Quel ponte di Nassiriya, racconto di un massacro



Un'atroce battaglia alle porte della città
I marines sparano a qualunque cosa si muova
Quel ponte di Nassiriya
racconto di un massacro
"Usavano donne e bambini per individuarci"
Lo scontro, i soldati uccisi, la strage di civili
di MARC FRANCHETTI (Sunday Times)

NASSIRIYA - La luce era giallo-verde, e il vento andava aumentando. Era
l'inizio di una tempesta di sabbia. Il silenzio appariva quasi irreale dopo
una notte di fuoco così intensa da far male ai timpani e scuotere i nervi. I
miei passi risuonavano pesanti sull'asfalto incandescente, mentre mi avviavo
verso il ponte di Nassiriya. Davanti a me una scena apocalittica. 15 veicoli
ostruivano la strada. Erano crivellati di pallottole. Alcuni avevano preso
fuoco. In mezzo alle lamiere ho contato dodici civili morti, giacenti per
terra o nei fossi. In piena notte avevano cercato di abbandonare la città,
forse per paura di essere uccisi nel corso degli attacchi dagli elicotteri
Usa o dal fuoco di artiglieria.

L'errore è stato quello di fuggire passando su un ponte di vitale importanza
per gli approvvigionamenti della coalizione. La sfortuna è stata quella di
incorrere in un gruppo di giovani marines, sconvolti dai combattimenti, che
avevano ricevuto l'ordine di sparare a qualsiasi cosa si muovesse. Il
cadavere di un uomo era ancora avvolto dalle fiamme. Ne proveniva uno strano
sibilo. Ficcate nelle tasche delle mazzette di banconote si stavano
trasformando in cenere. Forse erano tutti i suoi risparmi. Lungo la strada
una bambina, sui cinque anni, con un vestitino arancione e oro, giaceva morta
nel fosso, accanto al corpo del padre. Le mancava metà testa. Lì accanto, in
una vecchia Volga crivellata di proiettili, la madre era come afflosciata,
morta, sul sedile posteriore.

Un blindato Abrams americano, sul quale era scritto il soprannome Ghetto
Faboulous ha oltrepassato i cadaveri. Un'altra famiglia di fuggitivi, un
padre, una neonata e un bambino giacevano lì accanto senza vita. Sul ponte il
corpo di un civile era a fianco alla carcassa di un asino.

Mentre mi allontanavo il tenente Matt Martin, il cui terzo figlio, una
bambina di nome Isabella, è nato mentre lui era a bordo della nave diretta
nel Golfo, mi si è avvicinato. "Ha visto?", mi ha chiesto con gli occhi pieni
di lacrime. "Ha visto quella neonata? Volevo seppellirla, ma non ne ho avuto
il tempo. Mi fa davvero male vedere che i bambini sono uccisi in questo modo.
Ma non avevamo altra scelta".

Il dolore di Martin contrastava con l'amara soddisfazione di alcuni dei
commilitoni. "Gli iracheni sono malati. Noi siamo la loro chemioterapia", ha
commentato il caporale Ryan Dupre. "Sto cominciando ad odiare questo paese.
Ma aspettate che catturi un fottuto iracheno... No, non lo catturerò. Lo
ucciderò e basta".

Solo pochi giorni fa i loro erano gli occhi luminosi di ragazzi di provincia,
insieme ai quali ho attraversato la frontiera all'inizio dell'operazione
Iraqi Freedom. Poi sono partiti alla volta di Nassiriya, città strategica
lungo l'Eufrate, con il compito di mettere in sicurezza una strada su cui
devono passare le truppe dirette a Bagdad. Si aspettavano di essere accolti
con un benvenuto, o tutt'al più con una facile resa. Invece si sono ritrovati
invischiati in una sanguinosa battaglia, che è culminata con il bilancio più
grave della guerra: 16 morti, 12 feriti, 2 marines dispersi, oltre a cinque
morti e dodici dispersi tra gli ausiliari del convoglio.

