La nonviolenza e' in cammino. 751



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 751 del 6 dicembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Con Lidia Menapace a Venezia l'8 dicembre
2. Enrico Peyretti: non calunniare la nonviolenza
3. Jean Marie Muller: due frammenti
4. Giuliana Sgrena: l'ordine dei mullah a Sadr city
5. Angela Giuffrida: un'altra filosofia e' possibile. E necessaria
6. Giulio Vittorangeli: la politica e l'antipolitica
7. Luisa Muraro: sul problema delle regole
8. Amelia Crisantino: la linea di confine
9. Marina Forti: la seconda generazione di Bhopal
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. INCONTRI. CON LIDIA MENAPACE A VENEZIA L'8 DICEMBRE
Si terra' a Venezia l'8 dicembre il convegno di presentazione pubblica della
proposta promossa da Lidia Menapace e della "Convenzione permanente di donne
contro le guerre" per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e
smilitarizzata, solidale e nonviolenta, proposta che ha gia' avuto uno
sviluppo rilevante con l'appello scaturito dall'incontro svoltosi presso la
Casa della nonviolenza di Verona lo scorso 8 novembre.
Il convegno veneziano avviene nella solenne cornice del terzo Salone
dell'editoria di pace promosso dalla Fondazione Venezia per la ricerca sulla
pace, lunedi' 8 dicembre, dalle ore 10 alle ore 13 nel Teatro del Patronato
ai Frari, per tutte le indicazioni anche logistiche e topografiche si puo'
vedere nel sito www.terrelibere.it/fondacodivenezia
*
Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi
impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente
universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e
significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa'
civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli
interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di
convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un
movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La
Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della
differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con
Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma
1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la
luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001.
*
Per ulteriori informazioni e contatti sul covnegno di venezia, l'appello di
Verona, la proposta per un'Europa neutrale e attiva, disarmata e
smilitarizzata, solidale e nonviolenta: Giovanni Benzoni (e-mail:
gbenzoni at tin.it), Lidia Menapace (e-mail: llidiamenapace at virgilio.it), Mao
Valpiana (e-mail: azionenonviolenta at sis.it).

2. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: NON CALUNNIARE LA NONVIOLENZA
[Nella mailing list del movimento cattolico nonviolento "Pax Christi"
(paxchristi at yahoogroups.com), tra le riflessioni - giustamente gioiose, e
talora fin euforiche (lo "jubelo de core / che fai cantar d'amore", se ci si
passa la reminiscenza di Iacopone da Todi) - seguite all'intervento del papa
che domenica scorsa ha esplicitamente invitato le persone di volonta' buona
di tutte le religioni ad unirsi nel proporre la nonviolenza, rispondendo
alla richiesta di un iscritto di ritrovare una vecchia spiacevole
dichiarazione di un cardinale che sulla nonviolenza diceva cose disinformate
e inadeguate, Enrico Peyretti ha ridiffuso un suo articolo che a quel tempo
a quell'autorita' ecclesiastica replicava. Lo ringraziamo per avercelo messo
a disposizione e lo riproponiamo qui, ricordando che comparve dapprima sulla
bella rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi, "Rocca", del primo
novembre 1991; ed e' stato poi ripubblicato in Enrico Peyretti, La politica
e' pace, Cittadella, Assisi 1998, pp. 169-172.
Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscali.it) e' uno dei principali
collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura
e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al
di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni,
Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi
1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella
rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di cui
abbiamo pubblicato il piu' recente aggiornamento nei numeri 714-715 di
questo foglio, ricerca una cui edizione a stampa - ma il lavoro e' stato
appunto successivamente aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca
sulla pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001,
Asterios, Trieste 2001; vari suoi interventi sono anche nei siti:
www.arpnet.it/regis, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei
principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di
questo notiziario.
Lev Tolstoj, nato nel 1828 e scomparso nel 1910, non solo grandissimo
scrittore, ma anche educatore e riformatore religioso e sociale,
propugnatore della nonviolenza. Opere di Lev Tolstoj: tralasciando qui le
opere letterarie (ma cfr. almeno Tutti i romanzi, Sansoni, Firenze; e alcuni
dei piu' grandi racconti, come La morte di Ivan Il'ic, e Padre Sergio),
della gigantesca pubblicistica tolstojana segnaliamo particolarmente almeno
Quale scuola, Mondadori, Milano; La confessione, SE, Milano; Perche' la
gente si droga? e altri saggio su societa', politica, religione, Mondadori,
Milano; Il regno di Dio e' in voi, Bocca, Roma, poi Publiprint-Manca,
Trento-Genova; La legge della violenza e la legge dell'amore, Edizioni del
Movimento Nonviolento, Verona; La vera vita, Manca, Genova. Opere su Lev
Tolstoj: dal nostro punto di vista segnaliamo particolarmente Pier Cesare
Bori, Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj, Il Mulino, Bologna; Pier Cesare Bori,
Tolstoj, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi); Pier
Cesare Bori, L'altro Tolstoj, Il Mulino, Bologna; Amici di Tolstoi (a cura
di), Tolstoi il profeta, Il segno dei Gabrielli, S. Pietro in Cariano (Vr).
Indirizzi utili: "Amici di Tolstoi", c/o Gloria Gazzeri, via Casole d'Elsa
13, 00139 Roma, tel. 068125697, e-mail: amiciditolstoi at tiscalinet.it]

A conforto dei cappellani militari e del ministro della Difesa, a cui si
rivolgeva, il cardinale Biffi ha ultimamente attaccato la nonviolenza come
antievangelica e ingiusta perche' rifiuta di difendere i deboli e lascia
mano libera ai prepotenti, ed ha riproposto la tesi della guerra giusta.
Evviva la liberta', anche e specialmente nella Chiesa. Fa simpatia un
cardinale che (almeno cosi' pare) osa parlare diversamente dal papa.
Anche questa volta Biffi ha citato il filosofo russo Solov'ev (1853-1900)
per criticare Tolstoj (1828-1910). Chi e' appena informato sa che la ricerca
e le esperienze della nonviolenza sono, all'opposto di cio' che Biffi
immagina, lotta contro ogni violenza senza usare altra violenza, ma con la
forza dell'anima e della verita', che puo' essere di tutti. Dire che la
nonviolenza e' rinuncia passiva e vile, e' una calunnia indegna di un
vescovo e di qualunque persona informata. E serve a chi vuole mantenere,
anche con la guerra, la violenza di un sistema mondiale di dominio e
ingiustizia. Se poi la religione di Tolstoj non e' quella di Biffi, o di
altri fra noi, cio' non autorizza nessuno a fraintendere un grande pensatore
morale e tutto il movimento nonviolento, prezioso per la vita del mondo.
Inoltre, sono passati cent'anni dalle polemiche tra Solov'ev e Tolstoj. I
nonviolenti di oggi sono debitori all'insegnamento di Tolstoj, di cui vedono
anche i limiti, ma di piu' agli sviluppi teorici e pratici di Gandhi e di
tanti altri, nei quali e' basilare il passaggio dalla nonviolenza passiva a
quella attiva. Questo lo sanno tutti.
Ma anche nei confronti di Tolstoj l'accusa e' ingiusta. "La 'non resistenza
al male' puo' essere tacciata di passivita', di quietismo solo se non si
vuole tener conto di cio' che si dovrebbe sempre aggiungere: 'non resistenza
al male con la violenza', cioe' con lo stesso male che si vorrebbe
combattere" (Pier Cesare Bori, Tolstoj oltre la letteratura, Edizioni
Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1991, p. 102).  Ma e' lo stesso
Tolstoj che sembra rispondere proprio a Solov'ev quando, ai suoi "critici
russi" che intendono, con "comoda obiezione", la non-resistenza come
"interdizione di ogni lotta contro il male", replica che questo principio
evangelico centrale proibisce la resistenza "con la violenza", l'unica
difesa che i suoi critici sanno concepire (Leone Tolstoj, Il Regno di Dio e'
in voi", Fratelli Bocca, Roma 1894, riedito da Publiprint e Manca,
Trento-Genova 1988, p. 50).
Proprio questo e' il "nocciolo della questione", come rileva Tonino Bello
(un vescovo un po' diverso da Biffi) su "Nigrizia" di settembre: "accogliere
o rifiutare il principio della nonviolenza attiva, e, conseguentemente,
accogliere o rifiutare il principio della difesa nonviolenta". L'idea
radicata (anche tra i cristiani) e' che contro la forza bruta non ci sia che
la forza bruta. Cosi' si giudica ingenuita', utopia pericolosa, ogni
discorso teso a delegittimare la violenza. Mentre invece - conclude Tonino
Bello - i cristiani dovrebbero "osare la pace per fede", come diceva
Bonhoeffer.
La pericolosa ingenuita' invece quella di quanti ancora credono che la
guerra serva a combattere il male, e cosi' la accettano come strumento di
giustizia terrena. A me pare invece tanto realistica quella saggia
conclusione di Kant: "La guerra e' un male perche' fa piu' malvagi di quanti
ne toglie di mezzoª (Per la pace perpetua, Primo supplemento). Cioe',
allarga il male. Altro che giustizia!
Ma, con logica nonviolenta, io voglio capire quanti pensano come Biffi.
Credo che abbiano un tragico e sofferto senso del male nel mondo. Da persone
religiose, pensano di mancare alla giustizia vindice di Dio, se rinunciano
del tutto alla guerra, anche di difesa, che cosi' ha delle ragioni "sante".
Cosi' si pensava anche della pena di morte. Su questo senso del male era
costruito il duro pensiero politico di Lutero. Eppure, questo sentimento e'
da rispettare: il male, infatti, deve essere tolto. Ma come? Persino nei
salmi troviamo preghiere che invocano vendette molto atroci sui malvagi. Ma
la risposta di Dio delude il pio indignato: egli si abbassa a farsi carico
del male del mondo, mette amore dove c'e' odio, ama i malvagi per salvarli,
ricambia il male col bene. Questo e' il cristianesimo, e deve pur
significare qualcosa nella vita pratica, malgrado la nostra debolezza.
L'errore dei cristiani come Biffi sta proprio nella soggezione all'idea che
il male sia utile contro il male. Sta nell'astrattezza, nel non vedere che
la guerra colpisce gli innocenti e non i potenti colpevoli, nell'ignorare le
esperienze storiche parziali ma sviluppabili di difesa non armata: ne
abbiamo visto prove efficaci recenti, nelle rivoluzioni dell'Europa
dell'est.
Essi hanno (per pigrizia) la stessa arcaica cultura della difesa che hanno i
militari (per difendere il mestiere), i politici in genere (per ignoranza),
i fabbricanti di armi (per criminale interesse); cultura superata non solo
dal Vangelo, dai nonviolenti, dalle chiese, ma anche un pochino dalla
legislazione, in cui comincia a comparire il principio della difesa non
armata.
La cultura nonviolenta, malgrado tutto, si fa strada, perche' e' realistica
e giusta.
Un giorno Tolstoj chiese ad un soldato che maltrattava un mendicante: "Hai
letto il Vangelo?". Il soldato gli rispose: "E tu hai letto il regolamento
militare?" (cfr. Lev Tolstoj, La mia fede, Mondadori, Milano 1988, pp.
43-44). Chi aveva ragione?

3. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: DUE FRAMMENTI
[Ringraziamo Enrico Peyretti per averci messo a disposizione i seguenti due
brani da un rilevante libro di Jean-Marie Muler la cui traduzione italiana
e' ancora inedita. Scrive Enrico Peyretti in una lettera che accompagna
questi due due brevi testi: "Propongo due brani, in una mia traduzione, dal
libro di Jean-Marie Muller, Le principe de non-violence. Un parcours
philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995, nel capitolo 4, "L'homme
non-violent face a' la mort" (il primo frammento e' estratto da p. 85, il
secondo da p. 87). Brani che mi sembrano di stretta attualita', utili per
riflettere sui fatti dei nostri giorni: i combattenti sui-omicidi, i
militari uccisi, le istanze nonviolente, la catena aggressione violenta -
difesa violenta - repressione violenta, l'ideologia della violenza che
distorce la valutazione dei mezzi umani. (I francesi scrivono "non-violence"
e "non-violent", col trattino, a differenza del migliore uso italiano,
raccomandato da Capitini, di scrivere il sostantivo e l'aggettivo in parola
unica, per sottolinearne il significato piu' positivo che negativo)".
Jean-Marie Muller e' nato nel 1939 a Vesoul in Francia, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle
alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento e fondatore
del  MAN (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Opere di Jean-Marie
Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo
della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza,
Movimento Nonviolento, Torino 1980; Metodi e momenti dell'azione
nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza,
Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1994; Le principe de non-violence. Parcours
philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995; Vincere la guerra, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1999. I titolo tra parentesi quadre premessi ai due
brani sono redazionali]

