La nonviolenza e' in cammino. 640



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 640 del 12 agosto 2003

Sommario di questo numero:
1. Ogni vittima ha il volto di Abele
2. Laura Boella: che essa sia
3. Simona Forti: un nuovo tipo di guerra
4. Grazia Livi: semplicemente
5. Costanza Barberis presenta "La rincorsa" di Anna Maria Riviello
6. Amina Crisma presenta i "Dialoghi" di Confucio
7. Augusto Illuminati presenta "Congetture di pace. Scritti irenici" di
Nicolo' Cusano
8. Stefano Liberti presenta "Global muslim" di Olivier Roy
9. Giovanni Miccoli presenta "Hitler e l'Olocausto" di Robert S. Wistrich
10. Riletture: Fatema Mernissi, Islam e democrazia
11. Riletture: Henry Corbin, Storia della filosofia islamica
12. Riletture: Carmela Baffioni, Storia della filosofia islamica
13. Riletture: Franco Cardini, Noi e l'islam
14. La "Carta" del Movimento Nonviolento
15. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. OGNI VITTIMA HA IL VOLTO DI ABELE
[Riproduciamo un estratto da un nostro comunicato di un anno fa. E' nostra
intenzione riproporre ed estendere quest'anno l'iniziativa del 4 novembre di
pace, in memoria delle vittime, contro le guerre, le armi e gli eserciti]
"Ogni vittima ha il volto di Abele" (Heinrich Boell).
1. Il 4 novembre e' un giorno di lutto, e nelle vicende umane anche
l'elaborazione del lutto per coloro che non solo piu' conta. E conta
altresi' il ricordo di coloro cui e' stata tolta la vita con la violenza.
Non ricordarli sarebbe come volerli cancellare, quasi ucciderli una seconda
volta.
Chi defini' la prima guerra mondiale con la formula lapidaria "inutile
strage" colse un punto decisivo: fu una orribile strage; e - di contro alle
retoriche dei potenti che mandarono al macello tanta povera gente - non ebbe
alcuna ammissibile utilita', poiche' le stragi non sono mai utili (se non al
trionfo del male ed alla sofferenza dell'umanita'), sono stragi e basta, e
tutti quelli che pensano che si possa costruire qualcosa dando ad altri la
morte commettono uno sciaguratissimo e infame errore di ragionamento, oltre
che un abominio morale, che li rende promotori o complici del piu' orrendo
dei crimini.
La memoria delle vittime e' uno degli elementi su cui e con cui costruire
l'impegno per la difesa e la promozione dei diritti umani di tutti gli
esseri umani (sulla memoria delle vittime ed anche sui possibili rischi di
un uso distorto e strumentale di essa ha scritto pagine indimenticabili
Tzvetan Todorov, ad esempio in Memoria del male, tentazione del bene).
2. Ebbene, la ricorrenza del 4 novembre, fine della prima guerra modiale
(per l'Italia), e' stata fin qui strumentalizzata proprio dai poteri
militari, che in questa giornata, loro si', "festeggiano" le forze armate,
cioe' scherniscono quei poveri morti che loro stessi comandi militari hanno
fatto morire. Lo troviamo ripugnante.
3. Sic stantibus rebus, non convincono le iniziative subalterne, e non
convince il lasciar stare, il far finta di niente. Cosicche' abbiamo pensato
(anche sulla base di esperienze del passato) che il 4 novembre non debba
essere lasciato come irridente e iniquo monopolio delle gerarchie militari e
di quella retorica pseudopatriottica che il dottor Johnson qualche secolo fa
definiva "l'ultimo rifugio delle canaglie"; non debba essere lasciato alle
loro menzogne ed alla loro propaganda necrofila.
4. di qui la proposta: in quella data le persone e le istituzioni amanti
della pace e fedeli al diritto internazionale e alla legalita'
costituzionale non permettano che prevalga la sciagurata finzione che la
guerra sia bella e che le vittime debbano essere contente di essere state
trucidate, ma oppongano alla menzogna la verita', e all'ipocrisia la pieta'.
In quella data si ricordino le vittime per affermare che la guerra, del cui
orrore la loro morte testimonia, ebbene, la guerra e' un crimine che mai
piu' deve darsi.
"Ogni vittima ha il volto di Abele" (Heinrich Boell).

2. MAESTRE. LAURA BOELLA: CHE ESSA SIA
[Da Laura Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente,
Feltrinelli, Milano 1995, p. 215. Laura Boella, docente di storia della
filosofia morale all'Universita' di Milano, e' tra le massime studiose di
Gyorgy Lukacs, Agnes Heller, Ernst Bloch, Hannah Arendt; e' impegnata nella
ricostruzione del pensiero femminile nel Novecento; fa parte della redazione
della rivista filosofica "aut aut". Opere di Laura Boella: Il giovane
Lukacs, De Donato, Bari 1977; Intellettuali e coscienza di classe,
Feltrinelli, Milano 1977; Ernst Bloch. Trame della speranza, Jaca Book,
Milano 1987; Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, Unicopli, Milano 1987;
Parole chiave della politica, Mantova 1995; Hannah Arendt. Agire
politicamente, pensare politicamente, Feltrinelli, Milano 1995; Morale in
atto, Cuem, 1997; Cuori pensanti. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein,
Maria Zambrano, Tre Lune, Mantova 1998; con Annarosa Buttarelli, Per amore
di altro. L'empatia a partire da Edith Stein, Cortina, Milano 2000; Le
imperdonabili. Etty Hillesum, Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina
Cvetaeva, Tre Lune, Mantova 2000]
Amare la giustizia e' volere che essa sia, dir di si' all'esistenza della
giustizia nel mondo.