Ci sono tre ponti cruciali a Nassiriya. I servizi credevano che da questa
parte della città ci sarebbe stata scarsa o nessuna resistenza. Io ho
raggiunto la periferia di Nassiriya con la compagnia Alfa. Alcuni marines
parevano dispiaciuti di essere in una missione di secondaria importanza. Ma a
tre miglia dalla città, non appena i soldati si sono fermati, gli iracheni
hanno investito di raffiche di mitra Ak-47 i mezzi Usa.

Subito i nostri Aav, mezzi anfibi da assalto del peso di 23 tonnellate, hanno
assunto posizioni difensive. Cento marines sono saltati giù dai mezzi,
prendendo riparo e acquattandosi nei fossi, tenendo d'occhio un grosso
edificio di mattoni di fango. Piccoli gruppi di marines con armi leggere vi
si sono avvicinati. Una dozzina di civili terrorizzati, quasi tutti donne e
bambini, è uscita con le mani alzate. "E' un gruppo di Haji", ha urlato un
soldato dalla torretta, usando l'appellativo comunemente affibbiato agli
arabi. "Sono soltanto fottute donne e bambini". Intanto gli elicotteri da
combattimento Cobra e Huey hanno iniziato a sparare missili su alcuni
bersagli ai limiti della città.

Lentamente ci siamo avvicinati al primo ponte. Il fuoco divampava su entrambi
i lati della strada. I Cobra avevano distrutto un camion militare iracheno e
un carro armato T-55. Improvvisamente, mentre ci avvicinavamo al limite
estremo del ponte, si è sentita una raffica di Ak-47. I nostri Aav hanno
iniziato a zigzagare per evitare di essere colpiti da una granata con
propulsione a razzo (Rpg). "La vedo male," ha dichiarato il sergente maggiore
James Thompson, veterano della guerra del Golfo, che correva con la pistola
calibro 9 in pugno. "Non sappiamo chi ci sta sparando addosso. Stanno usando
perfino le donne per la ricognizione. Quelle ci vengono incontro salutandoci,
o con le mani alzate. Ma stanno segnalando la nostra posizione ai
combattenti".

Al di là, nella piazza, i civili correvano, cercando di mettersi al riparo.
Molti, compresi alcuni bambini, sono rimasti colpiti nel corso della
sparatoria.

Il capitano Mike Brooks, comandante della compagnia Alfa, bloccato di fronte
alla moschea ha chiamato l'aiuto dei blindati. La terra ha tremato
violentemente quando un Desert Knight si è arrestato di fronte alla nostra
fila di Aav e ha sparato numerosi colpi di 120 millimetri contro le case.
Poche centinaia di metri più in là un mezzo d'assalto della compagnia Charlie
stava tornando indietro sul ponte per evacuare alcuni feriti, quando è stato
colpito dagli Rpg. Una granata è penetrata dal tetto aperto. L'esplosione è
stata letale, seguita dall'esplosione delle munizioni. Le lamiere sono cadute
nel mezzo della strada. Sono saltato giù dal portellone posteriore del nostro
mezzo e ho raggiunto l'Aav colpito. La rampa posteriore era stata squarciata.
C'erano pozze di sangue e pezzi di carne umana ovunque. Una gamba amputata,
con ancora uno stivale da deserto, giaceva su ciò che rimaneva della rampa,
in mezzo a carte da gioco, una rivista, lattine di Coca Cola, un orsacchiotto
macchiato di sangue. "Sono crepati, mio Dio! Sono morti! Riparatevi, entrate
lì! Presto, fateli uscire!" gridava uno sull'orlo di una crisi isterica.

