da alessandra garusi: anticipazioni dal numero di marzo 2005 di missione oggi



Ecco il secondo pezzo tratto dal numero di marzo 2005 di Missione Oggi.
Riprendete pure liberamente.

Grazie mille e a presto
Alessandra Garusi (per la redazione)

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"AVRÒ PIÙ TEMPO PER LEGGERE". IN QUESTA FRASE, DETTA COL SORRISO, C'È LUI,
ZOHAR MILCHGRUB, 24 ANNI, ISRAELIANO DI GERUSALEMME. AVRÀ PIÙ TEMPO PER
LEGGERE, QUANDO SARÀ INCARCERATO PER AVER RIFIUTATO DI PRESTARE DI NUOVO
SERVIZIO MILITARE NEL SUO PAESE.


Zohar
L'obbedienza
non è più
una virtù





Lo abbiamo incontrato durante un suo passaggio in Italia, dopo otto mesi
trascorsi in India, meta frequente dei suoi giovani connazionali che si
recano sulle spiagge di Goa e inseguono il mito dell'oriente, spesso per
evitare la leva. Zohar, in quei mesi, ne ha incontrati tanti, su e giu' per
il subcontinente indiano. E a tutti allungava un volantino: quello di Yesh
Gvul, l'associazione che raggruppa i "refusnik", di cui lui è il più giovane
esponente.
Ecco, in breve, la sua storia. "A dieci anni ho iniziato ad avere un
pensiero politico, dopo che io e i miei genitori siamo rientrati dal
Venezuela, dove avevamo vissuto per due anni. È stato allora che ho sentito
per la prima volta parlare del conflitto. Davanti a quello che accadeva,
alle notizie della televisione, chiesi a mia madre: 'Perche' semplicemente
non restituiamo i Territori occupati?' Crescendo, sono diventato più attivo:
a 13 anni ero in un gruppo giovanile, giravamo a distribuire adesivi e a
sensibilizzare. Erano gli anni di Oslo e le cose sembravano migliorare".
Poi e' arrivata l'ora fatidica, la chiamata alle armi. "A 19 anni sono
entrato nell'Esercito. L'allora primo ministro era Ehud Barak: avevo qualche
dubbio, ma in quel momento sembrava che la pace fosse dietro l'angolo. E poi
pensavo di dover fare il mio dovere. Venni assegnato alla missione nel sud
del Libano. Uno dei migliori giorni della mia vita è stato quando i carri
armati si sono ritirati da lì: finalmente, il silenzio regnava sul confine.
Ma la gioia è durata poco: dopo quattro mesi, è iniziata la seconda
 Intifada".
"Dopo il Libano, mi hanno mandato a un check point nella valle del Giordano,
dove era il comandante ad autorizzare il passaggio. Per fortuna, non era un
periodo particolarmente teso. Non ho dovuto sparare a nessuno e nessuno mi
ha sparato. La mia intenzione era di aiutare la popolazione, ma ciò non era
possibile. E alla fine del 2001 mi sono ritrovato a combattere. Le decisioni
ai check point venivano prese da giovanissimi: per "evitare attacchi
terroristici", stava a loro e alla loro discrezione stabilire se le macchine
potevano passare. C'erano persone che avevano il doppio o il triplo dei miei
anni e io avrei dovuto mandarle indietro? Cercavo di far passare tutte le
macchine. Ma i superiori mi dicevano: "Se questo passa e fa un attacco,
dobbiamo sparargli alle spalle".
Una presa di coscienza graduale, quella di Zohar. "La prima volta che ho
dubitato è stato quando mi hanno mandato nella Striscia di Gaza, a Nablus,
in un insediamento isolato, completamente circondato: c'era un'intera unita'
dell'Esercito a sorvegliarlo".
Ora, senza mezzi termini, dice: "Ci troviamo a combattere una guerra non
necessaria". E spiega: "Man mano che andavo avanti a leggere, a cercare di
capire, volevo sempre meno essere nell'Esercito. Arrivato alla fine, ero
certo che non ne avrei più fatto parte, per quello che avevo visto, e che
avrei fatto del mio meglio anche per informare gli altri e dissuaderli. Se
sei contro l'occupazione, ma sei dentro il sistema, con una divisa e un
fucile, non lo puoi cambiare".
"Un giorno - prosegue Zohar - quando ero alla fine dei tre anni di servizio
militare e ormai avevo messo in discussione tutto, mi trovavo alla stazione
centrale di Gerusalemme: lì mi è stato consegnato un volantino di Yesh Gvul
(che in ebraico significa "C'e' un limite") e mi sono accorto che
condividevo quello che dicevano. E che c'era qualcuno che portava avanti le
cose che pensavo". Prima di allora, Zohar non sapeva dell'esistenza di Yesh
Gvul e delle altre associazioni di refusnik. "Avevo chiaro che non avrei più
prestato servizio ai check point. Mio fratello e i miei figli non lo
faranno, non saranno soldati d'occupazione. Un mese dopo aver ricevuto quel
volantino, mi sono unito a Yesh Gvul". È l'aprile 2002 e Zohar ha appena
terminato i suoi tre anni di servizio militare.

