La nonviolenza e' in cammino. 375



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it



Numero 375 del 5 ottobre 2002



Sommario di questo numero:

1. Clara Levi Coen, nella verita' e nella giustizia

2. Pax Christi, non una vittoria che divide ma una pace che affratella

3. Enrico Peyretti, un delitto internazionale

4. Salvatore Baiocchi: a Firenze prevalga l'unica forza che l'uomo deve
coltivare e usare, quella della ragione

5. Peppe Sini: verantwortung e satyagraha, o della gratitudine

6. Jean Marie Muller, momenti e metodi dell'azione nonviolenta (parte seconda)

7. A Pinerolo un corso sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti

8. Riletture: Rosalba Cannavo', Pippo Fava. Cronaca di un uomo libero

9. Riletture: Marianne Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli
indiani

10. Riletture: Nadia Neri, Un'estrema compassione

11. La "Carta" del Movimento Nonviolento

12. Per saperne di piu'



1. MAESTRE. CLARA LEVI COEN: NELLA VERITA' E NELLA GIUSTIZIA

[Da Clara Levi Coen, Martin Buber, Edizioni cultura della pace, S. Domenico
di Fiesole (Fi) 1991, p. 117. Illustre pensatrice, membro della Societˆ
Filosofica Italiana, insigne studiosa dell'opera di Martin Buber, Clara
Levi Coen ebbe anche una lunga amicizia col filosofo del pensiero dialogico]

L'ideale della pace, considerata da Buber "la meta finale di tutto il
mondo", deve essere realizzato nella vita politica e sociale. