La nonviolenza e' in cammino. 687



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 687 del 28 settembre 2003

Sommario di questo numero:
1. In memoria di Franco Modigliani
2. Edward Said: una finestra sul mondo
3. Nanni Salio: quale Europa per la pace? (sulla proposta di Lidia Menapace)
4. Lidia Menapace: far camminare l'idea
5. Maria G. Di Rienzo: con chi parliamo oggi? alcune tipologie
6. Stefania Giorgi: sotto la giacca
7. Lidia Menapace: occorre recidere le radici culturali della violenza
8. Unip: undicesimo corso internazionale su "La globalizzazione della
violenza e l'identificazione di alternative nonviolente"
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. LUTTI. IN MEMORIA DI FRANCO MODIGLIANI
Ci mancheranno le sue rampogne, ci manchera' la sua generosita', resta -
grande, immensa - la sua lezione di vita e di pensiero.
Non era solo un grande economista, con le cui proposte contingenti si poteva
anche essere in disaccordo (e noi piu' volte lo siamo stati) ma la cui
dottrina e la cui dirittura erano indiscutibili; non era solo un
intellettuale che sapeva pensare con chiarezza e parlare con chiarezza,
anche in faccia ai potenti e contro di essi.
Perseguitato dal fascismo, uomo ad un tempo del vecchio e del nuovo mondo,
premio Nobel, erede e figura di un'umanita' migliore, piu' cosciente, piu'
critica, piu' solidale.
Fermo oppositore del liberismo che tutto divora e travolge; fermo oppositore
del totaliarismo che tutto riduce a bolo e deiezione; fermo oppostore della
cialtronaggine che degrada e infine annienta le istituzioni democratiche e
la civile convivenza.
Non era solo un grande economista, era un uomo onesto e valoroso.

2. MAESTRI. EDWARD SAID: UNA FINESTRA SUL MONDO
[Dal sito della pregevole rivista "Internazionale" (www.internazionale.it)
riprendiamo questo testo scritto recentemente da Edward Said come nuova
introduzione al suo classico libro Orientalismo (e che e' stato pubblicato
come articolo su "Internazionale" n. 503 del 28 agosto 2003). Edward Said,
prestigioso intellettuale democratico palestinese, uno dei piu' grandi
umanisti del secondo Novecento, era nato a Gerusalemme nel 1935, docente di
letteratura comparate alla Columbia University di New York, a New York e'
deceduto il 25 settembre 2003. Autore di molti libri, tradotti in 26 lingue,
tra le opere di Edward W. Said segnaliamo: Orientalismo, Bollati
Boringhieri, Torino, poi Feltrinelli, Milano; La questione palestinese,
Gamberetti, Roma; Cultura e imperialismo, Gamberetti, Roma; Tra guerra e
pace, e Dire la verita', ambedue presso Feltrinelli, Milano; cfr. anche le
raccolte di articoli La convivenza necessaria, Indice internazionale, Roma;
Fine del processo di pace, Feltrinelli, Milano; e' stata recentemente
pubblicata in italiano la sua autobiografia, Sempre nel posto sbagliato,
Feltrinelli, Milano]
Nove anni fa, nella primavera del 1994, ho scritto una postfazione a
Orientalismo in cui tentavo di chiarire quello che pensavo di aver detto e
non detto nel mio libro. In quella postfazione sottolineavo non soltanto i
molti dibattiti che si sono aperti a partire dal 1978, anno della prima
edizione del saggio, ma anche gli errori d'interpretazione sempre piu'
frequenti a cui si prestava quell'opera sulle rappresentazioni correnti
dell'"Oriente".
Il fatto che io oggi reagisca a queste interpretazioni con piu' ironia che
irritazione rivela chiaramente fino a che punto sto cedendo allíincalzare
dell'eta'. La recente scomparsa di due miei grandi mentori intellettuali,
politici e personali - gli scrittori e militanti Eqbal Ahmad e Ibrahim
Abu-Lughod - ha suscitato in me tristezza e senso di perdita, ma anche
rassegnazione e una certa ostinata volonta' di andare avanti.
Nel mio libro di memorie Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia (1999)
descrivevo i mondi strani e contraddittori in cui sono cresciuto, e
presentavo ai miei lettori e a me stesso una descrizione particolareggiata
degli ambienti della Palestina, dell'Egitto e del Libano che hanno inciso
sulla mia formazione. Ma quella era una descrizione molto personale, che si
fermava prima degli anni del mio impegno politico, cominciato dopo la guerra
arabo-israeliana del 1967.
Orientalismo e' un libro molto legato alla dinamica tumultuosa della storia
contemporanea. Nelle sue pagine sostengo che tanto il termine Oriente quanto
il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi
sono opere dell'uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come
identificazione dell'Altro.
Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e
all'organizzazione delle passioni collettive. Questo non e' mai stato piu'
evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell'odio, del
disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza - sentimenti che per la
maggior parte hanno a che fare con l'islam e gli arabi da un lato, e "noi"
occidentali dall'altro - sono imprese su larga scala.
La prima pagina di Orientalismo si apre con una descrizione della guerra
civile libanese. Quella guerra termino' nel 1990, ma le violenze e gli
orrendi spargimenti di sangue proseguono tuttora. Abbiamo assistito al
fallimento del processo di pace di Oslo, allo scoppio della seconda intifada
e alle spaventose sofferenze inflitte ai palestinesi dalla nuova invasione
della Cisgiordania e di Gaza.
Ha fatto la sua comparsa il fenomeno degli attentatori suicidi, con tutte le
sue atroci manifestazioni, nessuna delle quali naturalmente e' piu'
ripugnante e apocalittica degli eventi dell'11 settembre 2001 con le loro
conseguenze, le guerre contro l'Afghanistan e l'Iraq. Mentre scrivo queste
righe, prosegue l'occupazione illegale dell'Iraq da parte della Gran
Bretagna e degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono autenticamente
preoccupanti. Tutto cio' fa parte di quello che viene definito uno scontro
fra civilta' implacabile, irrimediabile, senza fine. Io invece non lo credo.
*
Il potere bruto
Vorrei poter affermare che negli Stati Uniti la comprensione generale del
Medio Oriente, degli arabi e dell'islam e' migliorata, ma purtroppo non e'
cosi'. Per diverse ragioni in Europa la situazione sembra migliore. Negli
Stati Uniti l'irrigidimento delle posizioni, la morsa sempre piu' stretta
delle generalizzazioni svilenti e dei cliche' trionfalistici, il dominio del
potere bruto alleato con il disprezzo semplicistico per i dissidenti e gli
"altri" ha trovato un degno correlativo nel saccheggio e nella distruzione
delle biblioteche e dei musei iracheni.
I governanti americani e i loro lacche' intellettuali sembrano incapaci di
capire che la storia non si puo' cancellare come una lavagna per permettere
a "noi" di scrivere il nostro futuro, imporre le nostre forme di vita e
pretendere che quei popoli inferiori le seguano. E' abbastanza comune, a
Washington e non solo, ascoltare importanti esponenti politici che parlano
di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente, come se antiche
societa' e una miriade di popoli si potessero rimescolare come noccioline in
un barattolo.
Ma questo e' accaduto spesso con l'"Oriente", concetto semi-mitico che dopo
l'invasione napoleonica dell'Egitto alla fine del diciottesimo secolo e'
stato fatto e rifatto innumerevoli volte dal potere che ha agito attraverso
una forma di sapere, costruita appositamente, per affermare che questa e' la
natura dell'Oriente e che dobbiamo affrontarla di conseguenza. In questo
processo gli innumerevoli sedimenti della storia - una varieta' vertiginosa
di popoli, lingue, esperienze e culture - vengono accantonati o ignorati,
mandati al macero insieme ai tesori archeologici ridotti in frammenti e
portati via dalle biblioteche e dai musei di Baghdad.
La mia tesi e' che la storia e' fatta da uomini e donne, e puo' essere
disfatta e riscritta, sempre con omissioni e silenzi, sempre con forme
imposte e distorsioni tollerate, in modo che il "nostro" est, il "nostro"
Oriente diventi una cosa "nostra" che possiamo possedere e dirigere a
piacimento. Nutro grande considerazione per la forza e il talento che i
popoli di quella regione mostrano nel continuare a lottare per la loro idea
di cio' che sono e vogliono essere.
L'attacco alle societa' arabe e musulmane contemporanee per la loro
arretratezza, per la mancanza di democrazia e per la negazione dei diritti
delle donne e' stato talmente massiccio e aggressivo che abbiamo dimenticato
una cosa semplice: i concetti di modernita', illuminismo e democrazia non
sono cosi' ovvi e condivisi. La disinvoltura sbalorditiva di certi
giornalisti, i quali parlano in nome della politica estera senza avere la
minima conoscenza della lingua realmente parlata dalla gente, ha creato dal
nulla un paesaggio desertico su cui la potenza americana puo' costruire un
finto modello di "democrazia" da libero mercato.
Ma c'e' una differenza fra quella conoscenza di altri popoli e altri tempi
che scaturisce dalla comprensione, dall'empatia, da uno studio e un'analisi
attenti e condotti per amor di ricerca, e l'altra conoscenza, che s'inscrive
in una campagna generale di autoaffermazione, belligeranza e guerra aperta.
Indubbiamente, una delle catastrofi intellettuali della storia e' il fatto
che un manipolo di politici americani non eletti abbia orchestrato una
guerra imperialistica e l'abbia mossa contro una sconquassata dittatura da
terzo mondo per motivi prettamente ideologici, legati al dominio del mondo,
al controllo sulla sicurezza del pianeta e delle sue scarse risorse, ma
mascherata nelle sue vere intenzioni, sollecitata e preparata da certi
orientalisti che hanno tradito la propria vocazione di studiosi.
Le persone che hanno piu' influito sul Pentagono e sul Consiglio per la
sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush sono stati personaggi come
Bernard Lewis e Fouad Ajami, i due esperti del mondo arabo e islamico che
hanno aiutato i falchi americani a pensare fenomeni ridicoli come la
"mentalita' araba" e l'ormai secolare declino dell'islam, che soltanto la
potenza americana, secondo loro, puo' arrestare.
Oggi le librerie statunitensi sono piene di mediocri libercoli dai titoli
allarmistici che parlano di islam e terrorismo, di minaccia araba e di
pericolo musulmano, scritti da polemisti che fanno finta di avere una
conoscenza mutuata da esperti che si spacciano per profondi conoscitori di
quei bizzarri popoli orientali. La Cnn e la Fox tv, la miriade di
commentatori evangelici e di destra ospitati da programmi radiofonici,
innumerevoli tabloid e perfino riviste mediocri, hanno riciclato le stesse
invenzioni non verificabili e le stesse grossolane generalizzazioni per
aizzare l'"America" contro il demone straniero.
*
Il nocciolo del dogma
La guerra contro l'Iraq non avrebbe avuto luogo se non fosse stata diffusa
in modo organizzato l'idea che quelli laggiu' non sono come "noi" e non
condividono i "nostri" valori: insomma, senza il nocciolo stesso del dogma
tradizionale dell'orientalismo.
I consiglieri americani del Pentagono e della Casa Bianca usano gli stessi
cliche', gli stessi stereotipi denigratori, le stesse giustificazioni del
potere e della violenza (in fin dei conti, dice il ritornello, l'unica cosa
che quella gente capisce e' il linguaggio della forza) che usavano gli
studiosi reclutati dai conquistatori olandesi della Malesia e
dell'Indonesia, dalle armate britanniche in India, in Mesopotamia, in Egitto
e in Africa occidentale, dagli eserciti francesi in Indocina e in
Nordafrica. Adesso, in Iraq, queste persone sono state affiancate da una
schiera di ditte appaltatrici private e di zelanti imprenditori cui verra'
affidato di tutto, dalla redazione dei libri di testo e della costituzione,
alla riorganizzazione della vita politica dell'Iraq e alla privatizzazione
della sua industria petrolifera.
Da sempre, nei discorsi ufficiali, ogni impero dichiara di non essere come
gli altri, di nascere in condizioni particolari e di avere una missione:
illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia. E da sempre sostiene
di usare la forza soltanto come ultimo rimedio. Ma ancor piu' triste e'
vedere che c'e' sempre un coro di volenterosi intellettuali pronti a
presentare l'impero sotto una luce benevola o altruistica con parole
tranquillizzanti.
Venticinque anni dopo la sua prima edizione, Orientalismo torna a sollevare
la questione se l'imperialismo moderno sia mai finito, o se invece sia
proseguito in Oriente dopo l'ingresso di Napoleone in Egitto due secoli fa.
Arabi e musulmani si sono sentiti dire che fare le vittime e lagnarsi
incessantemente delle depredazioni dell'impero non e' che un modo per
sottrarsi alle responsabilita' del presente. "Avete sbagliato, avete
fallito", dice loro l'orientalista moderno. Sulla stessa linea si colloca il
contributo letterario di V. S. Naipaul, il quale descrive le vittime
dell'impero intente a lamentarsi mentre il loro paese va in malora.
Che superficialita' nel valutare l'intrusione imperiale! E che scarso
desiderio di tenere conto dell'interminabile successione di anni durante i
quali l'impero continua a pesare sulla vita dei palestinesi, tanto per fare
un esempio, oppure dei congolesi, degli algerini o degli iracheni.
Si pensi, invece, alla sequenza che ha inizio con Napoleone, continua con
l'ascesa degli studi orientalistici e la conquista del Nordafrica, passa
attraverso analoghe imprese in Vietnam, in Egitto, in Palestina e poi, per
tutto il ventesimo secolo, prosegue nella lotta per il petrolio e il
controllo strategico sul Golfo, l'Iraq, la Siria, la Palestina e
l'Afghanistan. Si pensi inoltre all'ascesa dei nazionalismi anticoloniali
per il breve periodo dell'indipendentismo liberale, all'era dei colpi di
mano militari, delle insurrezioni, delle guerre civili, del fanatismo
religioso, della lotta irrazionale e della brutalita' senza mediazioni nei
confronti dell'ennesimo branco di "indigeni". Ognuna di queste epoche e di
queste fasi produce una sua conoscenza distorta dell'altro; ognuna da' luogo
a immagini riduttive, a polemiche litigiose.
