In pace e determinazione



“Se potessimo veramente toccare quel luogo, la spada ci cadrebbe dalle mani”


Autunno 2002

Cari amici,
ecco una nuova “lettera dalla strada”, un po’ diversa dalle precedenti in quanto parla di dove stiamo andando e perché ci andiamo, piuttosto che descrivere dove siamo stati. Alcune settimane fa, io e Rabia abbiamo ricevuto l’invito a unirci a una delegazione di pace in partenza per l’Iraq. La nostra reazione è stata immediata e unanime - un semplice “sì” - senza nemmeno bisogno di discuterne. Una convinzione che si è rafforzata col passare dei giorni. Rabia ha osservato: “Molti vorrebbero poterlo fare, esprimere la propria disapprovazione verso la politica aggressiva del nostro governo e la solidarietà per gli iracheni innocenti: ma non possono per motivi pratici. La possibilità noi ce l’abbiamo, quindi dobbiamo usarla.” La partenza dagli USA è fissata per il 30 ottobre, nella speranza di attraversare il deserto da Amman a Baghdad il giorno 4 di novembre. Al momento pensiamo di trattenerci per due mesi, ma dipenderà da vari fattori ancora ignoti. Una volta in Iraq farò il possibile per inviarvi frequenti e più brevi resoconti. Vi invitiamo a partecipare al nostro viaggio, e imparare con noi.

In pace e determinazione
Elias e Rabia



Il mio paese è sul punto di muovere guerra all’Iraq. In segno di protesta contro questa scelta, insieme a mia moglie Rabia, abbiamo deciso di recarci in Iraq di persona, per condividere con comuni cittadini iracheni l’attesa dell’inizio delle ostilità. Appena possibile partiremo con la delegazione di pace per l’Iraq. Perché lo facciamo? Un amico ci ha detto: “E' idealistico, ingenuo, e non cambierà nulla. Le forze in gioco sono immani e stanno già muovendosi. Non si fermeranno, né per voi, né per nessun altro.” In risposta a questa e altre simili obiezioni, e a beneficio dei miei figli, dei miei amici e della comunità estesa, vorrei esprimere in questa sede le motivazioni, politiche e spirituali, che mi spingono a una decisione apparentemente così irragionevole. L’obiezione più comune al “no” alla guerra è: come rispondere a Saddam? Sono dell’avviso che Saddam sia un facinoroso, un pericolo per il suo paese e potenzialmente per tutta l’area. Durante la guerra del Golfo, Rabia e io eravamo a Riyadh, in Arabia Saudita, e siamo scampati per miracolo agli scud di Saddam. Non mi faccio illusioni sulla sua propensione a ricorrere alla violenza, anche se va ricordato che secondo le stime dello stesso Pentagono l’80% del potenziale bellico iracheno fu distrutto nel 1991, e che il 90% delle materie prime e delle attrezzature necessarie per costruire armi per la distruzione di massa è stato liquidato dagli ispettori dell’ONU nel corso di più di otto anni di ispezioni. Ciò non toglie che a mio parere la comunità internazionale, tramite l’ONU, debba agire al fine di contenere e ridurre la capacità e la propensione di Saddam all’uso delle armi, così come è suo dovere farlo nei confronti di tutte le nazioni e i gruppi aggressivi. Tuttavia, la nuova, arrogante politica estera del presidente Bush che consente agli USA di aggredire preventivamente e unilateralmente un paese che non ci ha aggredito, compromette seriamente il progresso morale conseguito dalla comunità delle nazioni negli ultimi cento anni. Ritengo che tale politica sia non soltanto sbagliata, ma rappresenti l’avvento di un nuovo corso che, perseguito, potrebbe portare a decenni di violenza e tragedie. Essa crea un pericoloso precedente per consimili iniziative da parte di altre nazioni e indebolisce sostanzialmente l’autorità dell’ONU nella gestione dei conflitti. Con tutte le sue carenze, l’ONU rappresenta ancora il più promettente esperimento collettivo mai concepito dal genere umano nella ricerca di una via alla pace e alla giustizia nel mondo. Ritengo che l’ONU e tutte le sue risoluzioni debbano ricevere pieno appoggio, e non subire marginalizzazioni o strumentalizzazioni da parte degli imperativi americani. Ma non è questa la sede per sviscerare torti e ragioni in merito alla situazione in Iraq e in Medio Oriente. Mi basti dire che come cittadino degli Stati Uniti provo sgomento e il dovere morale di agire di fronte alla scelta del mio governo di gettarsi in una guerra d’aggressione, scelta che espone il nostro paese a un più elevato rischio di attentati terroristici, destabilizza un’area già instabile, aggrava la polarizzazione e la sfiducia presenti nel mondo, esautora l’ONU, offende i più nobili principi su cui si edifica la nostra nazione e che, soprattutto, provocherà la morte e la mutilazione di molti civili iracheni innocenti. E' quest’ultimo problema, il problema dei cosiddetti “danni collaterali”, che mi turba maggiormente, ed è il motivo principale che mi spinge a recarmi in Iraq. Da questo punto di vista - a fronte dei costi umani di questa guerra imminente - il nostro viaggio in Iraq non è solo una protesta politica per sollecitare un mutamento negli orientamenti del governo. E' anche un gesto morale o spirituale, paragonabile alla preghiera, al pellegrinaggio, o alla pratica di amare il nostro prossimo. E' un appello al cambiamento, certo, ma un appello che si pone fuori dei modi logici e consueti di affrontare i problemi politici, con la sua enfasi sulle cause e gli effetti e la ricerca di azioni specifiche volte a ottenere specifici risultati. Cercare una soluzione ai problemi su questo piano è certamente necessario: ma non è questo che mi motiva a mettere a repentaglio l’incolumità di mia moglie e la mia. Farci pellegrini per essere accanto a una comunità di cittadini di una terra lontana che sta per essere aggredita dal mio paese non ha a che vedere con il “risolvere” problemi. E' un gesto, un appello, rivolto a qualcosa di diverso, a qualcosa dentro di noi, dentro di me e dentro tutti noi, quel luogo in noi dove ci sorprende l’intuizione di un’origine, uno spirito, desideri e destinazione comuni. Se potessimo veramente toccare quel luogo, io credo, la spada ci cadrebbe dalle mani. E' per fare appello a quel luogo in noi, in me, che vado in Iraq. E' un appello più simile alla poesia che alla prosa, forse inutile e incurante dell’esito, ma dedicato nondimeno a qualcosa di prezioso per tutti i popoli: l’immediatezza della solidarietà umana. Siamo, in definitiva, fratelli e sorelle. Che differenza c’è, per innocenza e sacralità, fra mio figlio che dorme nella stanza accanto e un bambino addormentato di Basra o di Baghdad? Se voi foste il padre di quel bimbo iracheno, gli occhi puntati al cielo minaccioso, che cosa provereste? Vi invito a fare esperienza di questa domanda. Ci porta a quel luogo interiore di cui parlavo, il luogo della comune identità. Un luogo tenero e familiare. Vado in Iraq per stare accanto a quel padre perché sono convinto, dopo tutto ciò che si è detto, che ci sia poca differenza fra noi, specialmente per quanto riguarda la vita che vogliamo per i nostri cari. So anche che i privilegi di cui godo sono in qualche maniera alleati alle forze che lo minacciano, e ho bisogno di espiare per questo, se non altro a titolo personale. Voglio che lui e sua moglie e i suoi vicini di casa sappiano che non sono completamente soli, e voglio che la mia famiglia e i miei vicini e la mia comunità sappiano di quell’altra famiglia, e sappiano del ruolo che giochiamo a nostra insaputa nella sua sofferenza. Se fossi nei panni di quel padre, apprezzerei il gesto.