C'era il panico, c'era confusione mentre un gruppo di giovani marines,
urlando parolacce e dandosi ordini l'un l'altro, tiravano fuori un corpo
mutilato. Due uomini lo hanno issato a fatica su una barella, sistemandola
nel retro di una jeep, ma visto che non entrava, l'hanno lasciata quasi in
verticale, con la gamba dell'uomo, parzialmente distaccata, che penzolava
nell'aria. Ogni tentativo di recuperare il terzo corpo è risultato vano. I
resti erano talmente attorcigliati alle lamiere contorte dell'Aav che non è
stato possibile recuperare nulla del marine.

"Il mio pilota è stato colpito", diceva uno dei marines che si sono uniti a
noi. "Sono tornato per cercare di aiutarlo, ma è stato colpito da un altro
Rpg o da un colpo di mortaio. C'era sangue ovunque. Non ho nemmeno un'idea di
quanti amici posso aver perso. Non me ne frega niente se buttano un'atomica
su questo schifo di città, adesso. Da una delle case ci salutavano, e al
tempo stesso ci hanno sparato con i Kalashnikov. E' da pazzi".

Quando finalmente siamo riusciti ad attraversare il secondo ponte a nordest
della città, a metà pomeriggio, si è fatto strada un certo sollievo. Ma un
altro orrore si stava preparando. Oltre ad un ammasso annerito di un altro
Aav fracassato e annerito, c'erano i corpi di altri quattro marines, a terra
nel fango, ricoperti dai poncho mimetici. I brandelli dei loro corpi erano
sparsi in giro. Medici frenetici hanno tentato il possibile per curare le
ferite atroci di quelli vivi, fino a quando quattro elicotteri sono atterrati
nel mezzo dell'autostrada, li hanno caricati a bordo per portarli verso
l'ospedale militare. Quando il suono dell'artiglieria pesante che colpiva
ancora Nassiriya ha scosso il terreno, ci sono state alte grida di
incitamento.

Prima della settimana scorsa, la maggioranza di questi giovani uomini non era
mai stata in combattimento. Pochi avevano visto un cadavere. Ora il loro
sguardo è cambiato. Rabbia e paura sono alimentate dalle voci secondo cui i
corpi dei soldati americani morti sono stati trascinati lungo le strade della
città. Alcuni marines piangono tra le braccia degli amici, altri cercano
conforto leggendo la Bibbia.

Il mattino seguente gli uomini della compagnia Alfa erano nervosi e reagivano
a qualsiasi movimento intorno alle loro buche. Sospettavano che le macchine
dei civili avessero aiutato il nemico rifornendolo. Quando alcune macchine
sono individuate mentre corrono lungo due strade, si susseguono chiamate
frenetiche alla loro radio per ottenere il permesso a "sopprimere i veicoli".
Quando torna l'oscurità arriva l'ordine di sparare a qualsiasi veicolo si
diriga verso le posizione americane.

La mattina dopo ho potuto constatare l'esito di quell'ordine - i civili
morti, la bambina con il vestito arancione e oro. Mike Brooks era uno dei
comandanti che ha dato l'ordine di sparare ai veicoli civili. Si arrovella,
anche se sa di non aver avuto altra scelta se non quella di fare di tutto per
proteggere i suoi dai rischi di un'altra imboscata.

Venerdì mi ha raccontato di aver tenuto un diario, di averlo fatto per sua
moglie Kelly, infermiera di Jacksonville. Quando si avvicina per annotare
l'incidente nel corso del quale due neonati sono stati uccisi dai suoi
uomini, non ce la fa. Mi dice che gliene parlerà a voce. Gli offro una
telefonata con il mio telefono satellitare per farle sapere che sta bene.
Rifiuta, ma mi chiede di scriverle e di spedirle una e-mail. Era troppo
sconvolto, dice. Se avesse sentito la sua voce, lei avrebbe subito capito che
c'era qualcosa che non andava.

(Copyright Sunday Times - la Repubblica Traduzione di Anna Bissanti)

(31 marzo 2003)