In Orientalismo l'idea era usare la critica umanistica per ampliare il
terreno dello scontro, per introdurre una sequenza di pensiero e di analisi
piu' lunga, che potesse prendere il posto delle brevi raffiche di furia
polemica in cui siamo ingabbiati, una furia che paralizza il pensiero.
Quel che ho cercato di fare l'ho chiamato "umanesimo", termine che continuo
ostinatamente a usare malgrado l'atteggiamento sprezzante con cui lo
liquidano i sofisticati critici postmoderni. Per "umanesimo" intendo
innanzitutto il tentativo di sciogliere quelle che Blake defini'
poeticamente "le pastoie forgiate dalla mente", cosicche' si possa usare la
propria mente in modo storico e razionale allo scopo di raggiungere una
comprensione riflessiva.
Aggiungo che l'umanesimo affonda le radici nel senso di comunanza con altri
interpreti e altre societa' e periodi, tanto che a rigor di termini
l'umanista non puo' esistere nell'isolamento.
*
Il contesto della storia
E' dunque corretto affermare che ogni sfera e' legata all'altra e che nulla
di quanto accade nel nostro mondo e' mai isolato e immune da influssi
esterni. Dobbiamo parlare dei problemi dell'ingiustizia e della sofferenza
collocandoli nel piu' ampio contesto della storia, della cultura e della
realta' socioeconomica. Ho trascorso gran parte della mia vita, in questi
ultimi trentacinque anni, a sostenere il diritto del popolo palestinese
all'autodeterminazione nazionale, ma ho sempre tentato di farlo accordando
piena attenzione alla realta' del popolo ebraico, delle persecuzioni e del
genocidio che ha subito.
La cosa importante e' che la lotta per l'uguaglianza in Palestina/Israele
deve tendere a una finalita' umana, cioe' la coesistenza, non l'ulteriore
repressione e negazione.
In quanto umanista e studioso di letteratura, sono abbastanza anziano da
aver ricevuto la mia formazione quarant'anni fa nel campo della letteratura
comparata, le cui idee guida risalgono ad autori attivi in Germania fra la
fine del diciottesimo secolo e l'inizio del diciannovesimo. Ma non si deve
dimenticare lo straordinario contributo creativo di Giambattista Vico, il
filosofo e filologo napoletano le cui idee anticiparono quelle di pensatori
tedeschi come Herder e Wolf, seguiti poi da Goethe, Humboldt, Dilthey,
Nietzsche, Gadamer e infine dai grandi filologi romanzi del ventesimo
secolo, Erich Auerbach, Leo Spitzer ed Ernst Robert Curtius.
Ai giovani dell'attuale generazione, l'idea stessa di filologia suggerisce
qualcosa di insopportabilmente antiquato e stantio. In realta' la filologia
e' la piu' fondamentale e creativa delle arti interpretative. Ai miei occhi
e' esemplificata nel modo piu' ammirevole dall'interesse che Goethe aveva in
generale per l'islam e in particolare per Hafiz, il poeta sufico persiano
del quattordicesimo secolo. Una passione che lo condusse a comporre il
West-oestlicher Diwan (Il Divano occidentale-orientale) e che incise sulle
sue riflessioni sulla Weltliteratur (la letteratura mondiale).
Goethe sosteneva che fosse possibile studiare tutte le letterature del mondo
come un insieme sinfonico, leggibile sul piano teorico rispettando
l'individualita' di ciascuna opera senza perdere di vista l'insieme. E'
assai ironico dover constatare che, ora che questo nostro mondo globalizzato
cancella gradualmente le distanze, stiamo forse avvicinandoci proprio a
quella standardizzazione e a quell'uniformita' che Goethe cerco' di evitare
con il suo pensiero.
E' quanto affermava Erich Auerbach in un saggio pubblicato nel 1951 con il
titolo Philologie der Weltliteratur. La sua grande opera Mimesis, pubblicata
a Berna nel 1946 ma scritta durante la guerra, quando Auerbach era in esilio
a Istanbul dove insegnava lingue romanze, doveva essere proprio una
testimonianza della molteplicita' e concretezza della realta' rappresentata
nella letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf.
Tuttavia, a leggere il saggio del 1951, si avverte chiaramente che per il
suo autore Mimesis era una vera e propria elegia scritta in onore di
un'epoca in cui gli studiosi sapevano interpretare i testi in modo
filologico, concreto, con sensibilita' e intuito, usando l'erudizione e la
loro eccellente padronanza di diverse lingue a sostegno di quella capacita'
di comprensione cui Goethe si richiamava nella sua analisi della letteratura
islamica.
*
La lettura filologica
Una conoscenza delle lingue e della storia era necessaria ma non e' mai
stata sufficiente, cosi' come la raccolta meccanica di fatti non avrebbe mai
potuto costituire un metodo adeguato per cogliere il significato di un
autore, poniamo, come Dante. Il requisito principale per quella lettura
filologica che Auerbach e i suoi predecessori tentarono di mettere in
pratica era infatti saper entrare in modo empatico, ma senza mai perdere la
propria soggettivita', nella vita di un testo scritto, esaminandolo dal
punto di vista del suo tempo e del suo autore. Dunque, anziche' accostarsi a
tempi e culture diversi con senso di alienazione e di ostilita', la
filologia applicata alla Weltliteratur richiedeva uno spirito profondamente
umanistico da applicare con generosita' e ospitalita'. Solo cosi' la mente
dell'interprete puo' fare posto dentro di se' a un Altro estraneo. Questa
attivita' creativa, volta a far posto a opere estranee e distanti, e'
l'aspetto piu' importante della missione dell'interprete.
In Germania, inutile dirlo, l'avvento del nazionalsocialismo intervenne a
delegittimare e distruggere tutto questo modo di pensare. Dopo la guerra,
osserva Auerbach tristemente, la standardizzazione delle idee e la crescente
specializzazione del sapere restrinsero gradualmente gli orizzonti di quel
lavoro filologico investigativo e di quella ricerca incessante che egli
aveva sostenuto. E il fatto ancor piu' deprimente e' che dopo la sua morte,
avvenuta nel 1957, l'idea e la pratica della ricerca umanistica hanno perso
respiro e centralita'. Anziche' leggere nel vero senso della parola, i
nostri studenti sono spesso distratti dal sapere frammentario disponibile su
internet e dai mass media.
Ma c'e' di peggio: l'istruzione e' minacciata da ortodossie nazionalistiche
e religiose spesso diffuse dai media, che puntano i riflettori in modo
astorico e sensazionalistico sulle remote guerre elettroniche. Queste,
mentre danno allo spettatore un senso di precisione chirurgica, in realta'
oscurano le tremende sofferenze e devastazioni prodotte dalla guerra
moderna. Nella loro demonizzazione di un nemico ignoto, etichettato come
"terrorista" per mantenere l'opinione pubblica in stato di tensione
rabbiosa, le immagini proposte dai mass media riscuotono un'attenzione
eccessiva e si prestano a essere sfruttate in tempi di crisi e d'insicurezza
come quelli del dopo 11 settembre.