IL CORAGGIO DI DIRE DI NO

Ma come agiscono gli attivisti di Yesh Gvul? "Tentiamo di informare che
uomini e donne possono dire di no. Una volta al mese teniamo una
dimostrazione davanti alle prigioni, dove sono detenuti i refusnik".
Infatti, lo Stato d'Israele non riconosce il diritto all'obiezione di
coscienza e al "rifiuto selettivo"; e chi lo fa, puo' finire in carcere.
"Inoltre, poiché i refusnik stando in carcere non possono lavorare,
cerchiamo finanziamenti per evitare che i giovani rinuncino all'obiezione
per motivi economici. Ogni refusnik che va in prigione, quando esce può
venire alla sede di Yesh Gvul e chiedere un'indennita'".
Nel gennaio 2003, Zohar e' partito per l'India. Ha preso parte al World
Social Forum, come rappresentate di Yesh Gvul. Poi ha girovagato per alcuni
mesi: "L'India e' infestata dai viaggiatori israeliani. Eppure, mi sono reso
conto che a Mumbai, al Wsf, c'era tantissima gente, ma noi eravamo
pochissimi. Da allora, ho cominciato a distribuire volantini ai viaggiatori
israeliani che incontravo". Sorride, Zohar: "Sono diventato il primo
attivista in India per Yesh Gvul".
Gli chiediamo come e' vista la sua scelta dagli altri, amici, parenti,
conoscenti. "Molti sono contro l'occupazione, ma quelli che sostengono i
refusnik sono pochi. Io provengo da una famiglia di sinistra: mi sostengono,
ma nessuno di loro si unisce a me".
Quando lo incontriamo, per Zohar e' prossimo il rientro in Israele: "Sto per
tornare, so che sarà dura. E' più facile parlare in Europa, in Israele
sembra non vogliano capire. La maggioranza della gente mi ignora, e questo
fa male. Di noi i mass media non parlano; e se lo fanno, quasi sempre danno
la versione negativa. Prendiamo l'esempio più noto: quando i piloti si sono
uniti a Yesh Gvul, per due giorni se ne è discusso, ma la cosa si è chiusa
lì e le tv hanno dipinto il fatto come molto negativo. 'A political refusnik
' ci definiscono ora sui giornali, con un'accezione tutt'altro che positiva"
.
A proposito del futuro dice: "Sono ottimista. Devo esserlo, se voglio
cambiare la situazione. Il mio gruppo trova sempre maggiore supporto. Siamo
anche attivi contro il muro, ed e' uno dei casi in cui i gruppi pacifisti
israeliani stanno collaborando con quelli palestinesi". Si tratta di un
punto cruciale, questo. Ma anche chi e' animato dalle migliori intenzioni,
ancora fatica a creare relazioni tra i due popoli. "Non ho amici
 palestinesi", conferma Zohar. "Ci sarebbero dei luoghi dove incontrarsi, ma
nessuno lo fa. Crossing the lines is dangerous". E' ancora "pericoloso", fa
ancora paura attraversare il confine non marcato da muri visibili, eppure
così evidente, tra le persone. "Vivo a dieci minuti da Betlemme e a dieci da
Ramallah. Eppure, l'ultima volta che sono stato a Betlemme avevo cinque
anni: ci andavo perché solo là arrivavano gli ovetti kinder e li andavo a
comprare. A Ramallah, invece, non sono mai stato".