Invieremo frequenti servizi e resoconti, foto digitali e audio al nostro gruppo di sostegno a Boulder, Colorado, che a sua volta li passerà ai giornali, alle radio e alle televisioni locali, nonché ai nostri deputati e senatori al Congresso.

Se siete interessati a unirvi alla delegazione di pace in Iraq, sappiate che ce n’è un gran bisogno e siete caldamente benvenuti! Per informazioni e iscrizioni consultate il sito www.iraqpeaceteam.org




Elias Amidon è un membro anziano della Peacemaker Community <www.peacemakercommunity.org>. Con la moglie Rabia (Elizabeth Roberts) ha fondato l’Institute for Deep Ecology e il Boulder Institute for Nature and the Human Spirit. Entrambi gestiscono corsi di formazione per attivisti spiritualmente impegnati negli Stati Uniti, in Europa e nel Sud Est Asiatico e sono noti a livello internazionale come formatori nel campo dell’ecopsicologia applicata. Hanno inoltre curato le raccolte Earth Prayers, Life Prayers, e Prayers for a Thousand Years. Rabia, studiosa di buddhismo da venticinque anni, tiene lezioni e conferenze in tutto il mondo sui temi dei valori, della leadership e dello sviluppo del potenziale femminile ed è stata coordinatrice al congresso annuale dell’IONS a Palm Springs nel 1997. Elias è docente di direzione ambientale presso la Naropa University, e tiene seminari di spiritualità interreligiosa e azione sociale. E' il Mushid dell’European Sufi Way. Per contattare Elias e Rabia si può scrivere al seguente indirizzo: eliasamidon at earthlink.net.


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Enrico Marcandalli (ramalkandy at iol.it) - http://www.peacelink.it
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