Come americano e come arabo, devo chiedere al mio lettore di non
sottovalutare la visione del mondo semplificata che l'elite relativamente
esigua di civili che lavora al Pentagono ha elaborato e proposto come
politica americana verso l'intero mondo arabo e musulmano. Una visione in
cui il terrorismo, la guerra preventiva e i cambiamenti unilaterali di
regime, sostenuti dal bilancio militare piu' gonfiato della storia, sono i
concetti chiave discussi incessantemente da organi d'informazione che si
attribuiscono la funzione di produrre cosiddetti "esperti", i quali
confermano la linea del governo.
La riflessione, il dibattito, l'argomentazione razionale e i principi morali
fondati sul concetto laico secondo cui gli esseri umani devono plasmare da
soli la loro storia sono stati sostituiti da idee astratte che celebrano
l'eccezionalita' americana e occidentale, sminuiscono l'importanza del
contesto e guardano alle altre culture con disprezzo.
Mi si obiettera' forse che stabilisco nessi troppo diretti fra
interpretazione umanistica da una parte e politica estera dall'altra, e che
una societa' tecnologica moderna, la quale oltre a un potere senza
precedenti dispone di internet e degli aerei caccia F-16, deve essere
comandata da temibili esperti tecnico-politici come Donald Rumsfeld e
Richard Perle. Ma quel che si e' perso davvero e' il senso dello spessore e
dell'interdipendenza della vita umana, che non si puo' ne' ridurre a una
formuletta ne' liquidare come irrilevante.
Questo e' solo un aspetto del dibattito globale. La situazione nei paesi
arabi e musulmani non e' certo migliore. Anzi, come ha osservato Roula
Khalaf, giornalista del quotidiano britannico "Financial Times", la regione
e' scivolata in un facile antiamericanismo che denota scarsa comprensione di
che cosa sia davvero la societa' statunitense. Poiche' i governi dei paesi
arabi sono relativamente impotenti a influire sulla politica americana,
usano le loro energie per reprimere e assoggettare i loro stessi popoli.
Risultato? Risentimento, rabbia e vane imprecazioni che nulla fanno per
rendere piu' aperte quelle societa' dove la concezione laica della storia e
dello sviluppo umano e' stata scalzata dal fallimento e dalla frustrazione,
ma anche da un islamismo fatto di apprendimento acritico dei testi e di
cancellazione di forme di sapere secolare, considerate "altre" e
concorrenziali. La graduale scomparsa della luminosa tradizione dell'ijtihad
islamico, cioe' del processo di elaborazione delle norme islamiche a partire
dal Corano, e' uno dei grandi disastri culturali del nostro tempo. Il
risultato e' che ogni pensiero critico e ogni tentativo individuale di
affrontare seriamente i problemi del mondo moderno sono semplicemente
tramontati.
*
Identita' collettive
Con cio' non intendo certo dire che il mondo culturale sia semplicemente
regredito da una parte a un orientalismo bellicoso, e dall'altra a un
rifiuto indiscriminato. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile delle
Nazioni Unite tenuto l'anno scorso a Johannesburg, con tutti i suoi limiti
ha pero' rivelato un vasto terreno di interessi globali comuni, il che
denota come fatto positivo l'emergere di una nuova collettivita' e
conferisce nuova urgenza al concetto spesso banalizzato di mondo "unito".
Ma tuttavia dobbiamo ammettere che nessuno puo' davvero conoscere l'unita'
straordinariamente complessa del nostro mondo globalizzato. I tremendi
conflitti che sospingono le persone entro categorie falsamente unificanti
come "America", "Occidente" o "islam" e che inventano identita' collettive a
uso e consumo di vaste masse di individui in realta' molto diversi, vanno
contrastati. Per farlo disponiamo ancora delle capacita' interpretative
razionali che formano il retaggio dell'educazione umanistica, intese non
come un pietismo sentimentale che ci imponga di tornare ai valori
tradizionali o ai classici, bensi' come pratica attiva di un discorso
razionale, mondano e secolare.
Il mondo secolare e' il mondo della storia cosi' come la fanno gli esseri
umani. Il pensiero critico non si assoggetta agli ordini di unirsi ai ranghi
di chi marcia contro questo o quel nemico riconosciuto. Anziche' a un
artificioso scontro di civilta', dobbiamo dedicare la nostra attenzione al
lento e paziente lavoro comune delle culture che di volta in volta si
sovrappongono, prendono in prestito le une dalle altre, e coesistono.
Ma per raggiungere questa visione piu' ampia occorre tempo, occorre
un'indagine paziente e scettica, sorretta dalla fede in comunita' di
interpretazione ben difficili da tener vive in un mondo che esige azioni e
reazioni istantanee. La concezione umanistica si basa sul concetto di ruolo
attivo del soggetto umano e della sua intuizione, anziche' su luoghi comuni
e autorita' imposte dall'esterno. I testi vanno letti come prodotti che sono
nati e continuano a vivere in mille modi che io ho definito mondani. Ma cio'
non esclude affatto il potere. Al contrario, ho cercato di mostrare come il
potere s'insinui persino nelle discipline piu' recondite e vi s'intrecci.
L'ultima cosa, ma non in ordine d'importanza, che vorrei dire e' che
l'umanesimo costituisce l'unica - oserei dire anche la massima - forma di
resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che deturpano la
storia dell'umanita'.

3. EDITORIALE. NANNI SALIO: QUALE EUROPA PER LA PACE? (SULLA PROPOSTA DI
LIDIA MENAPACE)
[Ringraziamo Nanni Salio (per contatti: regis at arpnet.it) per questo
intervento. Nanni Salio, torinese, segretario dell'Ipri (Italian Peace
Research Institute), si occupa da diversi anni di ricerca, educazione e
azione per la pace, ed e' tra le voci piu' autorevoli della nonviolenza in
Italia. Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare
nonviolenta?, Movimento Nonviolento, Perugia; Scienza e guerra (con Antonino
Drago), Edizioni Gruppo Abele, Torino 1982; Ipri, Se vuoi la pace educa alla
pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1983; Le centrali nucleari e la bomba,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Ipri, I movimenti per la pace, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Progetto di educazione alla pace, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1985-1991; Le guerre del Golfo, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1991; Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, Verona 2001.
Per contatti: Centro Studi "Domenico Sereno Regis", via Garibaldi 13, 10122
Torino, tel. 011532824, fax: 0115158000, e-mail: regis at arpnet.it, sito:
www.arpnet.it/regis]
Per tentare di influire sul futuro assetto politico-militare-costituzionale
dell'Unione Europea, dobbiamo essere consapevoli che, al di la' delle nostre
dichiarazioni di principio e dei nostri desideri, ci troviamo in una
situazione di minoranza, indifferenza e pertanto di parziale debolezza.
Per poterci avvicinare a un'Unione Europea come quella descritta da Lidia
Menapace (neutrale, disarmata, nonviolenta e, in piu', sostenibile e
solidale) sara' probabilmente necessario muoversi contemporaneamente in piu'
direzioni.
