[REPORT] da baghdad - 30 luglio 2003 - manifestazione disoccupati



BAGHDAD - <<The Unemployed Union of Iraq rapresents the interests of all unemployed people>>. E' questa la scritta che capeggia sullo striscione di apertura del corteo indetto dall'Unione dei disoccupati iracheni, alle nove della mattina del 29 luglio.

A partire dal luogo del concentramento in via Al Rashid, nei pressi della sede del Worker Comunist Party che ha aderito all'iniziativa, il corteo ha iniziato lentamente a muoversi sotto il sole gia' battente di Baghdad per raggiungere, dopo un breve tratto di strada, la piazza dove si e' deciso di organizzare un presidio, di fronte a quello che era il Palazzo Presidenziale di Saddam Hussein e ora e' il US Army Headquarter di Bremer.

Proprio al governatore americano sono rivolti i cartelli innalzati, fatti coi fondi di scatole di cartone per le bibite; a lui sono indirizzati gli slogan che i manifestanti, incitati con i megafoni dagli organizzatori riconoscibili dal cartellino giallo appuntato sul petto, scandiscono prima in arabo e poi, per essere sicuri di essere compresi, in inglese <<We want job>>.

Sabah Husain, uno dei coordinatori dell'Unione, chiarisce che si tratta di una manifestazione non violenta per rivendicare di fronte alle autorita' il bisogno di lavoro, la questione fondamentale di cui il governo non si occupa, di cui gli americani non si occupano << Abbiamo sofferto molto, in cosi' tante guerre. E molti ora sono senza lavoro; Bremer promette sempre ma non viene mai fatto nulla>>.

La voglia di esprimersi e' un fiume in piena <<Il regime di Saddam ci aveva ridotto a uomini senza lingua>>. Ora tutti avvertono il bisogno e il desiderio di raccontare e raccontarsi, ognuno con la propria storia.

Ali Kazem Fahad e' laureato, ha lavorato come tecnico per l'esercito iracheno, ma e' stato licenziato e incarcerato perche' ha parlato male del partito Baath al potere; dal 1995 non ha piu' potuto lavorare, si e' nascosto per non dover andare in guerra <<Ho pensato che una volta venuti gli americani sarebbe stato meglio, ma non e' cosi'>>.

Dalle parole di molti emerge la rabbia di una grande speranza che e' andata delusa, come spiega Hussan <<Non ci hanno detto la verita'. Noi eravamo contro Saddam e abbiamo lasciato che gli americani entrassero nel paese, gli abbiamo consegnato le chiavi dell'Iraq perche' ci hanno promesso la liberta', ma non era vero. Saddam era un male e anche gli americani sono un male. Noi vogliamo soltanto lavorare per poter vivere>>.

Rinasce la possibilita' di parlare a voce alta, di confrontarsi e rivendicare i propri diritti, ma al contempo viene drammaticamente percepita la sensazione di impotenza del non essere ascoltatti, dell'essere totalmente ignorati.

<<Tante promesse, di giustizia, sicurezza, democrazia e liberta', fatte dagli americani prima>> dice Salah Hassan Bidawi <<Ora invece niente, nulla di tutto questo, non c'e' cibo, non c'e' lavoro, non c'e' nessuna liberta'; tutto al mercato e' troppo caro e non ci sono soldi. Si sta male come sotto il regime di Saddam, anche peggio. Ed e' come se non si potesse parlare, cosi' come prima, perche' i soldati ti tengono lontano, non vogliono ascoltare>>. Molti altri sono della stessa opinione <<Siamo venuti qui gia' tante volte, per far conoscere le nostre necessita', per parlare del bisogno di lavorare; gli americani ti fanno dire ma e' come se non sentissero, e non rispondono>>.

Alcuni poi ritengono che dietro questo atteggiamento si nasconda una strategia. <<Non vogliono che i lavoratori tirino la testa fuori dall'acqua>> racconta Abu Hammar <<Vogliono che la situazioni resti instabile perche' si avverta la loro necessita', per rimanere qui e sfruttare il petrolio>>.

Ma in questo modo si attiva un meccanismo che moltiplica i rischi per gli stessi marines, molto spesso ragazzi giovani gettati in un contesto di estrema tensione. <<Per mesi nessun lavoro e nessuna sicurezza. E' un circolo vizioso, non c'e' sicurezza e quindi non c'e' lavoro, dicono gli americani; ma e' dalla disoccupazione che nasce molta criminalita', e con essa l'insicurezza. Ho sentito che gli uomini di Saddam, che sono nell'ovest dell'Iraq, pagano milleottocento dollari per un singolo attacco alle truppe USA; cosi' aumentano i mercenari, reclutati nelle sacche di disoccupazione e miseria>>. Chi parla e' un ingegnere civile che preferisce non dire il suo nome <<Meglio che non ti dica il nome, il regime ha cercato di uccidermi e un po' di regime c'e' ancora, con gli americani. C'e' sempre la stessa corruzione nei Ministeri, molte facce degli amministratori sono le stesse di sempre. Io ho vissuto in Siria, Libano e Giordania perche' ero contro il Baath, sono tornato e ho fatto domanda per un lavoro al Ministero dell'Industria; non posso permettermi di pagare una tangente, mi hanno detto che non c'era posto e il giorno dopo hanno assunto persone con meno esperienza di me>>.

Molti fanno riferimento ad una epurazione di facciata, che non avrebbe toccato molti esponenti del vecchio regime; tutti esprimono il dolore delle speranze tradite <<Gli Usa sono potenti e hanno tecnologia, potrebbero aiutarci, lo so, ma non lo fanno, non ci vogliono ascoltare; noi siamo pronti a collaborare con loro, ma non lasciano questa possibilita'>>.