3. FRASI COLTE AL VOLO. SIMONA FORTI: UN NUOVO TIPO DI GUERRA
[Da Simona Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 106. La
frase che citiamo si riferisce alla rilevante analisi svolta da Cornelius
Castoriadis nel suo Devant la guerre, Fayard, Paris 1981.
Simona Forti e' docente universitaria di storia del pensiero politico; tra
le sue opere: Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra
filosofia e politica, Franco Angeli, Milano 1994, 1996; (a cura di), Hannah
Arendt, Bruno Mondadori, Milano 1999.
Cornelius Castoriadis, nato nel 1922, sociologo, filosofo, critico del
totalitarismo, impegnato nell'esperienza di "Socialisme ou barbarie"; e'
scomparso nel dicembre 1997. Dall'Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche riprendiamo la seguente scheda: "Cornelius Castoriadis nacque a
Costantinopoli nel 1922. Sostenne gli studi secondari e universitari ad
Atene (diritto, scienze economiche e politiche, filosofia). Nel 1945 si
trasferi' a Parigi per continuare gli studi di filosofia. Nel 1948, dopo
qualche anno di militanza trotzkista, fondo' con Claude Lefort il gruppo e
la rivista "Socialisme ou barbarie" (il cui ultimo numero usci' nel 1965).
Lavoro' dal 1948 al 1970 come economista nel segretariato internazionale
dell'Oced. Dal 1974 esercita la professione di psicoanalista. Nel 1980 e'
stato nominato direttore di studi all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences
Sociales di Parigi per il seminario di Istituzione della societa' e
creazione storica. E' scomparso a Parigi nel dicembre 1997. L'asse del
lavoro di Castoriadis e' stato in un primo periodo la critica al
totalitarismo burocratico e ai rapporti di produzione in Urss, di cui tra i
primi, con Amadeo Bordiga, ha mostrato il carattere capitalistico e, nello
stesso tempo, alle forme occidentali della democrazia rappresentativa, a cui
contrappone le esperienze storiche e teoriche del comunismo dei consigli. In
un secondo periodo, abbandonato l'impegno politico a profitto di un
esercizio non meramente privato della psicoanalisi, si e' dedicato allo
studio dell'immaginario sociale contemporaneo e a una critica dell'ideologia
che traveste le opzioni di quella che egli chiama "stratocrazia" (dominio
della classe militare) con le esigenze del progresso tecnologico. Prima
della sua scomparsa Castoriadis stava elaborando una teoria
dell'immaginazione che lo aveva portato a rivisitare la tradizione
filosofica e in particolare l'opera di Aristotele". Opere di Cornelius
Castoriadis: in italiano si veda almeno La societa' burocratica, 2 volumi,
Sugarco, Milano 1978-'79. Dall'Emfs: "Cornelius Castoriadis ha pubblicato
tra l'altro: con E. Morin e C. Lefort e sotto lo pseudonimo di J.-M.
Coudray, Mai '68. La breche, Fayard, Paris 1968, tr. it. La Comune di Parigi
del maggio 1968, Il Saggiatore, Milano 1968; La societe' bureaucratique, 1.
Les rapports de production en Russie, Union Generale d'Editions, 10/18,
Paris 1973, tr. it. La societa' burocratica, 1. I rapporti di produzione in
Russia, SugarCo, Milano 1978; La societe' bureaucratique, 2. La revolution
contre la bureacratie, Uge, 10/18, Paris 1973, tr. it. La societa'
burocratica, 2. La rivoluzione contro la burocrazia, SugarCo, Milano 1979;
L'experience du mouvement ouvrier, Uge, 10/18, Paris 1974; L'institution
imaginaire de la societe', Seuil, Paris 1975, tr. it. L'istituzione
immaginaria della societa', Bollati Boringhieri, Torino, 1995; Les
carrefours du labyrinthe, Seuil, Paris 1978, tr. it. Gli incroci del
labirinto, Hopefulmonster, Firenze 1988; Devant la guerre, Fayard, Paris
1981; De l'ecologie a' l'autonomie, Paris 1981; Domaines de l'homme, Seuil,
Paris 1986; con E. Colombo e P. Ansart, L'immaginario capovolto, Eleuthera,
Milano 1987; Le monde morcele', Seuil, Paris 1990; La montee de
l'insignifiance, Paris 1996. Un'antologia dei suoi scritti apparsi su
"Socialisme ou barbarie" sotto diversi pseudonimi (Pierre Chaulieu, Paul
Cardan) e' uscita in traduzione italiana con il titolo di Socialisme ou
barbarie, a cura di Mario Baccianini e Angelo Tartarini, Guanda, Parma 1969
(con una importante Appendice di Riccardo d'Este sul carteggio
Pannekoek-Chaulieu)"]
In tali condizioni, si apre la possibilita' di un nuovo tipo di guerra, la
guerra che non ha piu' obiettivi se non affermare se stessa: la guerra del
nichilismo compiuto.

4. FRASI COLTE AL VOLO. GRAZIA LIVI: SEMPLICEMENTE
[Da Grazia Livi, Le lettere del mio nome, La Tartaruga, Milano 1992, 2003,
p. 230. Grazia Livi e' nata a Firenze e vive a Milano, giornalista,
saggista, scrittrice; tra le sue opere: La distanza e l'amore (1978);
L'approdo invisibile (1980); Da una stanza all'altra (1984); Le lettere del
mio nome (1991, 2003); Vincoli segreti (1994); (con Francesca Pasini), Donne
senza cuore (1996); La finestra illuminata (2000); Narrare e' un segreto
(2002)]
Cosa occorreva fare? Prendere in mano se stesse, semplicemente.