1. Costruire dal basso un autentico movimento per la pace su scala europea
(oltre che mondiale), capace di agire e di essere presente sulla scena
politica con continuita', e non solo nelle situazioni di crisi. Prevenire e'
piu' facile che intervenire. Riconciliare e' indispensabile per evitare che
il ciclo perverso della violenza si autoalimenti.
2. Questo movimento dovra' operare su tutte le scale (micro, meso, macro)
della vita relazionale per impedire non solo la guerra, ma ridurre ogni
forma di violenza (diretta, strutturale, culturale).
3. Oltre agli obiettivi finali generali (neutralita', disarmo, nonviolenza,
sostenibilita', solidarieta'), occorre individuare tappe e obiettivi
intermedi, ragionevolmente raggiungibili, da proporre ai "perplessi e
dubbiosi della nonviolenza".
Tra questi obiettivi si puo' porre quello di un'Unione Europea che cominci a
eliminare tutte le categorie di armi offensive (tra le quali primeggiano
quelle di distruzione di massa, di cui proprio i paesi occidentali hanno il
quasi monopolio) per realizzare una difesa autenticamente e soltanto
difensiva.
Insieme a questo obiettivo e' possibile indicarne un altro, complementare e
in gran parte compatibile, nella costruzione di corpi civili europei di pace
a carattere permanente, preparati, addestrati e finanziati a livello
istituzionale.
La realizzazione di questi obiettivi comportera' una graduale, ma continua,
riconversione delle strutture militari (spesa militare, ricerca militare,
addestramento, eserciti) in strutture civili, che dovra' essere pianificata
indicando quote percentuali precise e vincolanti, da raggiungere nel corso
di  periodi prestabiliti, sino alla transizione totale. E' il famoso
transarmo, che richiede la progettazione della transizione.
Non esistono bacchette magiche, ma c'e' la possibilita' concreta di avviare
un processo duraturo.
4. Impegnare l'Unione Europea nel processo di riconversione ecologica
dell'economia dall'attuale modello di sviluppo energivoro, consumista e non
sostenibile, a un modello a bassa impronta ecologica, realmente sostenibile,
fondato sull'impiego sistematico di fonti energetiche rinnovabili,
decentrate, democratiche.
Porsi l'obiettivo di realizzare concretamente gli obiettivi degli accordi di
Kyoto e' una tappa intermedia fondamentale, in vista di obiettivi piu'
maturi e impegnativi. Sganciarsi dall'economia mortifera del petrolio e'
diventato un imperativo per la sopravvivenza dell'intero pianeta.
5. Avviare progetti di cooperazione decentrata, basati sul rispetto delle
culture altre e sulla diffusione di tecnologie intermedie e appropriate, con
i poli emergenti regionali dell'Eurasia (India, Cina, Russia, Sudest
asiatico) e con le aree piu' povere (Africa, America Latina) per consentire
alla stragrande maggioranza dell'umanita' di non ripercorrere gli errori
commessi dagli europei in materia di conflitti, guerre e sviluppo.
6. Lanciare l'idea di un'Unione Europea dei giovani, basata sul paradigma
gioioso della semplicita' volontaria, che sappia aprire prospettive e sogni
fondati sull'amore, sulla felicita', sull'allegria, la leggerezza, la
musica, l'arte, le espressioni culturali nonviolente.

4. EDITORIALE. LIDIA MENAPACE: FAR CAMMINARE L'IDEA
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) per
questo intervento. Lidia Menapace e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra
le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti
della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a
cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani,
Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia
politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in
collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra
indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo
accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna,
Milano 2001]
Ormai prendo parola quasi solo per ringraziare: credo che potremmo anche
seguire le tracce inviate da Angela Dogliotti Marasso (che naturalmente
ringrazio di cuore) e vedere che cosa possiamo avviare in proposito.
Continuo a pensare che la proposta di neutralita' attiva ha il pregio di
partire da una base di diritto internazionale (che ovviamente dipende dalle
maggioranze),  che significa appunto che:
1) chi decide la neutralita' rinuncia all'uso della guerra e a politiche
aggressive;
2) ammette che la comunita' internazionale possa censurare i suoi
comportamenti se in contrasto con la dichiarazione di neutralita';
3) non consente che sul suo territorio siano insediate basi militari altrui
e nega il passaggio a truppe e aerei sul suo territorio.
Penso che per la dimensione territoriale, politica, economica e il peso
culturale l'Europa neutrale potrebbe anche diventare un luogo che le Nazioni
Unite potrebbero usare per situarvi proprie istituzioni come tribunali
contro i crimini di guerra e contro l'umanita', corpi di polizia
internazionale anche in funzione preventiva, magistratura per esaminare
appunto i comportamenti aggressivi ecc.
Ma intanto e' davvero necessario far camminare l'idea e tenere aperta la
possibilita' che la prossima Costituzione europea non sia del tutto
impermeabile a futuri emendamenti in senso neutralista: per ora il testo
giscardiano non da' molte speranze e anche le dichiarazioni del Parlamento
europeo che contengono numerose osservazioni, sul terreno militare non si
discostano dal testo dei governi Nato inclusa.
Comunque teniamoci per mano e avanti.

5. FORMAZIONE. MARIA G. DI RIENZO: CON CHI PARLIAMO OGGI? ALCUNE TIPOLOGIE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo testo. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di
questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
Il cittadino/la cittadina "qualsiasi"
Ingenuo/a - Non ha ancora capito che i potentati economici e le elites del
dominio fanno esclusivamente i propri interessi; e' radicato nella propria
comunita' e generalmente si colloca o pensa in posizione "centrale" nel
sistema sociale di appartenenza. Riconosce e accetta pero' valori largamente
condivisi quali democrazia, liberta', giustizia. Puo' essere facilmente
attratto dalla nonviolenza.
Schierato/a - Mostra cieca obbedienza a coloro che identifica come detentori
del potere. Ritiene che ogni mezzo sia lecito per proteggere il paese, la
comunita', la famiglia, ecc. dagli "estremisti" o dagli "invasori"
immigrati. Puo' usare gli stessi termini del cittadino "ingenuo"
(democrazia, liberta', giustizia) con significati assai differenti. E' mia
esperienza personale che individui del genere comincino a riflettere sul
significato degli eventi se li si fa partire dalle proprie esperienze
personali, accettando anche la loro tendenza a riferirsi ad un sistema
soggettivo di costi/ricavi ("Che cosa ci guadagno", "Non sono mica fessa, se
tutti rubano io cosa devo fare", "Ho fatto tanto per gli altri e adesso sono
solo", ecc.). Non si spostano al primo contatto, ma se il primo contatto e'
efficace, torneranno a cercarvi o comunque cominceranno a pensare a se
stessi ed alle relazioni umane in modo diverso.
*
Il ribelle/la ribelle
Si identifica come costantemente in piedi su una barricata. Come per lo
"schierato", ogni mezzo gli/le va bene (ai suoi occhi, il nobile fine li
giustifica), inclusa la violenza e la distruzione di beni, edifici, ecc.
Agisce enfatizzando emozioni come la rabbia, la disperazione ed il senso di
impotenza. Si oppone a regole organizzative, strutture di dialogo, codici
per l'azione diretta nonviolenta: le cose si devono fare come vuole lui o
lei, il cui personale bisogno di urlare, di spingere una linea di scudi
antisommossa o di stare sotto la luce di un riflettore e' di gran lunga piu'
importante di qualsiasi necessita' del "movimento" o del successo
dell'azione. Ad eccezione degli scafati leader, che recitano la parte mentre
hanno le loro brave protezioni politiche e cadono sempre in piedi, la forza
attrattiva per gli altri/le altre sta nel vivere un'esistenza eccitante,
"coraggiosa", rischiosa, da fieri paladini degli oppressi. E' difficile
farsi ascoltare da costoro, poiche' sono molto legati a meccanismi di
lealta' distorta: si percepiscono come un gruppo sotto pressione,
costantemente assediato da nemici di tutti i generi, e sono percio' pronti a
mentire, a negare l'evidenza dei fatti, ad assumersi responsabilita' che non
hanno ("Io c'ero, non e' andata cosi'!" - questo, ad esempio, mi e' stato
detto da una ragazza che non era stata presente ai fatti che si discutevano:
la testimone oculare ero io...). Impossibile parlare loro mentre sono in
gruppo: le dinamiche suddette e la presenza dei leader impediranno qualsiasi
comunicazione onesta. E' possibile pero' ragionare con i singoli individui,
e qui usate voi la vostra esperienza personale in apertura di discorso,
utilizzando pero' i termini che lui/lei trova significanti nella propria
scelta: ovvero descrivete quanto eccitante, coraggiosa, difficile e
rischiosa, ma forte e serena ed efficace e' la vostra scelta di attivismo
nonviolento.
*
Il riformatore/la riformatrice
E' colui o colei che tenta di ottenere cambiamenti solo tramite i canali per
cosi' dire "ufficiali": il voto, i procedimenti legali, i referendum. Spesso
si identifica con un partito politico o ne fa parte, e puo' rivestire ruoli
istituzionali (consigliere comunale, parlamentare, ecc.). Il suo impegno
lo/la espone a parecchie frustrazioni, poiche' e' inserito giocoforza in una
struttura gerarchica e patriarcale incline, al massimo, ad accettare piccole
trasformazioni di facciata ("Ok, inseriamo un immigrato nella lista
elettorale") piuttosto che un paradigma di cambiamento ("Invitiamo le
organizzazioni dei migranti al tavolo decisionale per la lista elettorale ed
il programma").  In piu', il rischio di cooptazione e' per il riformatore/la
riformatrice molto alto, cosi' come il "richiamo della foresta" della
struttura politica a cui appartiene: lui o lei puo' essere cioe' convinto/a
ad abbandonare l'impegno per il cambiamento nel nome del bene del partito, o
per la congiuntura politica in atto, o per salvaguardare le alleanze, ecc.
Generalmente e' pero' qualcuno/a che vi ascoltera': forse all'inizio solo
perche' siete un potenziale elettore o rappresentate un gruppo di potenziali
elettori, ma riconoscera' i vostri valori, ne identifichera' alcuni come
valori che anch'egli/ella sostiene e potrete facilmente tracciare linee
d'azione comuni.
*
L'utopista
Costui, o costei, ha ben chiara la dimensione personale del cambiamento (ha
compiuto e compie nella sua vita scelte rigorose) ma e' completamente
scollegato/a dal concetto di cambiamento sociale ed il suo approccio alla
realta' e' spesso dogmatico. Nel presentarvi il suo stile di vita,
ovviamente il migliore che esista, non riuscira' a nascondere una sorta di
aristocratico disprezzo e stigmatizzera' come "inutili" azioni dirette o
campagne. Dovete pero' tenere presente che questa persona ha fatto
dell'impegno per il cambiamento, sia pure esclusivamente il proprio, l'asse
centrale della propria esistenza: a partire da cio' che la/lo interessa
potrete facilmente mostrare che egli/ella vivrebbe tali esperienze ancora
piu' intensamente e felicemente se si creasse l'ambiente adatto a
condividerle, e che ciascuno/a di noi puo' in questo fare la differenza.

6. RIFLESSIONE. STEFANIA GIORGI: SOTTO LA GIACCA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 settembre 2003. Stefania Giorgi e'
giornalista e saggista, da anni animatrice delle pagine cuturali del
quotidiano "Il manifesto", ha scritto molti articoli, densi e illuminanti,
su temi civili e morali, e in particolare di bioetica, di difesa
intransigente della dignita' umana, quindi dal punto di vista del pensiero
delle donne]
Un immaginario maschile scomposto, caotico, isterico, volgare. E' quello che
si e' squadernato ieri [il 24 settembre - ndr -] nell'aula del senato della
nostra repubblica, con i rappresentanti piu' "anziani" del parlamento a
berciare turpiloqui da caserma fascista alle parlamentari che protestavano
contro l'approvazione (blindata) della legge (mostruosa) sulla procreazione
assistita.
Una legge inaccettabile e inapplicabile che discrimina, sanziona e vieta: la
fecondazione eterologa, il ricorso alla procreazione assistita per i/le
single e gay. Nel segno del primato del diritto a nascere del concepito. Un
primato che mette in discussione il diritto della donna di e se essere madre
e minaccia direttamente l'autodeterminazione in materia procreativa.
"Non aprite quella porta", aveva tuonato Carlo Giovanardi nel 1999 durante
la discussione alla camera su quel testo di legge dando la stura a
dichiarazioni di voto e interventi che passavano schizofrenicamente da
solenni richiami a principi morali ed etici per inesistenti famigliole
fogazzariane alla messa in parola di un caos primigenio di incubi e di
paure. Da inimagginabili filiazioni plurime al primato del biologico nel
"nome del padre" scorsero all'epoca in quell'aula fiumi di sperma e
accoppiamenti contronatura (di "incroci tra uomini e bestie" aveva parlato
un parlamentare).
Una selvaggia seduta di inconscio maschile - consultabile negli atti
parlamentari - che metteva in scena misoginia e paura. Delle donne, del
corpo delle donne, procreativamente cosi' potente da dover essere arginato a
ogni costo. In primo luogo impugnando il diritto del concepito come un'arma
tagliente e contundente rivolta contro di loro. Contro di noi.
*
Le parlamentari ieri sono entrate in aula e si sono tolte le giacche per
mostrare le magliette che indossavano con la scritta "nessuna legge contro
il corpo delle donne".
E' a quel punto che gli argini si sono rotti e la misoginia piu' becera e
berciante si e' fatta strada tra i banchi di Palazzo Madama. Certamente a
causa di una pratica battagliera che bypassa commissioni e gruppi
parlamentari, certamente per la trasversalita' della protesta che accomuna
rappresentanti dell'opposizione e della coalizione di governo, molto per la
frase stampata che non domanda mediazioni.
Contro le "veterofemministe" ree di aver infranto le "regole" parlamentari e
aver nominato il nocciolo del problema - l'asimmetria di uomini e donne
nella procreazione - sono state scagliate con violenza parole pesantissime.
