angeli. Hugo Chávez e perfino Pepe Mujica invece sono dei demoni. Angeli e demoni. Malizia e ignoranza. Ieri “La Stampa” di Torino presentava come l’ennesima stravaganza di Chávez il divieto di vendita di alcolici nel giorno delle elezioni. Personalmente faccio fatica (se esiste) a trovare un solo paese latinoamericano dove sia permesso vendere alcolici il giorno delle elezioni. La verità è che non solo anche nelle precedenti elezioni venezuelane era vietato vendere alcolici, ma che è vietato vendere alcolici in tutte le elezioni di tutto il continente.

Ma che ne sa “La Stampa” e, soprattutto, cosa importa. Il buon giornalismo non è verificare, raccontare e contestualizzare quello che accade. Il buon giornalismo, quello che paga gli stipendi, è quello che a tavolino decidono di rappresentare secondo interessi terzi. Il fatto che non si peritino mai di verificare e considerino da anni El País di Madrid come la velina unica per raccontare l’America latina, facendolo passare come un osservatore neutrale e perfino progressista della realtà latinoamericana, è esemplificativo di questo mix di malafede e ignoranza.

Chi scrive è stato probabilmente l’unico in Italia a denunciare, qui e ai microfoni di Radio3 Rai, il caso delle povere donne del Guanajuato, indigene, contadine, analfabete, condannate da una mostruosità giuridica anche a 30 anni di carcere per avere abortito. Al mondo ci sono mille casi come quello delle povere donne di Guanajuato ma, guarda caso, difficilmente giunge agli onori della cronaca quanto è considerato scomodo per governi amici come quello messicano, colombiano, egiziano, saudita. Per non parlare del libico da noi.

Come per Teresa Lewis giustiziata stanotte (e della quale si è parlato solo per la strumentalizzazione di Ahmedinejad) e come per il femminicidio di Teresa Buonocore a Portici, era difficile che le povere donne di Guanajuato bucassero il monoscopio. La loro era solo una drammatica, scomoda notizia e, come diceva in “Fortapásc” il collega anziano e accomodante di Giancarlo Siani, il giovane cronista ammazzato dalla camorra giusto 25 anni fa: “Gianca’, ’e notizie so’ rotture ‘e cazzo”. Molto meglio le veline.


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Gennaro Carotenuto per Giornalismo partecipativo
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