[Dell'uccidere e del morire]
Nella logica della violenza, accettare di morire per la buona causa e'
anzitutto voler uccidere per quella causa. Nella logica della nonviolenza,
si tratta ugualmente di accettare di morire per la buona causa, ma di morire
per non uccidere, perche' la volonta' di non uccidere precede la volonta' di
non morire, perche' la paura di uccidere e' piu' forte della paura di
morire.
La paura della morte diventa allora la paura della morte dell'altro. La
trascendenza dell'uomo e' questa possibilita' di preferire il morire per non
uccidere che l'uccidere per non morire, perche' la dignita' della propria
vita ha piu' valore ai propri occhi che non la propria vita stessa. Poiche'
da' senso alla vita dell'uomo, per questo il rischio della nonviolenza vale
realmente la pena: esso vale la pena di soffrire e, se si presenta il caso,
di morire.
*
[Il prisma deformante dell'ideologia della violenza]
La violenza e la nonviolenza sono guardate e giudicate attraverso il prisma
deformante dell'ideologia della violenza: noi mettiamo sul conto del
coraggio, dell'onore, dell'eroismo la morte di colui che e' ucciso in un
combattimento violento, mentre mettiamo sul conto dello scacco e
dell'inefficacia la morte di colui che muore in un combattimento
nonviolento.
Riteniamo, da una parte, che lo scacco della violenza non sia un argomento
che prova la sua inefficacia, ma pensiamo che provi piuttosto che la
vittoria esige piu' violenza; e, dall'altra parte, riteniamo che lo scacco
della  nonviolenza sia un argomento che prova la sua inefficacia e pensiamo
che provi che solo la violenza puo' permettere di ottenere la vittoria.

4. TESTIMONIANZE. GIULIANA SGRENA: L'ORDINE DEI MULLAH A SADR CITY
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 dicembre 2003. Giuliana Sgrena,
intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e'
tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e
islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra cui: a cura di,
La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma; Kahina contro i califfi,
Datanews, Roma; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma); e' stata
inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu'
ferocemente stragista della guerra tuttora in corso, ed e' nuovamente in
Iraq in questi giorni]