Una triste replica di quello che i nostri legislatori troppo spesso
dimostrano di pensare quando si discutono questioni che hanno a che fare con
la sfera della sessualita' e della differenza sessuale, tra donne e uomini.
Era accaduto durante il dibattito per la legge sull'interruzione volontaria
della gravidanza e per quello sulla legge contro la violenza sessuale. E'
accaduto di nuovo ieri.
*
"Richiudete quella porta", verrebbe da urlare di fronte alla violenza
ingiuriosa scagliata contro deputate e senatrici. "Non siamo diversi, ma
siamo come gli altri cittadini e come tali siamo tenuti a comportarci" ha
commentato Pierferdinando Casini. Ma, viene inquietantemente da domandarsi,
in quale altro luogo del nostro paese - scuola, mercato, quartiere,
condominio, luogo di lavoro - sarebbe potuto accadere quello che e' accaduto
ieri nel nostro parlamento?
Eppure e' accaduto, proprio mentre, di la' dell'Oceano, chi e' alla guida
del nostro paese e ci rappresenta all'estero invitava gli imprenditori
americani a investire in Italia tirando fuori dal cappello l'ennesimo numero
da "navigato" chansonnier. Un paese appetibile, depurato dai comunisti,
paradisiaco per far soldi, persino morire (vista l'abolizione dell'imposta
sulla successione), non prima - lascia intendere - di aver fatto sesso.
Magari con le "bellissime segretarie" enumerate tra le attrattive del
Belpaese.
Di certo ieri Palazzo Madama e il New York Stock Exchange sono stati
scambiati per uno spogliatoio maschile. Degli anni cinquanta.

7. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: OCCORRE RECIDERE LE RADICI CULTURALI DELLA
VIOLENZA
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: llidiamenapace at virgilio.it) anche
per questo intervento]
E ormai costume che dopo le piu' vergognose esternazioni di Bossi o un
ministro o addirittura Berlusconi dichiari "Tranquilli, sta parlando ai suoi
elettori"; anzi da ultimo il presidente del consiglio si e' spinto piu'
avanti, soggiungendo che del resto Bossi e' il piu' fidato dei collaboratori
e obbedisce sempre.
Se per disgrazia fossi una elettrice di Bossi considererei tali parole
fortemente razziste, come per l'appunto se l'elettorato di Bossi fosse per
natura sciocco e potesse essere tenuto buono con parole prepotenti seguite
da atti di sottomissione.
Come cittadina della repubblica italiana che non ho nulla a che fare con
Bossi o con Berlusconi, ma non puo' ne' vuole disinteressarsi di quel che
fanno e dicono, osservo che spacciare tali volgarita' per "politica" non e'
lecito: e' come sostenere che la doppiezza piu' greve e' una buona politica:
invece avere un discorso per il popolo e uno per il palazzo e' cosa
disgustosa.
Ma - si dira' - "che te ne importa? e' cosa loro". Purtroppo non e' cosi':
l'esempio dei potenti viene imitato dalle persone piu' fragili, inesperte e
sprovvedute e la conseguenza per tutti e tutte e' che l'atmosfeta si
inquina, le relazioni involgariscono, passano prepotenza, bugie, volgarita'
(la bellezza delle segretarie vantata in incontri internazionali da
Berlusconi! non sentivo piu' una espressione cosi' dalle barzellette sui
"cumenda" milanesi  del "Bertoldo").
*
Qualche giorno fa e' successa una cosa molto importante subito uscita dal
novero delle notizie sulle quali si torna, si discute, si emettono giudizi e
si prendono decisioni. Infatti ormai i nostri telegiornali sono costituiti
da fatti di cronaca nera, lo stillicidio dei marines uccisi, necrologi e
meteo oltre all'onnipresente calcio.
La notizia e' che un numero non irrilevante di piloti israeliani con ottimi
stati di servizio, campagne, medaglie e glorie hanno scritto che si
rifiutano di fare gli omicidi mirati di capi delle fazioni armate
palestinesi perche in mezzo e' inevitabile che capitino dei civili.
Coraggiosi, molto militari, non certo pacifisti dato che se potessero
uccidere in modo mirato e sicuro pare che non si rifiuterebbero: ma comunque
da lodare perche' cercano di praticare la disobbedienza verso ordini
giudicati immorali: quello che dopo la Shoa' ebrei e non ebrei hanno
imputato agli ufficiali nazi, colpevoli appunto di aver "obbedito a ordini
inmorali" e non fu considerato ammissibile che si difendessero dicendo che
appunto avevano obbedito a ordini. Il capo di stato maggiore
dell'aeronautica israeliana  ha giudicato severamente i suoi ufficiali e li
fara' condannare perche' non hanno obbedito agli ordini.
CIo' che mi augustia forse di piu' nella vicenda mediorientale e' che se ci
si mette sulla strada della violenza, guerra, armi, risposta violenta,
nessuno e' escluso dagli orrori, nemmeno chi li ha subiti.
Che israeliani facciano rappresaglie, vogliano obbedienza cieca e assoluta,
che i palestinesi si siano infilati nella seconda intifada sciaguratamente
armata (e che dura da tre anni!), e' una spina, ma dimostra che se non si
recidono le radici anche culturali della violenza e del militarismo non se
ne esce.

8. INIZIATIVE. UNIP: UNDICESIMO CORSO INTERNAZIONALE SU "LA GLOBALIZZAZIONE
DELLA VIOLENZA E L'IDENTIFICAZIONE DI ALTERNATIVE NONVIOLENTE"
[Dal sito della  International University of Peoples' Institutions for
Peace - Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace
(in sigla: Iupip-Unip), www.iupip.unimondo.org, riprendiamo e diffondiamo]
Rovereto, Italia, 28 settembre - 19 ottobre 2003
Con il supporto di: Provincia Autonoma di Trento, Regione Autonoma Trentino
Alto-Adige, Comune di Rovereto, Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e
Rovereto
*
Presentazione
Nel mondo d'oggi la forza militare e lo sfruttamento economico dei gruppi
sociali piu' deboli continuano ad essere considerati strumenti legittimi per
il mantenimento "della pace e dell'ordine" dentro e tra gli stati.
La fine della guerra fredda e' coincisa con la rilegittimazione della guerra
come continuazione "realistica" della politica a livello globale,
subordinando la tutela dei diritti dell'uomo e dei popoli all'interesse
economico e strategico di stati potenti e altamente militarizzati. In tal
modo si viene realizzando un disegno politico radicalmente contrario alle
necessita' reali di benessere materiale e non materiale, di sicurezza
sociale, di rispetto della dignita' di tutti.
La caduta del sistema totalitario del "socialismo reale" ha lasciato un
vuoto che e' stato prontamente colmato dall'espandersi di un sistema
capitalistico a sua volta sempre piu' totale, caratterizzato da politiche
predatorie contro la natura e contro i popoli piu' deboli. Di conseguenza, i
piu' poveri diventano sempre piu' poveri e il divario tra coloro che "hanno"
e quelli che "non hanno" diventa sempre piu' ampio.
