Franco Carlini: OGNI COPIA È LA MIA COPIA



Fonte: il manifesto - 26 Gennaio 2003

OGNI COPIA È LA MIA COPIA

Nonostante abbia perso il primo processo di pirateria informatica, la legge Usa sul copyright resta. Eccessiva, forse incostituzionale, con formulazioni assurde. Ma calibrata sugli interessi della grande industria

FRANCO CARLINI

Alla fine, nel dicembre del 2002, Dmitry Sklyarov e' stato assolto e il primo grande processo di pirateria informatica tenutosi sotto il cappello del Digital Millennium Copyright Act (Dmca) si e' rivelato un buco nell'acqua, anzi di peggio, un vero fallimento. Dmitry e' un giovane programmatore russo che nel 2001 venne in America per partecipare alla annuale riunione degli hacker, il DefCon che si teneva a Las Vegas. Si tratta di un evento ormai ufficiale, che riunisce i migliori programmatori, per lo piu' animati da spirito libertario e anarchico, in genere giovani o giovanissimi e tutti tecnicamente eccelsi, tanto che le aziende ormai frequentano il convegno per scoprire e arruolare nuove idee e talenti. Dmitry era andato al DefCon per presentare pubblicamente un suo software, in grado di sbloccare i sistemi di protezione alla lettura che la casa di software Adobe aveva inserito nei suoi libri e-book. In quel periodo infatti si era generata una grande (e artificiosa) aspettativa nei confronti dei libri elettronici: testi digitali impacchettati in un opportuno formato (in realta' un guscio software) che li avrebbe resi leggibili con una buona definizione sui monitor, permettendo anche facili ricerche dentro il testo, la possibilita' di sfogliarli pagina a pagina, di inserire annotazioni e di godere di altre funzionalita' avanzate. In realta' molte di queste prestazioni erano gia' offerte dai normali programmi di trattamento dei testi, come il famoso Microsoft Word (formato.doc) o lo stesso e gratuito Acrobat Reader della stessa Adobe (i formati .pdf), ma la novita' stava nel fatto che questi libri erano destinati alla vendita online e percio' dotati di un sistema di protezione digitale che ne permette la lettura solo a chi abbia pagato.

Questi sistemi di protezione, che sono di varia complessita' e robustezza, prendono il nome di sistemi Drm (Digital Rights Management, gestione dei diritti digitali) e per loro natura offrono comunque una protezione limitata. In ogni caso costituiscono una sfida concettuale e pratica per gli hacker e per coloro che ritengono che le idee e i libri debbono poter circolare e devono poter essere letti liberamente.

Dmitry dunque, lavorando per l'azienda di software russa Elcomsoft, aveva scoperto come funzionava il sistema di protezione di Adobe e trovato il modo di sbloccarlo e questo si apprestava a raccontare al DefCon. Arrivarono invece gli agenti dell'Fbi che lo arrestarono e lo tennero in prigione per 20 giorni. Questo perche' la legge Dmca, firmata dal presidente Bill Clinton il 28 ottobre 1998 considera un reato il «fabbricare, importare, offrire al pubblico, fornire o comunque trafficare in ogni prodotto tecnologico, servizio, apparato, componenti o parte» progettati per aggirare le tecnologie di protezione dalle copie o di protezione all'accesso.

Dmitry riusci' a ottenere la liberta' provvisoria e torno' in Russia, avendo accettato di collaborare con gli inquirenti: in pratica testimonio' di avere realizzato quel suo programma all'interno e per incarico dell'azienda presso cui lavorava e gli inquirenti pensarono di poter ottenere una condanna esemplare della Elcomsoft, azienda pirata straniera, cosi' dimostrando al mondo che le leggi americane possono essere fatte valere in tutto il mondo, anche se sono piu' severe e rigide dei trattati internazionali sui brevetti e sul copyright. Al processo, che si e' tenuto nel dicembre 2002, Dmitry e' tornato in America, si e' fatto interrogare ed e' stato clamorosamente assolto dalla giuria di San Jose' in California e con lui anche l'azienda russa, che rischiava una sanzione finanziaria fino a due milioni di dollari.

Per il Dmca senza dubbio e' stato uno scacco pesante che da' forza ai suoi molti oppositori e anche molti tra quelli che l'avevano sostenuta giudicano quella legge ormai eccessiva, forse incostituzionale e certo dannosa per l'innovazione. In sostanza una legge calibrata soltanto sugli interessi dell'industria dei media, in contrapposizione agli interessi dei cittadini. E' una legge pessima che fu inizialmente pensata dal tandem presidenziale Clinton-Gore, all'interno di un'idea progressiva. Ed e' questa storia che vale la pena di capire meglio. L'idea iniziale era quella allora chiamata «autostrade dell'informazione» e poi NII (National Infrastructure Iniziative): la creazione di una vasta e connessa infrastruttura nazionale a larga banda di servizio pubblico, ma anche disponibile per i commerci elettronici e l'intrattenimento. La NII avrebbe dovuto essere finanziata e costruita dai privati, ai quali pero' occorreva offrire una ragionevole aspettativa di ritorno degli investimenti. Le autostrade dunque si sarebbero riempite di bit se le aziende dei media avessero creato nuovo servizi e soprattutto spettacoli di intrattenimento che il pubblico avrebbe comprato; ma questo sarebbe avvenuto solo se alle aziende dei contenuti fossero state garantite piu' robuste e sicure protezioni a difesa dei loro diritti di proprieta' intellettuale e contro la pirateria.