Traffico infernale, macchine che cercano di sbrogliarsi dagli ingorghi
salendo sui larghi marciapiedi quando non sono occupati dalle bancarelle che
formano un immenso mercato, coperto a tratti da stuoie da cui pendono le
pale dei ventilatori che non riescono ne' in estate a rendere sopportabile
la calura, ne' ora a scacciare gli sciami di mosche che si avventano sui
banchi di carne, di pesce e frutta. Mosche attratte anche dalle montagne di
rifiuti, che sovrastano le fogne a cielo aperto, tra cui pascolano greggi di
pecore e capre. Un formicolare di donne nascoste sotto le ampie "baya"
(specie di mantelli) nere, in netto contrasto con le immagini pubblicitarie
che campeggiano sugli edifici fatiscenti e che mostrano spose con abiti
bianchi di pizzo scollati (quelli che venivano prestati alle spose ai tempi
di Saddam), giovani vestiti all'occidentale e con gli occhi azzurri, per non
parlare dei muscolosi corpi da body building. Dai balconi delle case
sovraffollate pendono coperte e tappeti esposti al sole. Gli autobus sono
rari, prevale l'iniziativa privata dei taxi collettivi. Tutte le ampie
strade sono costeggiate da piccoli negozi: e' l'economia del bazaar.
Bandiere nere (lutto) e verdi (islamiche) sventolano un po' ovunque.
Siamo a Sadr city, gia' Saddam city e ancora prima al Thawra (rivoluzione,
il nome dato al quartiere da Abdel Karim Qassem che l'aveva fondato, alla
fine degli anni cinquanta, distribuendo la terra al popolo), definizione ora
resuscitata da chi non si riconosce nell'eredita' di Mohammed Sadeq al Sadr,
il leader sciita assassinato ai tempi di Saddam (1999). Ovunque ritratti dei
vari leader sciiti: oltre al vecchio al Sadr con la sua folta barba bianca,
quelli del figlio, il radicale Muqtada che ne rivendica l'eredita', e di
Mohammed Baqer al Hakim, leader del Consiglio supremo per la rivoluzione
islamica in Iraq (Sciri), assassinato in agosto davanti alla moschea di
Najaf. Questa e' una citta' sciita dentro Baghdad, 2 su 5 milioni di
abitanti, molti sono immigrati dal sud e altri dal Kurdistan. Un immenso
agglomerato reso esplosivo dai problemi sociali oltre che dalla repressione
di Saddam. Con l'occupazione i problemi sociali non sono certo stati
risolti - elettricita', acqua, benzina, etc. -, anzi la disoccupazione ha
raggiunto livelli senza precedenti, ma, paradossalmente, al Thawra ora e' la
zona piu' tranquilla della capitale che invece sta esplodendo. Paghi di
essere stati "liberati" da Saddam, gli abitanti sembrano aver messo nel
conto lo scotto da pagare, anche se lamentavano, durante il Ramadan, che
l'elettricita' veniva loro tagliata proprio all'ora dei futur e del sohur,
la cena e la colazione che seguono e precedono il digiuno.
Comunque anche al Thawra e' sotto occupazione. "Occupazione? Era Saddam che
ci aveva occupato", risponde convinto un giovane, "ora siamo liberi di
andare alla moschea e anche a Kerbala e Najaf (i luoghi santi sciiti)". E
per l'imam kurdo-sunnita, sheikh Ali Mohammed, gli americani e' meglio che
restino finche' non ci sara' un nuovo governo. Lui non ha mai avuto problemi
in venticinque anni di lavoro, ne' con Saddam - probabilmente perche'
sunnita - ne' dopo, anche la collaborazione con gli sciiti e' buona. Tutto
tranquillo, dunque, qui non ci sono segni di resistenza e le truppe
americane vengono solo per pattugliamenti e i posti di blocco.
La prima postazione che incontriamo e' destinata alla protezione della sede
del Consiglio comunale, quello nominato dagli americani, perche' poi i
religiosi ne hanno creato un altro. Protezione a dir poco ambigua se l'11
novembre scorso e' costata la vita al "sindaco", Muhannad Ghazi al Kaabi,
che si era rifiutato di far perquisire la sua macchina dai soldati Usa, in
quanto autorita', e per lo piu' nominata dagli americani. L'incredibile
"incidente" tuttavia non ha provocato nessuna reazione nel quartiere: e'
stato liquidato come una questione tra "americani". Girato l'angolo,
incontriamo un posto di blocco, gli americani perquisiscono tutte le
macchine. La gente di passaggio sosta distratta sul marciapiede di fronte,
qualcuno si lamenta per l'atteggiamento degli americani, gli altri
continuano il lavoro o la preghiera. Come Kadum, 41 anni, 5 figli,
proprietario di uno dei tanti negozietti aperti sulla strada. Vende Cd
religiosi, ma solo quelli dedicati alla famiglia al Sadr, le cui immagini
tappezzano il piccolo bugigattolo. Finita la preghiera, Kadum ci fa passare
nel retro del negozio, ancora piu' tetro, grazie ad un piccolo generatore
accende un computer e orgoglioso ci mostra la registrazione dell'ultima
intervista fatta da una tv giapponese al suo leader, Muqtada al Sadr. Il
fanatico leader islamista che, dopo una sosta in agosto a Sadr city quando
arringava le folle contro gli americani, e' tornato a Najaf, la citta' santa
dove risiedono tutti i leader sciiti. Nonostante il solito sguardo torvo ora
si mostra molto conciliante. Perche' non lancia il jihad (guerra santa)
contro gli americani? "Non posso ordinare il jihad, sono un semplice
cittadino, non sono un ayatollah. Sono contro l'invasione americana ma in
modo pacifico". E allora perche' ha costituito il Jaish al Mahdi (l'esercito
di al Mahdi, dal nome del dodicesimo imam sciita, scomparso ma di cui
aspettano il ritorno)? "Per proteggere le moschee, i religiosi, i marja
(leader religiosi sciiti, ndr) e aiutare la polizia", risponde.
*
L'esercito di Muqtada
All'inizio Muqtada aveva mire molto piu' ambiziose per il suo "esercito", ma
poi ad indurlo a piu' miti consigli sarebbero state le forti pressioni degli
americani che lo avrebbero anche minacciato di accusarlo dell'assassinio di
Abdel Majid al Khoi, l'imam figlio del famoso ayatollah Abu'l Qasem, che
aveva guidato la rivolta sciita del 1991 e che era rientrato in Iraq, dopo
un esilio a Londra, lo scorso aprile al seguito degli americani, ma subito
dopo era stato accoltellato a morte nella moschea di Najaf. Quella di
Muqtada e' solo un parte della verita'. I volontari del Jaish al Mahdi
rivendicano di controllare al Thawra, che e' stata divisa per settori, in
collaborazione o in suddivisione con le brigate al Badr, le milizie
dell'altra organizzazione islamista sciita, lo Sciri.
"Siamo tutti volontari e le armi sono le nostre, quelle che avevamo in casa,
siamo noi a garantire la sicurezza", sostiene Kadum. E non sempre e' andato
tutto liscio. La situazione era sembrata precipitare anche qui, dopo la
notte del 9 ottobre, quando erano rimasti uccisi due iracheni e due
americani. Inoltre, attraverso le immagini registrate dalle notizie diffuse
dalla tv satellitari del Golfo - di cui ha un vero archivio -, Kadum ci
mostra le manifestazioni per chiedere il rilascio dell'imam Moahiyat al
Khasraji, arrestato due mesi fa. Ma soprattutto ci racconta di quando, il 17
novembre, i soldati americani avevano aperto il fuoco nel mercato
rispondendo, secondo loro, allo sparo di uno degli avventori. Le agenzie
allora avevano parlato di tre iracheni morti e almeno quattro feriti.
Secondo Kadum il bilancio e' stato molto piu' pesante: 14 morti e una
trentina di feriti. "Molti dei feriti sono morti perche' gli americani hanno
impedito che venissero portati all'ospedale", aggiunge.
Nonostante questi momenti di grande tensione, Muqtada finora ha tenuto a
freno i suoi miliziani.
Uno dei capi di Jaish al Mahdi per Rasafa (la parte orientale di Baghdad) e'
Sayed Hassan al Naji al Mussawi, imam della moschea al Mohsen, da dove il
venerdi' si puo' tastare il polso della tensione sciita. L'imam, un uomo
alto dalla lunga e folta barba bianca, ci rivece nella penombra della sua
casa - manca l'elettricita', tanto per cambiare - e ci conferma la linea
"pacifica" indicata da Muqtada. Ma intanto c'e' chi fa la resistenza agli
americani... "Quale resistenza, non si tratta di patrioti ma solo di coloro
che vogliono difendere i vantaggi che avevano con Saddam. Non sono ben
organizzati, non sono come gli Hezbollah (libanesi, ndr), altrimenti li
sosterrei". Ma allora a che serve una milizia, il Jaish al Mahdi? "Per
motivi religiosi". Una polizia religiosa per imporre ai fedeli i
comportamenti da seguire, una sorta di guardiani per la promozione della
virtu' e la prevenzione del vizio? Un "volontario" presente risponde di si'
con entusiasmo, ma il Sayed (discendente del profeta) lo corregge: "non per
obbligare, ma per indurre la gente a seguire la retta via", una presenza
necessaria tanto piu' se non verra' proclamata la repubblica islamica,
aggiunge. E l'imam dubita che possa essere fatta questa scelta: "sono troppe
le pressioni interne ed esterne che lo impediranno". In un paese dove gli
sciiti sono il 60 per cento, e a parte circa il 5 per cento di cristiani, i
restanti sono sunniti, non e' facile immaginare una conciliazione tra chi fa
riferimento a Tehran (sciiti) e chi all'Arabia Saudita (sunniti). "Se si
proclamasse una repubblica islamica scoppierebbe una guerra civile",
sostiene qualcuno.
*
E le brigate di al Hakim
Se Muqtada gode dell'appoggio di circa il 60 per cento della popolazione di
Sadr city, il restante 40 invece si schiera a favore dello Sciri (Consiglio
supremo per la rivoluzione islamica in Iraq) di Abdelaziz al Hakim. Una
grande villa, gia' sede del partito Baath, all'entrata del quartiere, e' ora
occupata dalle milizie dello Sciri, le brigate al Badr, guidate dal
"generale" Mohammad al Hassan, che insieme al Jaish al Mahdi si spartiscono
il controllo di al Thawra (lo Sciri si rifiuta di chiamare il quartiere con
il nome dell'imam venerato dai rivali). Il "generale", scomodo nei suoi
abiti civili, ci riceve al primo piano della villa dove sono ancora evidenti
i segni dei saccheggi. Tutt'intorno uomini armati e sui manifesti appare
anche l'ayatollah assassinato, Mohammed Baqer al Hakim, in divisa militare
quando in Iran visitava le sue brigate. Che sarebbero rientrate con lui in
Iraq dopo la caduta di Saddam ma, dicono, senza armi, "ora ci occupiamo di
proteggere le istituzioni e di aiutare i poveri moralmente, prima eravamo
una legione ora siamo una organizzazione politica". Le armi le avete
consegnate agli americani? "No, le abbiamo regalate ad amici, io ai
peshmerga kurdi, perche' ultimamente ero in Kurdistan", risponde al Hassan.
Comunque ora qualche centinaio di miliziani entreranno a far parte della
forza paramilitare creata dagli americani per combattere la guerriglia. E il
"generale" si vanta: "Se il problema della sicurezza fosse affidato a noi lo
risolveremmo in dieci giorni". Come? "Ci sono due modi per mantenere la
sicurezza: gli Usa applicano una difesa negativa e sbagliano, noi
adotteremmo una difesa positiva: attaccando i terroristi grazie alle
informazioni che possiamo ottenere dalla gente potremmo porre fine alle
organizzazioni terroristiche".
A Sadr city si respira voglia di resistenza frustrata. Finora gli sciiti
hanno approfittato dei vuoti lasciati dall'assenza di istituzioni per
imporre il loro contropotere religioso, che metteranno in campo appena si
presentera' l'occasione. E non tutto dipende solo da loro, a Sadr city,
insieme alle brigate al Badr, sono arrivati anche pasdaran iraniani.