5. LIBRI. COSTANZA BARBERIS PRESENTA "LA RINCORSA" DI ANNA MARIA RIVIELLO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 agosto 2003. Anna Maria Riviello e'
stata tra l'altro vicepresidente della Commissione nazionale per le pari
opportunita']
Le operaie di Melfi vogliono riprendersi la notte. Tra le molte novita' che
la Fiat ha portato nella loro vita, il lavoro notturno e' senza dubbio la
bestia nera. Il problema e' fotografato con chiarezza dai risultati di una
ricerca compiuta, con il patrocinio della Provincia di Potenza, nel
2000-2002 tra le donne dello stabilimento Sata e del suo indotto.
Molto e' stato scritto in passato sulla fabbrica di Melfi, ma questa volta
si ascoltano le lavoratrici. Attraverso il punto di vista delle donne,
termometro sensibile dei cambiamenti, la ricerca compie un viaggio nel
lavoro operaio, nel rapporto tra lavoratori e sindacato, nell'adattamento
che hanno subito i modelli familiari e il quotidiano delle persone dopo lo
sbarco in Basilicata della Fiat, nell'evoluzione dell'economia locale. Sullo
sfondo c'e' la teoria della fabbrica integrata, della produzione snella e
della qualita' totale, che qui si e' insediata sul prato verde, cioe' in un
contesto che non aveva mai conosciuto alcun insediamento industriale.
La ricerca, basata su 245 questionari e su 39 interviste individuali e ora
pubblicata nel volume La Rincorsa, a cura di Anna Maria Riviello per
CalicEditori, mette subito in chiaro un punto: la maggior parte delle
operaie, che ha alle spalle poche esperienze di lavoro, per lo piu'
precario, e generazioni di madri e nonne che hanno sempre faticato non
retribuite, giudica positivamente l'assunzione in fabbrica dal punto di
vista economico. I due terzi del campione affermano che il tenore di vita e'
migliorato, anche se solo il 25% dichiara di riuscire a fare risparmi, con
una percentuale che scende al 16% per le donne non sposate. Il 68% vuole
conservare il posto di lavoro; tra queste il 79%, con molto senso pratico,
indica come motivazione principale quella economica; solo l'8% mette
l'accento sull'esigenza di uscire dalla famiglia di origine e solo il 6%
quella di esprimere la propria professionalita'.
Ma il prezzo da pagare per uno stipendio sicuro e' nel disagio dei turni.
Alla Sata il lavoro di notte e' strutturale anche per le donne, con
rotazione sui tre turni bisettimanale. Si lavora da lunedi' a sabato,
recuperando il sesto giorno a scorrimento. Il 56% individua nei turni la
problematica lavorativa piu' importante, seguita dai trasporti (19%), dal
lavoro fisico (12%) e dalle opportunita' di carriera (11%). La cosiddetta
doppia battuta, cioe' le due settimane consecutive di turno di notte, sono
il calvario per tutte. Tra le iniziative che le lavoratrici vorrebbero
suggerire al sindacato, il 50% indica l'eliminazione della doppia battuta,
il 22% l'eliminazione del turno di notte in quanto tale, mentre l'8,7%
vorrebbe qualche chance di lavoro a tempo parziale. "Con quei turni sei
sempre fuori posto", spiega Rosetta, che di notte lascia la figlia di
quattro anni alla sorella. L'incontro con i tempi della fabbrica e' stato
spiazzante. "Sto sempre a rincorrere il tempo che non c'e', organizzo anche
i secondi", dice un'altra lavoratrice, evocando quella rincorsa che poi ha
dato il titolo alla ricerca. Ma ci sono anche risvolti positivi; quando la
fabbrica le deruba del loro tempo, alcune scoprono il tempo per se', come
nel caso di Rocchina: "Comunque ti fa diventare nevrotica, ti provoca
stress, perche' io non mi voglio arrendere, voglio fare, per esempio da
quando lavoro vado anche in palestra".
Allo stesso modo, di fronte a un lavoro ripetitivo e spesso privo di
interesse, alcune operaie scoprono come forma di difesa l'estraneita' alla
propria mansione - "e' una parte della giornata durante la quale e' come se
non pensassi mai" - una via di salvezza pragmatica e tutta femminile che
permette di superare il tempo del lavoro e tornare a vivere a fine turno.
Senza che questo intacchi la stima di se' e la convinzione, largamente
condivisa dalle operaie, che lavorare sia meglio che non lavorare.
Nota dolente e' il rapporto con il sindacato. Oltre al tasso relativamente
basso di iscrizione (33%), e' soprattutto nelle interviste individuali che
emerge un sostanziale scollamento. Molte operaie parlano di impotenza del
sindacato, altre addirittura di collusione. Ma molte riconoscono che gran
parte dell'inerzia sindacale e' anche dovuta alla poca disponibilita' degli
operai sia allo sciopero che ad altre iniziative di lotta. Un circolo
vizioso che Rocchina riassume cosi': "Nella Sata non e' colpa del sindacato,
ma dell'operaio e quindi il sindacato non ha potuto fare niente perche'
l'operaio non gli permette di farlo, e va bene perche' il sindacato e'
corrotto". Tonina, rappresentante Fiom, alla domanda se siano state fatte
iniziative per le donne risponde: "No, perche' da noi sono state le donne
per prime a creare questa situazione di produzione molto alta, queste
discordie".
La ricerca non trascura la vita oltre la fabbrica, indagando nella
redistribuzione del menage familiare che e' seguito all'ingresso in Sata
delle donne. Nessuna sorpresa: ne viene fuori che c'e' una rete familiare
che si occupa dei bambini quando le madri sono al lavoro, nell'assenza dei
servizi pubblici. Ma qui entrano in scena anche le figure dei mariti, che
l'indagine ha voluto chiamare in causa esplicitamente con alcune interviste.
Come gia' evidenziato da altre ricerche, scopriamo che il lavoro di cura
delle donne e' in parte dedicato a maschi adulti. Dice Tonina, separata con
figli: "Io non ho un marito, quindi non ho da lavorare molto in casa".
Tuttavia, malgrado le operaie sopportino un carico di lavoro casalingo
rilevante dopo il turno in fabbrica - il 35% dedica ogni giorno quattro ore
ai servizi domestici -, la percezione della risposta che i coniugi hanno
dato alla nuova situazione non e' negativa. Il 59% del campione sostiene di
ricevere l'aiuto principale dal partner, il 22% dalla madre. Le esperienze,
anche nell'universo maschile, sono diverse. Il marito di Marta: "Ho dovuto
aiutare di piu' nella famiglia, anche con le mie figlie il rapporto e'
cambiato, con questa piccola faccio cose che non ho mai fatto con le altre
due e sono piu' contento. Pero' allo stesso tempo ho tolto qualche cosa alle
altre due bambine perche' non le ho volute fare". Un altro coniuge di 41
anni: "Spolverare no, sistemare i figli senz'altro, perche' comunque
materialmente la mancanza in casa del coniuge ti porta a pensare, a badare i
figli". Tutti i coniugi avrebbero preferito la moglie a casa, ma si
arrendono alle necessita' economiche, con quel pragmatismo che forse hanno
imparato dalle loro compagne.

6. LIBRI. AMINA CRISMA PRESENTA I "DIALOGHI" DI CONFUCIO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 agosto 2003. Amina Crisma e' docente di
sinologia all'Universita' di Padova. Delle opere confuciane segnaliamo anche
un'altra edizione italiana particolarmente accessibile: Confucio, Opere,
Utet, Torino 1974, Tea, Milano 1989; su Confucio una nota monografia e'
quella di Rene' Etiemble, Confucio, Tea, Milano 1998]
"Il Maestro disse: Studiare e praticare costantemente quanto appreso non e'
forse un diletto? Accogliere compagni provenienti da luoghi lontani non e'
forse una gioia? Non e' forse uomo nobile d'animo chi non si preoccupa se
nessuno lo conosce?". Cosi' recita l'incipit dei Dialoghi di Confucio
(Lunyu), opera all'apparenza semplice, che e' parsa noiosa e banale a non
pochi illustri lettori occidentali, e che rappresenta da oltre duemila anni
un riferimento fondamentale per la civilta', per la cultura, per il pensiero
cinese.
Ci offre l'occasione di un rinnovato confronto con questo classico
l'edizione dei Dialoghi a cura di Tiziana Lippiello che appare ora da
Einaudi (introduzione, traduzione e note di Tiziana Lippiello, pp.
XXXVII-245, euro 10,50) che si avvale fra l'altro di un'acquisizione
filologica recente, il cosiddetto testo di Dingzhou (cosi' denominato dalla
localita' dello Hebei in cui e' stato rinvenuto, in una tomba d'epoca Han),
che ha permesso di conoscere nuovi frammenti e di identificare migliaia di
caratteri, spesso varianti significative al testo. Si tratta del piu' antico
esemplare dei Lunyu in nostro possesso, che in vari aspetti si discosta
dalla vulgata e getta nuova luce su una vicenda redazionale alquanto
complessa; la sua scoperta risale al 1973, ma soltanto nel 1997 e' stato
ultimato e pubblicato il delicato lavoro di ricostruzione e di esegesi che
esso ha richiesto.
Una ulteriore, significativa novita' del volume einaudiano e' costituita
dalla presenza del testo a fronte. E' questo un aspetto inconsueto fra le
innumerevoli versioni in lingue occidentali dei Dialoghi (il solo esempio di
cui mi sovvengo sono gli Analects a cura di D .C. Lau, Chinese University
Press, Hong Kong, 1979), ed e' un aspetto importante non soltanto per coloro
che siano in grado di leggere il cinese classico; esso rende concretamente
percepibile agli occhi del lettore, per cosi' dire visualizza, la tensione
che pervade l'atto del tradurre da un linguaggio radicalmente altro.
E linguaggio radicalmente altro i Lunyu lo sono in molte accezioni. Un
linguaggio sorprendentemente sommesso, che non dimostra e che non argomenta,
che dichiaratamente si astiene dall'indagare il Cielo e la natura umana; un
linguaggio sconcertante nella sua distanza da quell'esplicita audacia
dell'interrogazione che connota la nascita della nostra filosofia.
Di che cosa, dunque, parlano i Dialoghi di Confucio? Di saggezza,
ovviamente, saranno pronti a rispondere in molti, vuoi disgustati e
sprezzanti, vuoi ammirati e plaudenti - nell'un caso e nell'altro, con il
sottinteso implicito dell'indiscutibile assioma che "i cinesi sono saggi,
e/ma noi pensiamo".
Ma e' forse preferibile non aver troppa fretta, e, ad esempio, non dare
troppo per scontata la dicotomia di saggezza e di pensiero. Non era forse un
modo di vivere, un tempo, la nostra filosofia? Riaprire i Lunyu puo' anche
significare riproporsi delle domande e, magari, lasciarle aperte. E' un
libro che poco si presta ad una veloce lettura sequenziale, e che richiede
di essere lentamente assaporato: in tal modo, questa raccolta apparentemente
sconnessa di laconici aforismi e di brevi conversazioni puo' svelare la sua
intima coerenza, che si irradia da alcune parole chiave, come "ren", che ne
rappresenta l'autentico Leitmotiv.
"Ren" e' un termine dall'intraducibile densita' di implicazioni, che qui si
rende con "l'umana benevolenza", e il cui significato non puo' essere
evocato senza richiamare il carattere che lo rappresenta: esso affianca al
pittogramma che raffigura l'uomo l'ideogramma che simboleggia il due. "Ren"
designa "quanto e' propriamente umano" nel suo concretarsi nell'ambito delle
relazioni con gli altri; e' il peculiare atteggiamento fondato sulla
reciprocitq' cui si devono informare i rapporti con i propri simili. E'
universale, perche' tutti include, e insieme articolato e differenziato, per
gradi diversi di prossimita' e di ruolo. E' questa una parola non certo
tratta da un fondo di scontata ovvieta' - e forse oggi piu' che mai essa ha
qualcosa da dirci.

