LA PACEM IN TERRIS E IL POPOLO DELLA PACE



Fonte: Missione Oggi agosto/settembre 2003

LA PACEM IN TERRIS E IL POPOLO DELLA PACE

Potremmo dire che il popolo della pace, che ha percorso le strade di Firenze
e le capitali di tutto il mondo, è il popolo della Pacem in terris di papa
Giovanni.
È singolare la sintonia tra le intuizioni di Roncalli, così come ci sono
state consegnate dal suo ministero di vescovo di Roma e dal suo testamento
spirituale che è la Pacem in terris, e le idee più forti e vigorose espresse
dal movimento della pace. Potremmo coglierne tre:
- la pace come valore assoluto;
- il primato delle vittime;
- la fine definitiva dell'equazione guerra-giustizia.

 Si è molto discusso in questi anni sul legame tra pace e giustizia. È noto
il luogo comune di pace giusta, che riprende in una accezione
sociologizzante e deviante il versetto di Isaia "opera della giustizia è la
pace" (Is 32,17). In questo modo si è collocato la pace come effetto della
giustizia, ma un attimo dopo si affermava che per realizzare la giustizia
erano necessarie le armi e la guerra e dunque si tornava da capo: per fare
la pace è necessaria la guerra.

LA PACE COME VALORE ASSOLUTO
Ogni volta che si è collocato un aggettivo accanto alla parola pace, è
sempre stato per giustificare la guerra, mentre quando abbiamo messo degli
aggettivi accanto alla parola guerra (giusta, chirurgica, umanitaria, uso
proporzionato della forza), lo si è fatto per rendere credibile la guerra
stessa, velandone ipocritamente la violenza senza fine.
Roncalli coglie, al contrario, la pace come la questione assoluta, da cui
dipende il futuro dell'umanità e il luogo della confessione della fede dalla
parte della chiesa. Già nel radiomessaggio, il giorno dopo l'elezione, egli
tocca la questione della pace. Rivolgendosi ai governanti dice: "Volgete lo
sguardo ai popoli che vi sono affidati e ascoltate la loro voce. Che cosa vi
chiedono, che cosa vi supplicano? Non chiedono quei mostruosi ordigni
bellici, scoperti nel nostro tempo, che possono causare stragi fratricide e
universale eccidio, ma la pace, quella pace in virtù della quale l'umana
famiglia può liberamente vivere, fiorire, prosperare". Dunque il tema della
pace è posto con assoluta nettezza e forza: i popoli chiedono innanzitutto e
soprattutto la pace. È la voce dei popoli che la chiesa vuole assumere e
fare sua.
Nella prima enciclica, del 29 giugno 1959, Ad Petri cathedram egli insiste:
"Se ci diciamo fratelli, se siamo chiamati ad una medesima sorte nella vita
presente e nella vita futura, come è mai possibile che alcuni trattino gli
altri da avversari e da nemici? Perché invidiare gli altri e rivolgere armi
micidiali contro i fratelli? Abbastanza si è già combattuto tra gli uomini.
Troppi giovani nel fiore dell'età hanno versato il loro sangue. Già troppi
cimiteri di caduti esistono e ci ammoniscono con voce severa, a raggiungere
una buona volta la concordia, l'unità, una giusta pace. Pensi quindi ognuno
non a ciò che divide gli animi, ma a ciò che li può unire nella mutua
comprensione".
È in ordine al valore assoluto della pace che elabora il principio del
cercare ciò che unisce rispetto a quello che divide: non per un irenismo di
comodo, ma perché la pace è più importante di ogni altra cosa.
Tra l'altro egli lega il concilio alla pace. Nel radiomessaggio dell'11
settembre 1962 dice: "Il concilio ecumenico sta per adunarsi a 17 anni dalla
fine della seconda guerra mondiale. Per la prima volta nella storia i padri
del concilio apparterranno in realtà a tutti i popoli e nazioni e ciascuno
recherà contributi di intelligenza e di esperienza a guarire e a sanare le
cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di
tutti i paesi". Dunque, il concilio come il contributo della chiesa a sanare
e guarire le cicatrici delle due guerre.
Nel Natale del 1962, dopo la drammatica crisi di Cuba, egli marca il primato
della pace: "Della terra la ricchezza più preziosa è la pace. Non cantiamo,
infatti: pax in terra hominibus bonae voluntatis. Fra tutti i beni della
vita e della storia, delle famiglie e dei popoli, la pace è veramente il più
importante e prezioso. La presenza, lo studium pacis, è la sicurezza della
tranquillità del mondo. Ad essa però si congiunge come condizione la buona
volontà di tutti e di ciascuno, perché ove questa manchi è vano sperare
letizia e benedizione".
Tutto questo viene espresso in modo sintetico nella Pacem in terris. Il 9
aprile 1963, nel firmarla, Roncalli dichiara: "Sulla fronte dell'enciclica
batte la luce della divina rivelazione, che è la sostanza viva del pensiero.
Ma le linee dottrinali scaturiscono altresì da esigenze intime della natura
umana e rientrano per lo più nella sfera del diritto naturale. Ciò spiega un
'innovazione propria di questo documento, indirizzato non solo all'
episcopato della chiesa e ai fedeli di tutto il mondo, ma anche a tutti gli
uomini di buona volontà. La pace universale è un bene che interessa tutti,
indistintamente; a tutti quindi abbiamo aperto l'animo nostro".
Qualche giorno dopo, il 24 aprile il papa ritorna sull'argomento: "Abbiamo
voluto indirizzare l'enciclica a tutti gli uomini, perché la pace è un bene
che interessa tutti, senza distinzione. E proprio a questo fine, abbiamo
dato alla Pacem in terris la data del giovedì santo, il giorno in cui il
Redentore, sul punto di concludere la sua vita pubblica, confidò in
testamento ai suoi discepoli quelle parole soavissime: vi lascio la pace, vi
dò la mia pace. In quel giorno il Redentore fece brillare sul mondo la
grande luce, che gli apostoli del Vangelo hanno poi diffuso su tutta la
terra. Siate sempre degli itineranti della pace".