5. RIFLESSIONE. ANGELA GIUFFRIDA: UN'ALTRA FILOSOFIA E' POSSIBILE. E
NECESSARIA
[Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43 at inwind.it) per questo
intervento che sviluppa la riflessione proposta dall'intervento di Daria
Dibitonto apparso sul n. 745 di questo foglio.
Angela Giuffrida e' docente di filosofia ed acuta saggista; tra le sue
pubblicazioni: Il corpo pensa, Prospettiva edizioni, Roma 2002.
Daria Dibitonto, dottoranda in filosofia con una tesi sul desiderio nel
pensiero di Ernst Bloch, si e' laureata nel 2001 in filosofia con una tesi
sul fondamento della speranza reale nel pensiero di Juergen Moltmann. E' tra
i soci fondatori di "Incontri e percorsi - associazione multietnica
vercellese"; ha compiuto soggiorni di studio e ricerca in Germania, a Kiel,
Berlino e Tuebingen; collabora con la redazione della rivista "Filosofia e
teologia"]

Alla domanda: e' la filosofia una cattiva maestra? Bisogna, secondo me,
rispondere: non la filosofia, ma "questa filosofia" e' sicuramente una
cattiva maestra.
Daria Dibitonto scorge il conflitto all'interno della filosofia,
attribuendolo proprio alla sua essenza, dato che, essendo amore per il
sapere, la filosofia "si nutre della stessa tensione che alimenta l'amore:
l'aspirazione all'unione di cio' che e' diviso, all'unita' di cio' che e'
molteplice, all'eternita' di cio' che e' temporale... Quest'aspirazione...
si espone pero' al rischio del tradimento" perche' "l'amore, che aspira
all'unione assoluta, porta a tradire sia l'amato, che l'amore vorrebbe
trasformare da molteplice in uno, sia l'amore stesso, poiche' l'unione
assoluta, una volta raggiunta, impedirebbe di continuare ad amare".
Ma possiamo chiamare ragionevolmente filosofia la ricerca di "quella
conoscenza che, una volta raggiunta... porterebbe (la filosofia)
all'annullamento di se', negandole la possibilita' di cercare ancora"? E
poi, ama davvero il sapere chi "ricerca la conoscenza come quel che di
stabile ed eterno si lascia leggere attraverso il divenire del reale"? Ma
soprattutto, in un mondo in divenire, caratterizzato dal movimento continuo,
questo si puo' definire sapere? L'inclinazione a trasformare il finito e il
mondo in cio' che semplicemente non e', cioe' l'infinito e l'eterno, non e'
forse causa di quella trasformazione della vita in teoria che ha portato la
specie alle soglie del puro nulla, come Nietzsche ha intuito e descritto
cosi' bene?
"Puro" e "assoluto" sono concetti che hanno ben poco a che fare con noi
umani, dato che nessuna conoscenza e' totalmente sciolta dall'esperienza,
neanche la pia' astratta. Una ragione che si percepisce come "pura", che e'
portata ad assolutizzare le conoscenze, fissando i propri giudizi in verita'
definite una volta per tutte, e', percio', una ragione impossibilitata a
rendere conto dell'umano in particolare e piu' in generale del vivente,
essendosi preclusa la possibilita' di conoscerli.
*
A me pare che occorra un'altra filosofia, una filosofia nuova, risultante da
una mente capace di connettere il molteplice senza farlo svanire in una
impossibile unita', da un atteggiamento maturo, capace di assimilare
l'eternita' alla trasformazione continua, senza voler fissare l'attimo in un
eterno presente, dalla propensione a mantenere flessibili gli schemi di
riferimento, cambiandoli di volta in volta per non pietrificare il reale,
nella pretesa che si adatti ai nostri parametri.
Comprendere meglio il mondo si puo' solo se si esce dal campo della mera
astrazione, ma nell'astrazione si resta se si continua a percepirlo
dualisticamente, ne' risolve il problema la mediazione dialettica che
"salva" la scissione iniziale.
Nella fattispecie la proposta mediazione tra teoria e prassi non puo'
generare una filosofia "aperta", testimone di pace, fin tanto che non si
comprendera' appieno l'inestricabilita' dei due termini; infatti, il
problema non e' che "una teoria razionalmente pura non puo' rimanere vera se
non accetta di mettersi in discussione nella prassi", ma che una teoria
"pura", senza qualche elemento di esperienza, semplicemente non esiste,
cosi' come nessuna prassi e' possibile senza qualche, sia pure elementare
conoscenza.
Come si vede, per "reimpostare i termini della questione" bisogna usare
altre categorie interpretative.

6. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: LA POLITICA E L'ANTIPOLITICA
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: giulio.vittorangeli at tin.it)
per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali
collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre
1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e
alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una
lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il
responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso
numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in
rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche
un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento,
riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la
solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita'
pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti
di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni;
tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati
gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e
le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di
innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio
1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica
desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita'
umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione,
Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da
soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa
Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica,
Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali,
Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca
della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta'
internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente
insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di
politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale
viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997).
Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"]

Sappiamo che la vera risposta al terrorismo ed alla guerra puo' e deve
essere quella della politica.
Chiariamo subito che quanto parliamo di politica, non ci riferiamo solo alle
istituzioni od ai partiti politici (l'errore frequente e' quello di leggere
il termine "politico" per "partitico"), ma al fondamento della convivenza
civile: la "polis", la citta' greca (prima forma di stato nel nostro mondo
occidentale), in cui tutti quando si debba deliberare sugli affari dello
Stato si levano a dire la loro opinione, a dare il loro consiglio, a
esprimere il proprio giudizio: "un architetto, un fabbro, un calzolaio, un
commerciante, un marinaio, un ricco, un povero, chi e' nobile di nascita, e
chi non lo e', e nessuno muove loro rimproveri" (Platone, Protagora).
Una definizione che torni a comprendere il fare societa'; intesa come senso
comune di partecipazione: una comune idea e una comune pratica dello stare
in societa', per cambiarla. E naturalmente non ci riferiamo a chi esprime
valori, idee e proposte che, dal nostro punto di vista, giudichiamo
inquietanti. La realta' e' preoccupante, perche' ha visto l'affermarsi di
una "cultura" fatta di populismo, egoismo sociale e richiamo all'ordine: una
miscela che, sia pure non senza alcune vistose contraddizioni, ben
rappresenta il liberismo illiberale del nostro tempo.
Intanto la politica e' in crisi, e l'aspetto piu' evidente e' quello della
forma partito, su questo si e' aperta da anni una discussione approfondita
ma che trova non poche difficolta' nel dare risposta a una crisi che e'
prima di tutto di identita' culturale e politica, di finalita', di
prospettive strategiche.
*
Per molti la crisi dei partiti del Novecento e' la crisi della lotta
anticapitalista. Crisi della rappresentanza: tutte le persone che si sono
astenute e si astengono nelle elezioni, anche se con motivazioni diverse
(dal qualunquismo al disagio per la politica), mandano un messaggio chiaro:
non si riconoscono in questi partiti o nelle loro scelte; documentano di un
paese gia' abbastanza sfiduciato sulla serieta' della politica. Questa
disaffezione nasce anche dalla sensazione che la vera politica si faccia
altrove, la' dove non si arriva a vedere, la' dove operano i poteri
invisibili e forti, tanto piu' forti quanto piu' invisibili.
Il divario tra la politica delle "parole" (classe politica, parlamenti,
governi...) e politica dei "fatti" (banchieri, industriali, mercati
internazionali...) e' da tempo evidente, testimoniato dallo stravolgimento
della funzione dello stato nazionale. Quello attuale non redistribuisce piu'
la ricchezza, non e' piu' garante dei patti sociali, l'unica sua funzione e'
quella di fare da garante del buon funzionamento dei mercati.
Inevitabilmente l'impotenza produce rassegnazione, apatia, rigetto,
solitudine, (l'individualismo che e' il primo nemico della democrazia)
dentro la societa'; da qui il riemergere in forme sempre piu' rozze
dell'antipolitica.
Ad un livello ancora piu' interessante, il filosofo della politica Mario
Tronti ha indicato nel passaggio "dalle masse alla massa", cioe' dalle masse
politicamente organizzate alla massa indistinta del tardo capitalismo
democratico, uno dei sintomi della crisi della politica.
Ma anche associazioni, movimenti, circoli, pezzi di sindacati, sono o si
sentono senza rappresentanza nel mondo della politica ufficiale. Con questo,
non vogliamo contrapporre la cosiddetta societa' civile alla politica (la
societa' civile come luogo del bene, dell'onesta' e della solidarieta', e la
politica come luogo del male, della corruzione e dell'opportunismo); anche
perche' i movimenti non possono non porsi il problema della democrazia e
della partecipazione. La democrazia e' qualche cosa di piu' delle elezioni;
e' partecipazione a tutti i livelli della vita economica, politica e
culturale. Non puo' non preoccupare il fatto che sia in atto proprio la
liquidazione della democrazia nel senso di partecipazione reale dei
cittadini agli affari pubblici.
*
Il problema di questa crisi, a nostro modestissimo parere, nasce da come la
politica ha risposto alla vera sfida del nostro presente: quella della
globalizzazione.
Ed all'interno della politica, ci riferiamo alla sinistra (anche se sarebbe
piu' esatto usare il termine plurale "le sinistre"), perche' era orientata a
guardare il mondo dal punto di vista degli esclusi, a prendere a inizio del
proprio operare i punti bassi della societa'.
C'e' stato uno smarrimento della sinistra, negli ultimi anni, reso evidente
dalla perdita della sua tradizionale attenzione ai grandi temi
internazionali, con un capovolgimento ed oscuramento del proprio punto di
vista ed una accettazione del peggior cinismo occidentale: "Perche' mai
l'Occidente, il mondo ricco, dovrebbe farsi carico del mondo povero? Queste
grandi moltitudini piagate, che popolano interi continenti, non
costituiscono per noi alcun pericolo". Forse non era cosi' quando le
rivoluzioni dell'ultimo secolo avevano un effetto trainante e parevano
offrire una prospettiva. Ma non c'e' nulla di simile oggi sotto il cielo. Ed
e' assurdo pensare che i milioni di africani che muoiono di aids, di
siccita' o di guerre intestine o commissionate, o i bambini delle
baraccopoli latinoamericane o asiatiche che vivono e muoiono di stenti
biblici, possano crescere come soggetti rivoluzionari o semplicemente
crescere.
Un miliardo di benestanti europei o americani obesi, ma anche di possidenti
cinesi o trafficanti brasiliani possono fronteggiare senza rischio cinque o
anche dieci miliardi di reietti per diecimila anni. No, il mondo appagato
non ha nessun motivo di preoccuparsi del mondo derelitto.
*
Crediamo che la piu' grave sconfitta della sinistra di governo, italiana ed
europea, e' stata quella di arrendersi alla guerra.
Ma non sono sconfitte minori l'abbandono di ogni critica sociale; il
progressivo cedimento alle politiche neoliberistiche; l'ossequio formale
all'ecologia senza alcuna scelta economica di fondo; una idea della politica
come manovra tattica, della democrazia come pura delega, della giustizia
come merce di scambio.

7. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: SUL PROBLEMA DELLE REGOLE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 dicembre 2003. Luisa Muraro insegna
all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di
"Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la
seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei
sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza),
in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita'
Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una
carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare
nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia
dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba
Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista
dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al
femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della
differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva:
La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981,
ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La
Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti,
Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla
nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria
delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via
Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima
(1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero
della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della
maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel
1997"]

"E il tranviere resto' solo" e' il titolo de "Il manifesto" di martedi'. No:
per il poco che vale la mia compagnia, il tranviere non e' solo, io capisco
le sue ragioni e sono dalla sua parte e siccome non sono una marziana,
immagino che ci sia altra gente che la pensa come me. Anzi, ho trovato
persone che mi hanno risposto: ma si', in effetti...
Lunedi' mi sono fatta chilometri di strada con la pioggia, l'ombrello, la
borsa pesante, per non parlare dei 60 e passa anni, ho condiviso cioe' il
disagio degli utenti milanesi, i piu' penalizzati forse, e senza forse,
dallo sciopero di lunedi'. So bene che per molti il disagio, accresciuto
dall'imprevisto di uno sciopero anticipato di tre ore, ha rasentato la
disperazione. Non condivido la loro rabbia ma la giustifico pienamente.
Quello che non giustifico e' l'indignazione sul mancato rispetto delle
regole. Quelli che comandano e governano, ci stanno dando l'esempio di
rispetto delle regole? Che cosa e' successo a quelli che hanno truffato e
corrotto? Che hanno esportato capitali? Che hanno violato l'articolo 11
della Costituzione? Se e' vero che viviamo in un "sistema" che, per
funzionare, esige l'impunita' di coloro che si trovano ai vertici del potere
politico, perche' mai il rispetto delle regole dovrebbe essere profittevole
agli altri? E in verita', non lo e', come dimostra la stessa vertenza degli
autoferrotramvieri.
Con la loro trasgressione i dipendenti dell'azienda milanese non hanno
risolto il loro problema e forse lo hanno aggravato, ma possiamo veramente
continuare ad andare avanti con questa specie di doppia morale che assicura
l'impunita' ai potenti e penalizza gli altri? Per me quei dipendenti (ai
quali auguro con tutto il cuore di non pagare in prima persona per la loro
rivolta) hanno aperto la strada a un necessario ripensamento sul problema
delle regole. E li ringrazio.

8. RIFLESSIONE. AMELIA CRISANTINO: LA LINEA DI CONFINE
[Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di
Palermo (per contatti: e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it)
riprendiamo questo intervento gia' pubblicato sull'edizione palermitana de
"La Repubblica" il 2 marzo 2002. Amelia Crisantino e' una prestigiosa
studiosa e militante antimafia, collaboratrice del Centro Impastato di
Palermo. Tra le opere di Amelia Crisantino: (con Giovanni La Fiura), La
mafia come metodo e come sistema, Pellegrini, Cosenza 1989; La citta'
spugna, Centro Impastato, Palermo 1990; Cercando Palermo, La Luna, Palermo;
Ho trovato l'Occidente. Storie di donne immigrate a Palermo, La Luna,
Palermo 1992; Capire la mafia, La Luna, Palermo 1994; Della segreta e
operosa associazione, Sellerio, Palermo 2000]

Cos'e' un confine? Poco piu' che una formalita' nell'Europa dell'euro o
simbolo insanguinato in tante parti del mondo, il confine segna
un'appartenenza. Fisica ma soprattutto ideale, di radici che affondano in un
humus comune e ci si capisce al volo. Cosi', sullo scenario dell'economia
globale, le comunita' virtuali degli scacchisti, dei coltivatori d'orchidee,
dei suonatori di clavicembalo o dei tifosi della Roma creano nuovi territori
d'appartenenza simbolica, le cui linee di confine attraversano ogni
componente.
Le comunita' virtuali sono immateriali, come dire il trionfo dello spirito
sulla mera fisicita' dei corpi. Si puo' appartenere a piu' comunita',
perche' suonare il violoncello non ostacola l'amore per i romanzi inglesi o
la cucina francese, ne' tifare per la Roma impedisce che ci si appassioni al
canottaggio. Ci sono pero' delle esclusivita', per cui sarebbe considerato
con sommo sospetto chi, ben inserito nella comunita' dei romanisti, fosse
visto bazzicare nei pressi della rivale comunita' laziale. Quasi lo stesso
sospetto che una banda di ladri riserverebbe a chi fra loro diventasse amico
d'uno "sbirro" integerrimo, che' subito lo sospetterebbero d'aver fatto
l'"infame" a danno loro e degli amici. In questo caso rientriamo fra le
incompatibilita': i confini seguono linee che servono a creare separazioni
ed erigere barriere, lo spartiacque crea mondi non comunicanti. Dove i
codici che veicolano le comunicazioni rimandano a un comune sentire, che
mentre affratella esclude il mondo esterno.
In Sicilia la classe politica al potere s'e' spesso trovata a praticare una
sua vocazione bordeline e, come se niente fosse e accampando il comune
sentire, a coltivare duraturi rapporti di scambio con esponenti di un mondo
da cui uno di quei confini invisibili ma non per questo meno tenaci
dovrebbero separarla. All'indomani dell'Unita' d'Italia era gia' cosi', i
"conniventi di civil ceto" rappresentavano lo Stato nelle occasioni
ufficiali e provvedevano a svuotarlo dei suoi contenuti liberali nella
pratica quotidiana, trasformando ogni minimo diritto in favore elargito.
Resta la riflessione che anche la decenza ha le sue leggi. E, al di la'
degli accertamenti giudiziari e delle ipotesi di reato, l'allontanamento di
personaggi che risultano avere un'ambigua confidenza con ambienti in odor di
mafia dovrebbe essere doveroso per una coalizione al governo. Specie quando
c'e' il rischio che tali personaggi possano coincidere con i pubblici
amministratori. Ma pare che si tratti d'una scelta difficile e dolorosa, e
in Sicilia non s'e' mai fatta. A cominciare da quando il barone Turrisi
Colonna dava ospitalita' ai banditi nelle sue masserie e al contempo,
protagonista d'un conflitto d'interessi in sedicesimo, nella duplice veste
di uomo politico e padrone del giornale "Il Precursore" tuonava indignato
contro l'inefficienza dello Stato, per finire agli andreottiani di Sicilia e
ai tanti squallidi personaggi che hanno popolato le cronache, sempre s'e'
fatto il contrario. La poca partecipazione e il latitante senso civico sono
stati amorosamente coltivati da una classe politica che trovava nella
poverta' e nell'ignoranza dell'elettorato le condizioni essenziali per la
propria sopravvivenza. E non si tratta di chissa' quando.
All'inizio degli anni '80 la sociologa americana Judith Chubb condusse uno
studio su clientelismo, potere e poverta' nel sud dell'Italia: studio' la
genesi del potere democristiano a Palermo, ne analizzo' le basi sociali.
L'intreccio fra pubblica amministrazione, classe media improduttiva in buona
parte coincidente con la burocrazia regionale, mafia e sottoproletariato
apparve inestricabile. I soggetti piu' deboli erano l'anello finale delle
catene clientelari, utilizzate dal partito al governo per mantenere ed
esaltare condizioni di sottosviluppo che in ultima analisi s'identificavano
col suo mantenimento del potere. Perche' in questo quadro solo lo sviluppo
puo' far saltare gli equilibri, solo la consapevolezza puo' mandare all'aria
i giochi. L'accorta distribuzione di favori, licenze, sovvenzioni, impieghi
e pensioni serviva a mantenere costanti le percentuali del consenso. Era
ininfluente che le risorse da distribuire fossero poche, che non bastassero
a soddisfare tutte le richieste. L'importante era controllare i flussi,
avere la capacita' di chiudere o parzialmente aprire i rubinetti della spesa
pubblica e diffondere la certezza che, se dentro il meccanismo clientelare
le speranze d'ottenere un beneficio potevano sembrare poche, fuori non ne
restava nessuna. Il partito gestiva al contempo l'amministrazione del
consenso e il mantenimento del sottosviluppo: la mafia sembrava uno
strumento come un altro, solo piu' efficace.
Nel nostro mondo accelerato gli anni trascorsi dall'analisi di Judith Chubb
sono molti eppure, cosi' come nella moda torna lo stile dei decenni
trascorsi, in politica ridiventa visibile ed esibito il fare arrogante di
chi sente d'avere dalla sua parte il consenso popolare e lo mantiene vivo
esaltando quanto di piu' retrivo ci possa essere nel suo elettorato. In
Sicilia fa parte del linguaggio comune dire "sbirro" e "infame"? Ma comune a
chi?
Spetta agli organi competenti giudicare in quali casi viene superaro il
limite fra l'essere simpatizzante e l'essere colpevole, alla coalizione il
designare un gruppo di studio per ritrovare gli smarriti confini della
decenza.