7. LIBRI. AUGUSTO ILLUMINATI PRESENTA "CONGETTURE DI PACE. SCRITTI IRENICI"
DI NICOLO' CUSANO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 agosto 2003. Augusto Illuminati, nato a
Perugia nel 1937, e' docente di filosofia politica all'Universita' di
Urbino; tra le sue molte opere segnaliamo particolarmente Sociologia e
classi sociali, Einaudi, Torino 1967, 1977; Kant politico, La Nuova Italia,
Firenze 1971; Lavoro e rivoluzione, Mazzotta, Milano 1974; Rousseau e la
fondazione dei valori borghesi, Il Saggiatore, Milano 1977; Classi sociali e
crisi capitalistica, Mazzotta, Milano 1977; Gli inganni di Sarastro,
Einaudi, Torino 1980; La citta' e il desiderio, Manifestolibri, Roma 1992;
Esercizi politici. Quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma
1994. Su Nicola Cusano (1401-1464) cfr. introduttivamente la monografia di
Giovanni Santinello, Introduzione a Niccolo' Cusano, Laterza, Bari 1871; una
nota raccolta di suoi scritti sulla pace, a cura di Graziella Federici
Vescovini, e' Nicola Cusano, La pace della fede e altri testi, Edizioni
cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1993]
Con il titolo Nicolo' Cusano. Congetture di pace. Scritti irenici (prodromo
di Giovanni Fieschi, edizioni del Cerro, Tirrenia 2003, pp. LXXXVI-134, euro
16,50) Maurizio Merlo pubblica e introduce ampiamente una selezione di opere
del grande cardinale protagonista del concilio di Basilea nel 1431-1449.
Si tratta di scritti che precedono immediatamente (le tre Lettere ai Boemi
del 1452) o accompagnano (Lettera a Segovia del 1453) il grande choc del
1453 - la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, drammatico epilogo di
una serie di fallimenti dialogici con gli hussiti e la Chiesa d'Oriente e
insieme apertura di un nuovo confronto con il mondo islamico. La catastrofe
delle manovre assimilatorie e omologanti spinge Cusano ad abbandonare il
motivo tradizionale (alla Raimondo Lullo) della conversione comprensiva a
favore della necessita' di pensare la verita' del distinto come costitutiva,
superando cosi' ogni idea di armonia e tolleranza.
La formula cui approda il De pace seu concordantia fidei (1453, subito dopo
aver appreso la notizia del saccheggio di Costantinopoli lungo la strada da
Roma alla sua diocesi di Bressanone) - una sola religione nella varieta' dei
riti - e' il grande asse attorno a cui ruota non solo il dialogo fra le
confessioni cristiane (cattolica, greca e incipienti movimenti protestanti)
ma anche con l'Islam e in misura minore gli Ebrei. Il saggio deve mediare le
ragioni utilitarie della concordia con l'ascesa verso una verita'
accessibile solo con i mezzi della teologia negativa, stabilendo in tal modo
un singolare accordo fra ragione e rivelazione, sulla scia del sincretismo
di Alberto Magno e del suo fondamentale neoplatonismo. I profeti hanno
contratto la parola di Dio adattandola alla temporalita' e ai popoli e il
recupero dell'universale deve passare attraverso il ritorno a quel Nome non
dicibile che trascende, nella docta ignorantia, ogni intelletto, abolendo la
stessa distinzione di unita' e molteplicita', perche' a quell'Uno, che tutto
sintetizza, nulla si oppone. Con estremo nominalismo Cusano nega che il
linguaggio possa cogliere la quiddita' di una cosa, ma solo tenerla in una
rete di relazioni. Di qui, in ultima istanza, il carattere storico delle
religioni e il presupposto dalla loro conciliazione nella comune
partecipazione a una verita' ineffabile. Il Medesimo e' irrappresentabile in
quanto eccedente ogni situazione e alla logica dell'identita' si sostituisce
quella intuitiva e autoriflessiva del non-altro, che include in luogo di
escludere. Complementarmente viene privilegiato il metodo conoscitivo della
congettura, che tiene insieme il carattere molteplice dell'essere e il
mantenimento della categoria di verita' (come evento singolare sottratto
alla denominazione). All'armatura sostanzialistica tomista della
predicazione analogica dell'essere Cusano sostituisce la comunita' delle
congetture come comunita' dei distinti, in cui il limite del sapere si
costituisce verso una medesima assenza o indicibilita'.
Nel Setaccio del Corano (1461-1462) Cusano si propone l'arduo obbiettivo di
separare, con un "vaglio" appunto, la verita' del retaggio ebraico-cristiano
(sulla convinzione di una derivazione di Maometto dell'eresia nestoriana)
dal mendace magistero del Profeta. Per un verso si tratta della ripresa di
un motivo tradizionale - quello dell'anticipazione pagana di verita'
cristiane - completato (dato che Maometto e' un post-cristiano) con la
considerazione che egli abbia voluto velare alcuni contenuti per facilitare
l'acquisizione della troppo elevato purezza evangelica a un popolo rozzo che
voleva scuotere dall'idolatria. Vi sono pero' anche interessanti argomenti
di merito, soprattutto tesi a valorizzare l'affinita' islamico-cristiana
sullo spinoso tema dell'unicita' di Dio, pacifica nel confronto con il
politeismo antecedente, meno tranquilla sul tema storicamente controverso
della Trinita' - il grande punto di dissenso fra le due teologie.
La spiegazione trinitaria di Cusano e' fortemente neoplatonica e tutt'altro
che ortodossa, quasi si volesse fare appello al filone emanatista proprio
piu' della "falsafa" che del "kalam" islamico. Nel libro II, 8 si dichiara
che "coloro che non comprendono che il non-altro non e' l'identico e che il
non-identico non e' l'altro non possono capire che l'unita', l'eguaglianza e
il nesso sono la medesima cosa nell'essenza ma non sono la medesima cosa tra
loro. Percio' essi non intendono la trinita' nella deita' se non in tre
dei". Ma non l'avrebbero intesa cosi' neppure i teologi cattolici, mentre
oggi noi vi cogliamo il punto di passaggio fra Proclo e la dialettica
hegeliana. Ancora piu' interessante per un moderno e' la trascrizione
(manuductio) del concetto in termini grammaticali operata in II, 10:
"Nell'umanita' non vi sono che tre persone: io, tu, lui. Percio' con diritto
affermo: io sono un uomo, tu sei un uomo, egli e' un uomo, e queste tre
persone sono della stessa essenza umana... Dunque Dio puo' con diritto dire:
Io sono Dio, tu sei Dio, lui e' Dio, della stessa essenza divina, e le tre
persone non sono tre dei, ma un solo Dio... Le persone divine sono tre
nell'unita', non nel numero, mentre le tre persone umane sono tre nel
numero, percio' piu' uomini". Con altra sofisticata argomentazione si vuole
dedurre da allusioni coraniche l'ammissione implicita del carattere vivente
di Cristo (dunque la resurrezione), anche se l'aspetto principale del
discorso (III, 10) e' una definizione che anticipa sorprendentemente
Spinoza: "Cristo e' la perfezione assoluta delle creature intellettuali e
tutti partecipano della sua pienezza".
Il fallimento dei progetti politici di ricostituzione della res publica
christiana - mancata riconciliazione con la Chiesa greca, chiusura del
dialogo con gli islamici, imminente esplosione dello scisma protestante e
trionfo dell'assolutismo papale - lasciano in evidenza soltanto i motivi
mistici e spirituali, nella tradizione che va da Eckhart a una nuova
performativita' della Parola nella confessione di fede.