IL PRIMATO DELLE VITTIME
La pace è il valore assoluto perché esso contiene il diritto delle vittime e
degli innocenti, il diritto dei popoli alla pace. Roncalli aveva intuito
questo, quando nel corso del suo pontificato aveva abbandonato le secche
della vecchia teologia della guerra, per condurre la chiesa a diventare voce
degli innocenti, dei bambini, delle donne, degli anziani, di coloro che
erano i primi obiettivi di un'azione militare che aveva la sua epifania
nello scontro nucleare.
Oggi tutto questo è diventato consapevolezza collettiva di molti ed è uno
dei punti decisivi di quella nuova cultura della pace, che il movimento
della pace ha prodotto in questi mesi.
Sono le vittime che giudicano la terra, che rivelano l'inconsistenza di un
certo pensiero formale, capace di far digerire un'azione militare con il
gioco ipocrita degli aggettivi, per cui il principio umanitario è servito
per coprire e rendere credibile all'opinione pubblica interventi che
obbedivano a ben altre logiche e interessi. Le vittime impongono a tutti di
misurarsi con il vero volto della guerra, piuttosto che nascondersi dietro
un pensiero di comodo, che ha il limite radicale di velare la vera realtà
della guerra.

L'EQUAZIONE GUERRA-GIUSTIZIA
Questa equazione ha funzionato per molti secoli. La guerra moderna l'ha
spazzata via, anche se in questo tempo è stata utilizzata per dare un'
immagine decente, prima alla guerra in Kosovo, poi alla guerra in
Afghanistan e poi nell'ultima vicenda dell'Iraq.
In realtà, come aveva intuito papa Giovanni nella Pacem in terris, questa
equazione, con la guerra moderna, con la guerra cioè che punta al massacro
deliberato dei civili, non regge più, proprio perché il pensiero della
guerra giusta esclude e condanna in modo netto e irrevocabile la scelta di
fare degli innocenti il vero obiettivo della guerra.
Non ci sono più guerre giuste, ma solamente guerre che uccidono in
larghissima misura i civili e in primo luogo i bambini. È impressionante che
i fautori della guerra giusta non si misurino con questo problema semplice,
che spazza via l'ipocrisia di un pensiero tutto ripiegato sulla sua coerenza
formale, e per questo incapace di chinarsi sul dolore delle vittime.
Oggi non c'è giustizia che possa giustificare la guerra, perché con la
guerra ogni giustizia è distrutta. E il principio di giustizia non può
essere usato come un idolo a cui sacrificare vittime innocenti. Non c'è
alcuna giustizia che valga la vita di un bambino.

LA SFIDA DEL PERDONO
C'è oggi una grande sfida culturale che domanda un salto di qualità al
movimento della pace: il movimento della pace gioca la sua identità e il suo
futuro non tanto in termini di vittoria politica sul partito della guerra,
quanto nella capacità di rendere concreta e politicamente praticabile una
cultura della riconciliazione e del perdono.
L'esperienza del Sudafrica di Mandela, con la Commissione verità e
riconciliazione, ha mostrato che questo è possibile, anche in una situazione
di totale drammaticità. Oggi siamo interpellati a elaborare una giustizia,
come ha scritto Zagrebelsky, "orientata alla riconciliazione, alla reciproca
accettazione, al riconoscimento l'uno dell'altro e dell'umanità delle
persone, per farla riemergere, quando questa è umiliata dal crimine non solo
patito, ma anche commesso. Una giustizia come generale disponibilità al
perdono, in nome di qualcosa di più grande della vendetta, la concordia".
Proprio la durezza di vicende come quelle dei Balcani, dell'Afghanistan,
dell'Iraq fino ad arrivare alla tragedia israelo-palestinese, impone
paradossalmente questo orizzonte e questa prospettiva. La parola debole e
mite della riconciliazione e del perdono è resa drammaticamente urgente
proprio da quella violenza e da quella guerra che prepara la catastrofe. Non
si tratta di pii pensieri, ma di una sfida oltre la quale c'è l'abisso.
Roncalli aveva intuito questo, quando il 10 maggio 1963, venti giorni prima
della morte, ricevendo il premio Balzan, dice: "La pace è una casa, la casa
di tutti. Essa è l'arco che unisce la terra al cielo. Ma per elevarsi così
in alto essa ha bisogno di posarsi su quattro solidi pilastri. Infine per
tutti l'ora della misericordia. Non l'ora della vendetta, della rivincita,
delle rivalità sanguinose; non più l'ora di un nuovo ricorso alla forza, che
l'umanità rifiuta, che la coscienza cristiana respinge con orrore.
Obbedienza e pace: pace e Vangelo. Vangelo dell'obbedienza a Dio, del
perdono e della misericordia. Ecco il programma che l'umile servo dei servi
di Dio propone oggi a tutti gli uomini di buona volontà".
Al di là dei fraintendimenti e delle omissioni, di cui siamo stati
spettatori nei confronti della Pacem in terris, noi oggi comprendiamo meglio
queste parole, che indicano il futuro di una nuova cultura di pace, senza la
quale il tempo della guerra non avrà fine. Questo è il compito delle persone
di buona volontà e di tutto il movimento della pace.

MASSIMO TOSCHI