9. RIFLESSIONE. MARINA FORTI: LA SECONDA GENERAZIONE DI BHOPAL
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 dicembre 2003. Marina Forti,
giornalista, particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti
umani, del sud del mondo, della globalizzazione, e' un'esperta di questioni
ecologiche globali]

Era la notte del 3 dicembre 1984 quando uno stabilimento chimico esplose
nella citta' di Bhopal, in India, rilasciando tonnellate di un gas letale,
isocianato di metile.
Bhopal e' una grande citta' e i dintorni della fabbrica della Union Carbide,
azienda multinazionale ormai assorbita da Dow Chemical, erano (e sono) una
successione di quartieri molto modesti e slum: la notte dell'incidente quasi
duemila persone sono morte proprio in quei poverissimi quartieri.
Ma non era finita: oltre centomila persone sono rimaste direttamente ferite
dal gas, e ventimila sono morte negli anni successivi per varie malattie
legate all'intossicazione.
Diciannove anni dopo, la strage della Union Carbide e' stata ricordata a
Bhopal con una veglia durata tutta la notte e con manifestazioni in numerose
altre citta', in India e nel mondo - ne da' conto il sito bhopal.net.
Cio' che molti a Bhopal hanno voluto sottolineare e' che giustizia, su
quella strage, non e' stata fatta. Certo, Union Carbide ha riconosciuto la
sua "responsabilita' morale" per il disastro: con un accordo
extragiudiziario nel 1989 ha versato 470 milioni di dollari di risarcimento
alle vittime e loro famiglie, e con questo ritiene estinta la sua
responsabilita' penale. Quella "una tantum", ripartita tra il mezzo milione
di persone che aveva presentato una domanda all'epoca dell'accordo, lascia i
costi dell'assistenza sanitaria e della riabilitazione sociale ed economica
delle vittime a carico del governo indiano e dello stato del Madhya Pradesh,
di cui Bhopal e' la capitale. Negli ultimi anni un gruppo di sopravvissuti
ha tentato di riportare l'azienda in tribunale, questa volta negli Stati
Uniti: la causa e' stata respinta con la motivazione che Union Carbide ha
bonificato il sito industriale, esaurendo cosi' le sue responsabilita'.
Responsabilita' esaurite? Non certo per le famiglie dei sopravvissuti, che
hanno avuto nel migliore dei casi quattro soldi di risarcimento.
Ma c'e' di piu'. Una scheda compilata da Dow Chemical (Bhopal factsheet)
afferma, senza tema di ridicolo, che la "massiccia, singola esposizione
all'isocianato di metile non ha causato tumori, difetti alla nascita o altre
manifestazioni ritardate di effetti medici". La realta' e' ben diversa.
Il "Journal of the American Medical Association" ha pubblicato l'8 ottobre
uno studio condotto da un'istituzione medica indiana, la Sambhavna Trust
Clinic, che mostra la prevalenza di ritardi della crescita in bambini
concepiti e nati dopo il disastro da genitori che furono esposti ai gas. La
Sambhavna Trust Clinic assiste molta della popolazione sopravvissuta al
disastro.
Il ricercatore Nishant Ranjan, autore del primo rapporto, osserva 141
adolescenti nati tra il gennaio 1982 e il dicembre 1986, due anni prima e
due dopo il disastro. Ne registra peso corporeo, altezza, altezza da seduti,
arti, circonferenza della testa, tricipite. Confronta questi dati tra
bambini di simile status socioeconomico nati da genitori esposti e non al
gas. Risulta che i bambini (maschi) nati da genitori esposti sono piu'
leggeri, bassi, magri, e hanno la parte alta del corpo e la testa
sproporzionatamente piccola. Le foto che corredano la ricerca sono
impressionanti. Il medico Mohammed Ali Qaiser, coautore del rapporto
pubblicato dalla rivista americana, fa notare che questo ritardo selettivo
della crescita e' stupefacente. Fa notare anche che uno dei prodotti del
decadimento dell'isocianato di metile e' la trimetilamina, e uno studio
canadese ha mostrato che questa causa il ritardo della crescita nella
progenie maschile dei topi. I bambini di Bhopal dimostrarebbero che questo
vale anche per gli umani...
Il direttore della clinica Sambhavna, Satinath Sarangi, si chiede perche'
non ci sia stata nessuna ricerca sistematica sugli effetti a lungo termine
della tragedia di Bhopal: lo studio avviato dall'Indian Council of Medical
Research fu interrotto tempo fa e nessun risultato dei dieci anni di
ricerche condotte e' stato mai pubblicato. E' chiaro che la ricerca
pubblicata dalla rivista medica americana riapre anche la questione delle
responsabilita' e dei risarcimenti: c'e' una seconda generazione di vittime
di Bhopal che chiede giustizia.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: luciano.benini at tin.it,
angelaebeppe at libero.it, mir at peacelink.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
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Numero 751 del 6 dicembre 2003