8. LIBRI. STEFANO LIBERTI PRESENTA "GLOBAL MUSLIM" DI OLIVIER ROY
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 luglio 2003. Stefano Liberti e'
giornalista. Olivier Roy, direttore di ricerca al Cnrs di Parigi, e' un noto
studioso dell'islam politico, autore di varie pubblicazioni]
Islam versus Occidente. Entrata ormai nel sentire comune, l'opposizione
manichea tra questi due universi apparentemente non conciliabili alimenta
ogni discussione sull'islam, di cui si finisce per sottolineare di volta in
volta il carattere di irriducibilita' rispetto a un vago modello di
integrazione, l'intrinseca aggressivita' o lo spirito invasivo.
Tale visione negativa non sembra tener conto di un dato che negli ultimi
anni, con l'intensificarsi dei flussi migratori provenienti da paesi
musulmani, si e' andato imponendo un po' in tutti i nostri paesi: alla
temuta e decisamente esagerata islamizzazione dell'Occidente corrisponde, in
modo assai piu' marcato, una parallela occidentalizzazione dell'islam, ossia
una ridiscussione del proprio orizzonte religioso da parte di quelle
comunita' musulmane che si trovano a vivere in un'inedita condizione di
minoranza.
Sono proprio questi fenomeni che lo studioso Olivier Roy, esperto di
geopolitica islamica e direttore di ricerca al Cnrs di Parigi, analizza nel
libro Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam (Feltrinelli, pp.
180, euro 15).
La religione musulmana - questa e' la tesi di fondo - e' ormai parte
integrante delle nostre societa' e ha sposato appieno, nel bene e nel male,
molti aspetti caratteristici di quella globalizzazione che rappresenta il
tratto distintivo dell'Occidente.
Ecco quindi che l'islam occidentale diventa punto di riferimento per tutta
la umma, per le giovani generazioni che usano internet e visitano i siti (in
inglese) degli studenti musulmani delle universita' americane, leggono i
libri dei teorici europei, guardano le televisioni arabe basate a Londra.
Il rapporto che si viene a stabilire tra i due termini della
contrapposizione e' quindi molto piu' sfumato della comune dicotomia; piu'
che di opposizione, bisogna parlare di profonda compenetrazione, in cui a
partire dall'Occidente l'islam si globalizza, investe il vissuto quotidiano
nei paesi di immigrazione e provvede anche a innescare interessanti fenomeni
di feedback in quelli di origine.
Tale compenetrazione, tuttavia, non alimenta solo forme di pacifica
ridiscussione identitaria e rielaborazione del proprio universo religioso,
ma puo' finire anche per far germinare i semi piu' perversi
dell'occidentalizzazione. Come sottolinea Roy, spesso si tende erroneamente
a far coincidere automaticamente la globalizzazione con i suoi soli effetti
benefici. E si ignora quindi che essa puo' generare mostri. Il rinnovato
vigore assunto dalle organizzazioni terroristiche che si richiamano
all'islam non sarebbe altro, nell'analisi dello studioso francese, che un
sottoprodotto della nostra cultura: il neofondamentalismo islamico e' nato e
cresciuto in Occidente. Una convinzione che trova conferma nell'analisi
degli avvenimenti piu' recenti: al di la' del caso eclatante di Osama bin
Laden, buona parte dei protagonisti degli attacchi terroristici degli ultimi
tempi sono born again muslims; persone di diversa estrazione sociale che si
sono avvicinate all'islam radicale e violento in Europa a partire da
percorsi personalissimi di ribellismo. Mohammed Atta, l'egiziano capo del
commando dell'11 settembre 2001, ha vissuto in Germania diversi anni prima
di andarsi a schiantare contro il World Trade Center di New York; Richard
Reid, l'anglo-giamaicano bloccato su un aereo della American airlines con le
scarpe piene di esplosivo e' nato a Londra; numerosi militanti "arabi
afghani" ritrovati nelle grotte di Tora Bora e rinchiusi poi nelle gabbie di
Guantanamo provengono dai paesi occidentali. Il militantismo di questi
personaggi e' frutto di una rottura, che e' sociale piu' che religiosa; il
loro nichilismo e' il risultato di un disagio esistenziale che deriva
principalmente dal loro sradicamento e li porta ad avvicinarsi al
radicalismo islamico violento. Questi guerriglieri nomadi globali, che si
richiamano a una comunita' immaginaria e astratta di fedeli e vanno a
combattere i loro personali jihad nelle zone piu' periferiche della umma,
spesso non hanno alcuna esperienza di militanza religiosa o politica
precedente.
Trattando la figura del jihadista nomade e restituendole la marginalita' che
ad essa compete, Roy riprende la tesi che gia' aveva enunciato nel 1992
nella sua opera pionieristica L'echec de l'islam politique. Lo studioso
francese e' convinto che l'islamismo come ideologia globale stia
attraversando un periodo di sfaldamento o stemperamento progressivo. Sia
dove sono stati repressi con la forza ed esclusi dal gioco politico (come in
Tunisia, in Siria o in Algeria), sia dove hanno partecipato alla gestione
della cosa pubblica, gli islamisti appaiono ormai privi di un reale progetto
sociale o economico alternativo: si limitano a concentrare la loro
attenzione in modo ossessivo su problemi di carattere esteriore - gli
svaghi, il codice di abbigliamento femminile, la vendita di alcolici -,
finendo per confondere cultura e buoncostume. Una mancanza di prospettive
che trova in qualche modo conferma nel fatto che quasi tutti i grandi
movimenti che gia' si richiamavano ad una dimensione ampia (quella della
umma) hanno ormai come punto di riferimento la loro singola area nazionale
di appartenenza. Il caso piu' lampante di questa nazionalizzazione
dell'islam e' l'Iran sciita, che negli ultimi anni ha abbandonato le sue
velleita' di esportare la rivoluzione khomeinista e conduce una politica
estera improntata al perseguimento e alla difesa dei propri interessi. Ma
anche la situazione palestinese non fa che confermare questa tendenza: i
partiti che si richiamano all'islam (Jihad, Hamas) a Gaza e nella West Bank
non criticano l'Autorita' nazionale palestinese per il suo laicismo, ma per
i suoi compromessi con Israele.
Questa nazionalizzazione, rileva Roy, "va di pari passo con la rinuncia a un
elemento chiave, cioe' al monopolio della rappresentazione del momento
religioso in quello politico, sostituito dall'accettazione di uno spazio
politico autonomo rispetto alla religione". Da questo punto di vista, se e'
vero che a livello esteriore le societa' dei paesi musulmani si sono negli
ultimi anni fortemente islamizzate, e' pur vero che tale islamizzazione si
e' resa autonoma da qualsiasi progetto politico e si va sviluppando in uno
spazio che in fondo e' in contraddizione con il messaggio islamista.
Quello a cui stiamo assistendo e' quindi un triplice movimento: l'islam
globalizzato si nazionalizza, entra nella sfera del privato e abbandona le
sue pretese di imporsi come sistema di riferimento politico. Certo, il
confine tra pubblico e privato non e' sempre ben definito, tanto che in
diversi casi i poteri pubblici finiscono per farsi influenzare dai
riferimenti religiosi - come e' avvenuto di recente in Egitto, nella vicenda
dei processi agli omosessuali - ma in generale il dato segna un irrevocabile
retrocessione dell'islamismo. In quest'ottica, i neofondamentalisti violenti
di al Qaeda, privi di ogni base sociale, sono solo un avamposto di sradicati
che cercano di dare un senso alla propria esistenza.
Rimane da chiedersi cosa abbia mai provocato questa retrocessione e la
privatizzazione della dimensione religiosa. Pur non affermandolo
esplicitamente, Roy lascia intendere che l'elemento fondamentale sia stato
proprio il passaggio dell'islam in Occidente, con tutte le conseguenze che
esso ha comportato. "Non esiste una geostrategia dell'islam perche' non
esiste piu' ne' una terra d'islam ne' una comunita' musulmana, ma solo una
religione che insegna a disincarnarsi e delle popolazioni musulmane che
negoziano le loro nuove identita', anche nel conflitto". Lo studioso non si
spinge oltre; lascia al lettore trarre le proprie conclusioni. Ma sembra
che, rispetto all'islamismo, l'espressione metaforica inglese "to go west"
("morire" o "andare in rovina") appaia quanto mai appropriata.