L'escalation del terrorismo, culminata negli attacchi dell'11 settembre 2001
a New York e Washington, e le conseguenti "nuove" guerre in Afghanistan e in
Iraq, sono anelli interdipendenti in una catena di crescente globalizzazione
della violenza e violenza della globalizzazione. Interrompere questo circolo
vizioso di violenza militare e violenza strutturale che si nutrono
reciprocamente costituisce una sfida piu' formidabile che mai.
Il susseguirsi di eventi drammatici, capaci di modificare profondamente il
mondo e minacciare sempre piu' interessi basilari di generazioni presenti e
future, richiede ulteriori sforzi volti a individuare plausibili chiavi di
lettura di un divenire storico che procede con tempi sempre piu' serrati, in
modo da poter fornire adeguate basi cognitive per efficaci politiche di pace
e giustizia globale.
Pace non equivale semplicemente ad assenza di guerra: cí'e' pace quando
stati, gruppi, persone cooperano e quando i conflitti che insorgono tra loro
sono gestiti in modi nonviolenti e costruttivi. La pace, cosi' intesa, non
e' una realta' statica, bensi' un continuo processo dinamico in perenne
evoluzione. Come ha tante volte detto il Mahatma Gandhi: "Non c'e' nessuna
strada che porta alla pace; la pace e' la strada".
La pace non puo' essere realizzata senza la giustizia. La prima e
fondamentale esigenza della giustizia e' che sia data priorita' ai bisogni
basilari dei piu' deboli - oggi circa un miliardo di affamati, di "dannati
della terra". Su questi bisogni si fondano i diritti basilari - come i
diritti alla liberta' dalla fame e dalla sete - diritti la cui fruizione e'
presupposto della fruizione di ogni altro diritto.
La realizzazione della pace come processo dinamico, indissolubilmente
connesso a esigenze basilari di giustizia e implementazione di diritti umani
fondamentali, non puo' essere raggiunta semplicemente attraverso politiche e
interventi dall'alto. E' pure necessario sviluppare conoscenze, motivazioni
e partecipazioni dal basso, attraverso processi di empowerment che integrino
apprensione critica di conoscenze, esperienze di vita e lavoro, e azione in
modo tale da favorire lo sviluppo integrale dell'individuo umano,
rinforzando quel senso di responsabilita', solidarieta' e fiducia, senza il
quale una societa' pacifica non puo' esistere.
La dimensione educativa, che e' sempre anche autoeducativa, in quanto
orienta all'azione ed indica percorsi operativi, e' parte essenziale
dell'attivita' di difensore della pace e dei diritti umani e consente
l'acquisizione di risorse di potere quali la capacita' di promuovere valori
fondamentali, la creativita', la progettualita', la competenza, il
networking.
La gestione di queste risorse di potere e' affidata alle istituzioni dei
popoli e si esprime nella partecipazione politica popolare al funzionamento
delle istituzioni nazionali e internazionali e nella costante ricerca di
modalita' nonviolente di conduzione e risoluzione dei conflitti.
Il mondo dei movimenti sociali per la promozione della pace, della
giustizia, dei diritti, a tutti i livelli - "dal quartiere all'Onu" -
esprime da tempo una crescente e positiva domanda di formazione in tal
senso, alla quale l' Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli
per la Pace (Iupip-Unip) cerca di rispondere, investendo risorse umane e
finanziarie.
*
Notizie tecniche
Il corso dell'Unip si svolge a Rovereto nel seicentesco Palazzo Adami,
situato nel centro storico della citta'. Rovereto (inserita nel
Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace), che conta circa
35.000 abitanti, si trova nella valle dell'Adige, 20 chilometri a Sud di
Trento e non lontano dal lago di Garda.
Direttore del corso e' Giuliano Pontara, direttore del Comitato scientifico
dell'Unip, docente del dipartimento di filosofia dell'Universita' di
Stoccolma. La coordinatrice della segreteria dell'Unip e' Franca Bazzanela;
coordinatori dei corsi internazionali sono Stefano Barozzi e Giovana
Dell'Amore; coordinatrici dei corsi locali e nazionali sono Silva Destro e
Paola Zanon.
Per informazioni e contatti: Iupip-Unip, Palazzo Adami, piazza San Marco 7,
38068 Rovereto (Tn), Italia, tel. +39/0464424288, fax +39/0464424299,
e-mail: iupip at unimondo.org
*
Programma
Two sessions are scheduled every day, in the morning from 09:00 to 12:30 and
in the afternoon from 15:00 to 18:30, including half-hour breaks in the
middle.
The programme includes lectures, workshops, group work, brainstorms and
exchange of experiences.
* Prima settimana: 28 settembre - 5 ottobre: Conflict transformation and the
"new" war
Lecturers/facilitators: Simona Sharoni, Laurence McKeown, Georges
Kutukdjian, Jan Oberg.
- Sunday 28 September: Arrivals.
- Monday 29: Morning: Welcome  and Guided tour of Rovereto; Afternoon:
Personal introductions and group building  (Sharoni, McKeown).
- Tuesday 30: Conflict transformation: concept, mechanisms, experiences
(Sharoni, McKeown).
- Wednesday 1 October: Conflict transformation: concept, mechanisms,
experiences - continued - (Sharoni, McKeown).
- Thursday 2: Exchange of information on participants' organisations and
work experiences (Sharoni, McKeown ).
- Friday 3: The "new" war: psychological aspects (Kutukdjian, Oberg).
- Saturday 4: Morning: The "new" war: psychological aspects - continued -
(Kutukdjian, Oberg).
- Sunday 5: Free.
* Seconda settimana: 6-12 ottobre: Globalisation and the "new" war
Lecturers/facilitators: Alejandro Bendana, Michel Chossudovsky, Jens Woelk.
- Monday 6: Globalisation as an obstacle to peace-building (Bendana).
- Tuesday 7: Globalisation as an obstacle to peace-building - continued -
(Bendana).
- Wednesday 8: Morning: Meetings with students from local schools;
Afternoon: Free.
- Thursday 9: The "new" war: economic and geo-political roots
(Chossudovsky); Evening: Public meeting.
- Friday 10: The "new" war: economic and geo-political roots - continued -
(Chossudovsky).
- Saturday 11: The non-violent resolution of the ethnic conflict in
Trentino-Alto Adige (Woelk).
- Sunday 12: Excursion.
* Terza settimana: 13-18 ottobre: The identification of non-violent
alternatives
Lecturers/facilitators: Juergen Johansen, Chaiwat Satha-Anand.
- Monday 13: The Philosophy of Non-violence: ethics and politics (Johansen).
- Tuesday 14: Non-violent social movements today (Johansen).
- Wednesday 15: Morning: Meetings with students from local schools;
Afternoon: Free.
- Thursday 16: Resisting globalised violence with non-violent social
movements (Satha- Anand).
- Friday 17: Non-violent futures (Satha-Anand).
- Saturday 18: Morning: Debriefing; course evaluation; Afternoon: Public
ceremony at the Peace Bell; Evening: Goodbye party.
- Sunday 19: Departures.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 687 del 28 settembre 2003