Davanti al filo spinato transitano tre mezzi blindati, sopra ai quali i soldati si sistemano impugnando le armi; mi sposto con il tesserino da internazionale ben in vista sulla camicia, lo stesso fanno i manifestanti, pacifici come annunciato, nonostante la rabbia. E cosi' i marines si allontanano silenziosamente.



Sono quasi le ventidue quando Eva, un'attivista anglo-polacca conosciuta alla manifestazione, viene ad avvisarci all'Hotel Al-Fanar. I marines hanno dichiarato che domani mattina alle sei verra' sgombrata la tenda che l'Unione dei disoccupati iracheni ha allestito di fronte al quartier generale di Bremer, per mantenere un presidio costante fino all'accoglimento delle richieste di lavoro.

Alle cinque e trenta, mezz'ora prima che termini il coprifuoco, usciamo per le strade vuote di una Baghdad ancora avvolta dal buio, nella notte morente percorsa dagli elicotteri in ricognizione, unico rumore nel silenzio generale.

Quando arriviamo all'US Army Headquarter sta gia' albeggiando e ci rendiamo conto che la tenda, collocata a circa cinquanta metri dalle trincee, non c'e' piu'. Cuiva, un'attivista irlandese, Eva e due membri dell'Unione ci spiegano che e' stata rimossa dai marines alle due di questa notte con un'azione piuttosto violenta. Sei soldati scortati da un grosso blindato hanno svegliato quelli che dormivano pestandogli i piedi, hanno rovesciato in terra i bidoni dell'acqua, hanno fatto mettere in fila i manifestanti con i fucili puntati; sono state arrestate diciannove persone, tutti i presenti nella tenda tranne i due con cui abbiamo parlato, uno sulla sedia a rotelle, ai quali e' stato ordinato di smontare la struttura.

Con Eva ci avviamo, camminando lentamente, sul sentiero segnato dal filo spinato, fino al posto di guardia. Il marine di turno sembra quasi imbarazzato nel rispondere alle nostre domande. Non e' consentito vedere gli arrestati, che non possono telefonare e non hanno assistenza legale, e non e' possibile nemmeno parlare con i superiori; consiglia di rivolgersi all'ufficio del Civil Affairs dopo le otto e ci comunica che i fermati si trovano nella prigione interna. Dove gli vengono anche forniti i pasti <<Ogni sei ore?>>, <<Questo non lo so>>.

Il soldato, un ragazzo giovanissimo, ci dice che l'operazione e' stata condotta dal tenente Marvin su ordine del capitano Nauman; nessuno ha reagito all'arresto e il rilascio e' previsto per le venti, ma non e' certo. La ragione ufficiale del provvedimento e' la violazione di coprifuoco, che inizia alle ventitre, quindi esiste un lasso di tempo di tre ore prima dell'arresto; il marine non sa dirci perche', cosi' come non sa per quale ragione sia stato ignorato il permesso rilasciato ai manifestanti dalla polizia irachena (la richiesta era stata inoltrata anche alle autorita' statunitensi, che tuttavia non l'hanno presa in considerazione). O meglio, risponde in un modo che nessun suo superiore gradirebbe <<E' una delle contraddizioni tra cio' che fa l'Iraqi Police e cio' che facciamo noi>>.

Gli elicotteri continuano a presidiare massicciamente la zona, mentre prosegue il via vai di carriarmati. Alle nove e mezza la tenda e' stata rimontata e si e' creato nuovamente un numeroso assemblamento di dimostranti.

Poco dopo dodici marines e una jeep circondano l'area. Questa volta e' direttamente il capitano Nauman ha condurre l'operazione e la ragione per cui la struttura va smontata e' diversa <<Noi non possiamo avere una cosa del genere qui davanti, e' la migliore occasione per i terroristi, questo e' il quartier generale>>.

La discussione va avanti con qualche momento di tensione, nessuno vuole compromessi: per i soldati la tenda va tolta, per i manifestanti i loro compagni devono essere immediatamente liberati. Intorno alla struttura si costituisce un cordone di persone, iracheni e attivisti, che si tengono per mano <<Siamo qui perche' vengano liberati gli arrestati, aspetteremo, anche se non sappiamo neppure se sono ancora in questa prigione, non vogliono dirci nulla>>.

Alla fine il capitano decide di non surriscaldare gli animi e, vista anche la presenza di osservatori internazionali, fa entrare nel quartier generale tre rappresentanti dell'Unione per incontrare i fermati. Sono ormai le tredici quando, nei cinquantacinque gradi di Baghdad, i manifestanti vedono uscire i tre delegati insieme ai diciannove arrestati, accolti dagli applausi, dai fischi di gioia e dal grido, in arabo, <<lavoro, lavoro, lavoro>>.

Uno degli arrestati e' Qassim Hadi, il segretario generale dell'Unione dei disoccupati iracheni, il quale racconta che sono stati messi in una stanza sporca, dove potevano soltanto stare seduti. Otto ore senza mangiare e bere; alle undici della mattina gli e' stato dato del cibo, mentre un soldato ha portato tre bottiglie d'acqua di sua iniziativa <<Alle sei uno di noi si e' sentito male, credo per la pressione, e non gli e' stata data assistenza, hanno detto che mentiva. Oggi abbiamo vinto, ma non hanno fatto una cosa democratica con noi, qual e' la democrazia che hanno portato?>>.



MAURO CASACCIA