9. LIBRI. GIOVANNI MICCOLI PRESENTA "HITLER E L'OLOCAUSTO" DI ROBERT S.
WISTRICH
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 aprile 2003. Giovanni Miccoli, docente
universitario di storia della Chiesa, e' direttore del dipartimento di
storia e di storia dell'arte dell'Universita' di Trieste. Robert S. Wistrich
e' un prestigioso docente di storia moderna all'Universita' ebraica di
Gerusalemme. Daniel J. Goldhagen e' un noto storico americano]
"La soluzione finale aveva un carattere definitivo: era un piano per stanare
e uccidere ogni singolo uomo, donna o bambino ebreo che poteva essere
catturato sul continente europeo, da Parigi a Bialystok, da Amsterdam
all'isola di Rodi. La totalita' onnicomprensiva di questo progetto di
genocidio e' cio' che differenzia l'Olocausto dalle violenze inflitte dai
nazisti ai polacchi, ai russi, agli ucraini, ai serbi e agli zingari, per
non parlare delle cosiddette uccisioni 'caritatevoli' di appartenenti alla
razza tedesca e la morte per fame di milioni di prigionieri di guerra
sovietici o le torture inflitte ai comunisti, le persecuzioni degli
omosessuali e dei testimoni di Geova".
Cosi' Robert S. Wistrich nel suo agile volume di alcuni anni fa, ora
tradotto in italiano (Hitler e l'Olocausto, Rizzoli, pp. 364), situa
correttamente la Shoah nel contesto del progetto nazista di ridisegnare
l'intero quadro politico dell'Europa lungo linee etniche, con lo
spostamento, la ricollocazione e la riduzione in schiavitu' di intere
popolazioni, sotto la signoria indiscussa dei dominatori tedeschi. Ma in
questo "nuovo ordine europeo", fondato sull'oppressione e lo sfruttamento,
per gli ebrei, o per quanti secondo i criteri razziali dei nazisti venivano
considerati tali, non vi era posto: essi andavano eliminati tutti, e in
tutti i modi si cerco' di eliminarli. Il risultato per l'ebraismo europeo fu
catastrofico. I sei milioni di morti attestano, con l'aridita' delle cifre,
la pressoche' intera scomparsa delle fiorenti comunita' dell'Europa
orientale e le perdite gravissime subite da quelle dell'Europa
centro-occidentale.
In una storia plurisecolare punteggiata da massacri, lo sterminio degli
ebrei presenta caratteri e specificita' che lo rendono un unico: per le
motivazioni che lo ispirarono, per la sistematicita' e i metodi che furono
messi in opera. Non si tratta di stabilire una macabra gerarchia degli
orrori, ne' di misurare e graduare con asettico distacco i livelli di
sofferenza cui le "vittime della storia" furono di volta in volta costrette.
Ma di precisare con onesta' e pulizia intellettuale la natura e la
specificita' dei diversi fenomeni, condizione preliminare per cercar di
capire cio' che e' avvenuto. Non c'e' dubbio, per fare un esempio soltanto,
che campi di concentramento per eliminare i propri avversari politici o per
sfruttare sino all'inedia il lavoro schiavo non furono, si sa, prerogativa
esclusiva del nazismo. I gulag del comunismo sovietico presentano analoghe
caratteristiche e raggiunsero dimensioni e provocarono vittime anche
maggiori. Ma i campi di sterminio, campi destinati cioe' solo ad uccidere, e
ad uccidere solo i membri di una determinata stirpe, come furono per gli
ebrei Treblinka, Sobibor, Chelmno e Belzec (Auschwitz e Majdanek furono,
com'e' noto, campi sia di lavoro sia di sterminio) sono e restano una
prerogativa esclusiva dei nazisti: frutto di un'ideologia e risultato di un
progetto che ebbero in Hitler il loro interprete maggiore e in migliaia e
migliaia di burocrati e poliziotti i loro diligenti esecutori.
Come e perche' tutto cio' sia potuto accadere e' domanda che assilla da
decenni quanti si volgono a ripercorrere quelle ormai lontane vicende, nella
duplice consapevolezza che esse chiamano in causa radici non secondarie
della nostra cultura, e che la loro onda lunga non ha cessato di esercitare
la sua influenza sui problemi e la difficolta' del nostro presente.
Con questo libro Wistrich affronta ancora una volta la questione e ne offre
un'equilibrata ricostruzione, prendendo in esame i suoi diversi aspetti.
Wistrich, docente di storia moderna all'Universita' ebraica di Gerusalemme,
da tempo si e' dedicato allo studio della condizione degli ebrei nell'Europa
moderna e contemporanea. Il suo libro The Jews of Vienna in the age of Franz
Joseph (1989, trad. it. 1994) costituisce un modello di ricerca. Sullo
scorcio del secolo scorso e' stato membro della commissione mista
ebraico-cattolica che aveva il compito di affrontare la questione
dell'atteggiamento assunto da Pio XII e dalla Chiesa nel corso dello
sterminio. Equivoci e difficolta' varie, ma soprattutto il rifiuto opposto
dalla autorita' vaticane di concedere il pieno accesso alla documentazione
archivistica relativa alla seconda guerra mondiale ne determinarono, com'e'
noto, lo scioglimento.
Il titolo del volume non deve trarre in inganno: la centralita' del ruolo
svolto da Hitler che esso giustamente suggerisce non cancella gli altri
numerosi attori, variamente partecipi o spettatori piu' o meno passivi, ne'
il contesto generale che resero possibile lo sterminio. Osservero' di
passaggio che il termine "olocausto", alla luce del suo significato
originario, non sembra, a me come ad altri, il termine piu' adatto per
definire l'evento: non si tratto' di un sacrificio offerto a Dio, e meno che
mai le mani che lo compirono furono pure. Ma e' termine ormai largamente
invalso nella storiografia e nella memorialistica di lingua inglese e dunque
non e' il caso di insistere. Cio' che importa invece rilevare e' la
ricchezza e l'articolazione della sintesi offerta, che mette a frutto
ricerche proprie e i risultati migliori della piu' recente storiografia.
Lo sterminio ebbe in Hitler, nella sua concezione razziale del processo
storico, nella sua visione dell'ebraismo e nell'ideologia apocalittica che
ne ispiro' l'opera, il suo motore decisivo. Vi e' una rozza visione cosmica,
che si pretende messianicamente ispirata e che anima la religione politica
del nazismo, vi e' la persuasione di essere lo strumento di un superiore
mandato, sottese all'operato di Hitler. Wistrich lo evidenzia in rapidi
incisivi tratti, toccando cosi' un tema non secondario per capire la