ASPETTANDO L'EVACUAZIONE DI GAZA

Della società israeliana dice: "Sta diventando sempre più violenta, ed e'
una delle ragioni che mi spingono ad agire: sono questi gli effetti dell'
essere popolo occupante".
Ma non ha paura, Zohar? La sua non è una scelta da poco. "A volte sono un po
' preoccupato di quello che potrebbe succedere alla mia famiglia, ma sono
solo momenti. Sono sereno. So che se mi richiamano e rifiuto, andro' in
prigione, ma spero di poter finire gli studi. Ciò che mi spaventa, è il
futuro dei nostri popoli: l'odio sta crescendo in Medio Oriente, ma questa
deve essere la ragione per trovare nuova speranza".
"Non sono religioso, non seguo i rabbini", spiega Zohar. "Anzi, prima del
mio viaggio in India avevo sempre considerato la religione come un fattore
negativo. Nel conflitto, infatti, e' un elemento molto forte: in Israele i
religiosi sono tutti estremisti; esiste una sola organizzazione di sinistra,
Rabbini per la pace. Ma io non mi sento 'eletto', non mi sento parte di un
'popolo scelto da Dio': questo e' parte del problema".
Eppure, scegliere di essere un refusnik e' una questione di coscienza,
attiene fortemente alla dimensione etica della persona. Una caratteristica
di molti refusnik e' il "rifiuto selettivo": non tutti sono obiettori di
coscienza come li consideriamo noi, non tutti sono pacifisti a oltranza. Il
limite per un refusnik e' soggettivo, ciascuno sceglie in coscienza a quali
ordini obbedire e a quali no. "Ciascuno ha il proprio limite", ripete Zohar.
"Vogliamo innanzitutto che la gente ci pensi. Per quel che mi riguarda, diro
' di no ad ogni richiamo, a meno che non si tratti di evacuare Gaza. Lì
sarei davvero felice di partecipare".
GIUSY BAIONI



L'appello di Yesh Gvul:
Fermate il massacro


Soldato: l'occupazione compromette il futuro del nostro Paese. Siamo tutti
preoccupati per il benessere dello Stato di Israele. Tutti vogliamo che esso
investa di più in istruzione, servizi sociali, salute. Mentre spende
miliardi per il mantenimento dell'Esercito nei Territori e negli
insediamenti, soprassedendo su tutto il resto. L'occupazione, e la violenza
che essa causa, trascina l'economia verso la recessione. Gli investitori se
ne vanno, i turisti stanno alla larga, interi settori dell'economia sono
sull'orlo del baratro. Non sarebbe meglio usare il denaro per rafforzare le
nostre strutture sociali?
Ferma l'occupazione, denaro pubblico per i più deboli, non agli
insediamenti.
Soldato, l'occupazione e' dannosa all'Esercito. L'addestramento e'
inesistente, poiché i soldati trascorrono molto tempo nei Territori con
compiti di routine: fare la guardia alle colonie, proteggere le autostrade e
realizzare incursioni nelle città e nei villaggi palestinesi. I soldati sono
costretti a servire il proprio Paese in condizioni disumane. Fonti militari
ammettono che gli obblighi nei Territori portano i soldati all'esaurimento e
causano incidenti. Non sarebbe meglio dedicare il tempo ai bisogni reali di
difesa del Paese?
Soldato: ci sono atti che la gente decente non commette, anche se sono degli
ordini. Le persone decenti non demoliscono le case, non uccidono i bambini,
donne e neonati, non affamano il popolo vicino e non negano le cure mediche.
Questa condotta indebolisce la fibra morale del nostro Paese. Questi atti
sono pericolosi, anche se ci è stato detto di farli "per scopi di sicurezza"
. Ogni "liquidazione" (uccisione) provoca un attentato suicida. Il bambino
che tu hai ferito oggi, sarà il terrorista di domani.
Soldato: tocca a te decidere. Non abbiamo una ricetta "sicurezza". Cambia
idea, guidato dalla tua coscienza. Non possiamo decidere per te. Possiamo
solo dirti che moltissimi soldati hanno detto di no ai crimini di guerra.
Dalla guerra del Libano, fino all'attuale Intifada migliaia di soldati,
coscritti e riservisti, hanno trovato il coraggio di dire di no. Qualunque
persona decida di rifiutarsi, lo decide da solo. Ma quando quella persona
cambia idea, troverà noi a dargli una mano.