Le cose in realta' andarono abbastanza diversamente da quanto Gore immaginava nel 1992, perche', senza bisogno di investimenti colossali, le autostrade dell'informazione gia' si stavano sviluppando, in forma di Internet. E l'esplosione nel 1995 della New Economy, con la parallela ipervalutazione dei titoli di borsa, forni' alle aziende delle infrastrutture i fondi necessari per cablare piu' volte l'intero pianeta. Ma nel frattempo l'amministrazione Clinton aveva messo al lavoro una Information Infrastructure Task Force, a sua volta suddivisa in comitati, e uno di questi era il Working Group on Intellectual Property, presieduto dal commissario Usa per i brevetti, Bruce Lehman. Questo gruppo di lavoro si dimostro' rapidamente incompetente di informatica e reti e dominato dagli interessi delle aziende degli Old-Media: cinema, musica e televisione. Il Libro Verde reso pubblico nel luglio 1994 e, in maniera linguisticamente piu' sfumata, il definitivo Libro Bianco del settembre 1995, sono la base concettuale del successivo Dmca e delle sue formulazioni piu' assurde e pericolose.

Una delle idee chiave dei due documenti e' il concetto di copia. Si sostenne infatti che ogni volta che un contenuto digitale compare nelle memorie di lavoro di un computer, questa debba essere considerata una copia a tutti gli effetti delle leggi sul copyright e che dunque su di essa il titolare possa esercitare i suoi diritti, autorizzandola o meno, chiedendo un pagamento eccetera.

Per capire quanto insensata sia questa definizione estesa di copia, bisogna ricordare come funziona l'Internet: ogni volta che un navigatore chiama a se' una pagina, per esempio del Wall Street Journal, quotidiano online a pagamento, il server di questa testata spedisce un file fatto di bit che viaggia attraverso molti nodi della rete (i router). Ogni nodo e' un computer e nella memoria di lavoro (ram) di ognuno di loro viene creata una copia temporanea di quella pagina. Essa vive pochi secondi o frazioni di secondo, giusto il tempo di spedirla alla «stazione» successiva, finche' arriva a destinazione. Ma nessuna di queste copie ha la caratteristica di «fissarsi» su di un supporto come prevede la legge americana perche' si possa parlare di copia: sono tutte copie effimere, unicamente funzionali alla consegna. Quando poi la pagina si presenta sul monitor del computer del cliente che l'ha richiesta, egli, se e' un acquirente legittimo, dovrebbe poterne fare cio' che vuole, secondo le buone norme della compravendita, la dottrina del «primo acquisto»: stamparla, trasferirla su di un altro computer, farla leggere a un amico e cosi' via. Invece secondo il Gruppo di Lavoro, ognuno che voglia guardare, leggere, rileggere o comunque utilizzare un'opera digitale, dovrebbe essere dotato della debita autorizzazione legale da parte del titolare del copyright.

Una tale formulazione e' allucinante, dato che violentemente contrasta con il buon senso, con le buone pratiche della rete e con le leggi vigenti del copyright ed effettivamente dopo di allora nessuno ha osato riproporre un punto di vista cosi' estremista. Ma il suo peso non va sottovalutato perche' quel micidiale Libro Verde-Bianco, fondamento teorico del successivo Dmca, e' tuttora l'orizzonte entro cui si muovono le ambizioni delle mayors dei contenuti.

Il loro obbiettivo infatti non e' semplicemente quello di ripristinare ai livelli precedenti il loro diritto sulla proprieta' intellettuale che la digitalizzazione e la rete stanno compromettendo, ma e' invece di colonizzare e conquistare la rete, trasformandola in quella efficiente macchina da soldi che finora non e' stata. Per farlo i sistemi di protezione sull'accesso e sulle copie sono soltanto il prerequisito: solo chi paga puo' ascoltare la mia musica e solo chi paga di nuovo puo' cederne ad altri una copia. Piu' avanti arrivera' il pieno dispiegarsi dell'accesso al punto della proprieta': un brano musicale non viene piu' ceduto, ma ne viene consentito l'ascolto, senza altra possibilita', e ogni altro ascolto o lettura richiedera' il pagamento di un biglietto, come quando si va a teatro.E poiche' la catena distributiva passa attraverso numerosi soggetti terzi, gli Internet Provider, ecco che classificare come «copia» anche la semplice comparsa in ram dei contenuti digitali, consentira' legittimamente di chiedere anche a loro di farsi carico del problema, per esempio denunciando o espellendo quei loro utenti che illegalmente trasmettono bit non autorizzati. All'operatore telefonico Verizon un giudice americano ha appena ordinato di rendere noto il nome di un suo abbonato che smistava troppi file musicali. La Verizon si e' appellata, non per amore della liberta', ma perche' se divenisse una prassi i costi del controllo risulterebbero enormi.