sinistra fascinazione del nazismo e del suo capo. Per lui "la guerra contro
gli ebrei era una questione di vita o di morte, un aut aut in cui era in
gioco il futuro stesso della civilta'". (Questi aspetti dell'ideologia
nazista vengono sviluppati ampiamente, non senza forse una qualche
ambiguita', nel recente importante studio di Claus-Ekkehard Boersch, Die
politische Religion des Nationalsozialismus, W. Fink Verlag, pp. 407).
Sottolineando con forza il ruolo di Hitler e la costruzione da parte sua, in
termini via via piu' espliciti, di un progetto millenaristico che aveva
nello scontro apocalittico tra la razza ariana, pienamente espressa nello
Herrenvolk germanico, e gli ebrei il suo momento supremo e finale, Wistrich
fa opportunamente giustizia di ricorrenti tendenze storiografiche per le
quali lo sterminio costituirebbe un evento quasi fortuito, imposto
fondamentalmente da un incrocio casuale di circostanze determinate dalla
guerra. Ma d'altra parte lo sterminio non si sarebbe potuto compiere senza
il retroterra di lunga ostilita' antisemita di matrice cristiana di cui la
cultura europea era impregnata, ne' senza una serie di condizioni che ne
facilitarono l'attuazione.
Riguardo all'antisemitismo di cui le societa' europee erano impregnate e
alle radici cristiane che gli erano sottese, Wistrich mette in particolare
luce e analizza puntualmente due aspetti. Da una parte il fatto che
"l'Olocausto fu un evento paneuropeo che non avrebbe potuto verificarsi se
milioni di europei alla fine degli anni Trenta del Novecento non avessero
desiderato vedere la conclusione della secolare presenza tra loro degli
ebrei". La prevalente indifferenza e la passivita' (e' questione interna
tedesca!) che accompagnarono nel corso degli anni Trenta la persecuzione e
la progressiva emarginazione civile degli ebrei, in Germania e in numerosi
altri paesi che nell'azione del III Reich trovavano un incoraggiamento e un
modello, cosi' come la fattiva collaborazione che lo sterminio incontro' in
particolare tra popolazioni dell'Europa orientale (Ucraina, Lituania...) ma
non la' soltanto, ne costituiscono un'attestazione precisa.
D'altra parte - ed e' il secondo aspetto che Wistrich giustamente rileva -
tale impregnazione trova la sua ragione e le sue radici nella crescente
demonizzazione di cui gli ebrei erano stati oggetto da parte della dottrina
e della pastorale cristiane. Non solo lo sterminio non "avrebbe potuto
essere concepito, e soprattutto messo in atto incontrando una tanto scarsa
opposizione" senza "un terreno inaffiato per secoli da tale terribile
demonologia", ma va anche aggiunto che "il nazismo secolarizzo' e
radicalizzo' l'immagine dell'ebreo" costruita dalla tradizione cristiana,
"ma non invento' quasi nulla a livello di stereotipi basilari".
Sia ben chiaro: rilevando tali aspetti Wistrich non intende affatto
sostenere che l'ostilita' antiebraica e la demonizzazione degli ebrei della
tradizione cristiana non potevano che concludersi con lo sterminio, in una
sorta di inevitabile processo. Hitler, i nazisti e i loro complici restano
pieni e decisivi protagonisti di esso. Intende piuttosto rilevare che quel
retroterra nutri' e rese possibile o quanto meno facilito' la loro opera.
Non si tratto' di una lunga catena di oltraggi e persecuzioni in cui ogni
anello presupponesse necessariamente il seguito. Ma fu una catena in cui
ogni anello successivo non sarebbe stato possibile senza il precedente.
Del resto la contrapposizione radicale all'ebraismo da parte dei nazisti
andava ben oltre la polemica e la demonizzazione cristiane. Perche' erano i
suoi stessi valori fondanti, la sua concezione morale, largamente trasmessa
al cristianesimo, che suscitavano il loro radicale rifiuto: "Il pianificato
e sistematico sradicamento dei suoi valori precedette l'eliminazione fisica
del popolo ebraico e ne fu il prerequisito necessario". Non a caso
l'antiebraismo dei nazisti si accompagno' ben presto ad un crescente
anticristianesimo, anche se Hitler rinvio' alla fine della guerra la resa
dei conti con la Chiesa.
Lo spazio di una recensione giornalistica non permette di entrare
ulteriormente nel dettaglio di una ricostruzione ricca di sfumature e di
osservazioni preziose. Giustamente Wistrich rileva come la vittoria politica
del nazismo nella Repubblica di Weimar non sembra aver avuto
nell'antisemitismo la sua componente primaria ne' fu la ragione del largo
consenso ottenuto. Ma rileva anche come esso non rappresento' un ostacolo
agli occhi dei piu' per dare sostegno al partito nazista, cosi' come per i
capi e sottocapi la lotta agli ebrei costitui' da subito, pur in un
andamento altalenante, attento alla situazione interna e internazionale, un
obiettivo essenziale.
Giustamente centrale nel determinare una svolta nella politica antiebraica
nazista e' giudicata la conferenza di Evian (agosto 1938) che segno' il
rifiuto internazionale di offrire agli ebrei tedeschi ed austriaci una via
di fuga, facilitandone l'emigrazione. Hitler non manco' di rilevare
ironicamente che le lacrime di pieta' che il mondo delle democrazie versa
per gli ebrei non gli vietano di tenerli ben lontani da se'. Non e' priva di
fondamento l'osservazione di Wistrich al riguardo: "Se la Germania nazista
non poteva piu' sperare di esportare, vendere o espellere i suoi ebrei a un
mondo indifferente che chiaramente non li voleva, allora forse avrebbe
dovuto eliminarli completamente".
La Kristallnacht del 9-10 novembre 1938 (il grande pogrom che devasto'
migliaia di negozi ebraici e distrusse oltre cento sinagoghe, provocando la
morte di un centinaio di ebrei e portandone migliaia nei campi di
concentramento) con le conseguenze che ne derivarono, segno' la definitiva
emarginazione sociale degli ebrei tedeschi, ridotti ormai al ruolo di paria,
predisponendo le condizioni per l'ultimo fatale passaggio, aperto dalla
guerra e preannunciato a chiare lettere da Hitler nel discorso al Reichstag
del 30 gennaio 1938: "Nel corso della mia vita ho spesso dato corso a
profezie... Oggi faro' un'altra profezia: se la finanza internazionale
ebraica dovesse riuscire in Europa o altrove a far precipitare ancora una
volta le nazioni in una guerra mondiale, il risultato non sara' la
bolscevizzazione del mondo, e la conseguente vittoria del giudaismo, ma lo
sterminio della razza ebraica in Europa".
Wistrich analizza le varie tappe dello sterminio, concretamente avviato nel
contesto dell'attacco alla Russia, situandolo nell'ambito degli altri eccidi
compiuti dai nazisti nel corso delle loro operazioni belliche, ricostruisce
i diversi collaborazionismi che ne aiutarono l'attuazione e fa giustizia
della presunta passivita' degli ebrei, impediti ad una resistenza attiva
piu' vasta di quella che peraltro ci fu dalle condizioni stesse cui erano
stati ridotti e dall'abbandono in cui furono lasciati. Eloquente al riguardo
il messaggio trasmesso in Occidente nel novembre 1942 da un esponente del
Bund ebraico-polacco: "In Occidente non credono a quello che sentono. Dite
loro che stiamo morendo tutti... Non li perdoneremo mai per non averci
fornito armi, cosicche' potessimo morire da uomini, con i fucili
imbracciati".
Due densi capitoli esaminano l'atteggiamento assunto dalle Chiese (e da
quella cattolica in particolare) e dagli alleati anglo-americani. Su
entrambi i versanti reticenze, omissioni, mancanza fino all'ultimo di
interventi incisivi: in sostanza le une e gli altri, pur pienamente
informati, ritenevano di avere cose piu' importanti cui pensare e restavano
condizionati da pregiudizi antisemiti.
In quel misto di orrendamente arcaico e di sinistramente moderno che lo
caratterizzo', lo sterminio pote' cosi' compiersi, come la persecuzione che
lo precedette, nella prevalente passivita', quando non fu indifferenza, dei
poteri religiosi, delle autorita' politiche e dell'opinione pubblica. Lo
stato di guerra e le pesanti costrizioni che ne segnarono il percorso
spiegano molte cose ma certamente non tutto. Ne' tali condizioni possono
essere tirate in ballo per gli anni Trenta. Fu un abbandono che si incise
nella memoria ebraica e che ancora pesa - e' un fatto che non puo' essere
rimosso nel giudicare le vicende dell'oggi - negli atteggiamenti e negli
orientamenti degli ebrei della diaspora come di quelli di Israele.
*
Se il libro di Wistrich e' un ottimo libro di storia, che anche i non
addetti ai lavori potranno leggere con profitto, non altrettanto si puo'
dire del libro di Daniel J. Goldhagen, pubblicato in inglese lo scorso anno
e fulmineamente tradotto in italiano - Una questione morale. La Chiesa
cattolica e l'Olocausto, Mondadori, pp. 351. Gia' autore dei Volonterosi
carnefici di Hitler, un volume che ottenne anni fa un considerevole successo
di pubblico e un ampio e motivato dissenso tra gli storici per le tesi
estreme che lo caratterizzavano (tutti o quasi i tedeschi colpevoli di
antisemitismo, tutti o quasi i tedeschi attivamente partecipi e consenzienti
allo sterminio), Goldhagen si ripete con questo libro. Vi e' in lui la
presunzione della scoperta: come con il volume precedente egli pretendeva di
aver posto in termini del tutto nuovi il problema dello sterminio, cosi' ora
egli si avventura, solitario pioniere, sul terreno del giudizio morale per
inchiodare finalmente Pio XII e la Chiesa alle loro colpevoli
responsabilita' per la Shoah (e senza dimenticare gli altri grandi eccidi
della storia...). Intessuto di materiali storici, tutti di seconda mano e
sistematicamente avulsi dal loro contesto, il libro di Goldhagen non e' un
libro di storia ma una greve perorazione intrisa di pedanti banalita', che
egli qualifica come "rendiconto morale". E' il versante opposto degli
apologeti di Pio XII: muta il segno, ma l'unilateralita', la semplificazione
e la deformazione delle situazioni e dei problemi restano le stesse,
appesantite da una seriosa e sentenziosa saccenteria da primo della classe.
Gia' la sua pretesa di giudicare la "moralita'" degli uomini del passato non
manca di suscitare perplessita'. Lo studioso di storia cerca di capire cosa
e' successo e perche' e' successo, dove l'impegno a comprendere non
significa giustificare ma costituisce l'indispensabile premessa per
formulare un giudizio storico, ossia un giudizio sugli esiti che quelle
determinate scelte e quei determinati atti hanno avuto sui processi della
vita collettiva. Ma evita di avventurarsi sul terreno del giudizio morale,
dove "il piu' squallido dei moralismi", quello storiografico, che non mette
in gioco se stesso ne' si misura con se stesso, rischia di essere lo
scontato punto d'arrivo.
Non meriterebbe scrivere del libro di Goldhagen se non fosse perche' offre
un preciso indizio di cio' che il senso comune e il "mercato culturale"
sempre piu' spesso intendono per conoscenza storica e chiedono a chi scrive
di storia: un quadro semplificato in bianco e nero, alieno da ogni
complessita', tale da rendere facili il giudizio e lo schierarsi,
rassicurando cosi' il lettore della sua buona coscienza. Sono tendenze
significative di uno spirito pubblico, che alle sue incertezze sui propri
comportamenti nel presente cerca di sopperire attingendo presunte certezze
dal passato: corrisponde all'imbarbarimento culturale di questa nostra
stagione, in cui la lotta tra il "bene" e il "male" ha fatto la sua
prepotente e inattesa ricomparsa nel linguaggio politico corrente.

10. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: ISLAM E DEMOCRAZIA
Fatema Mernissi, Islam e democrazia, Giunti, Firenze 2002, pp. 222, euro 12.
Un libro che segnaliamo frequentemente, di un'autrice di grande valore.

11. RILETTURE. HENRY CORBIN: STORIA DELLA FILOSOFIA ISLAMICA
Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1973, 1991,
pp. 420, lire 20.000. Una classica monografia.

12. RILETTURE. CARMELA BAFFIONI: STORIA DELLA FILOSOFIA ISLAMICA
Carmela Baffioni, Storia della filosofia islamica, Mondadori, Milano 1991,
pp. 448, lire 16.000. Una utile panoramica con molte opportune citazioni
testuali.

13. RILETTURE. FRANCO CARDINI: NOI E L'ISLAM
Franco Cardini, Noi e l'islam, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 128, lire 9.000.
Un agile saggio del noto docente di storia medioevale.

14. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

15. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
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LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 640 del 12 agosto 2003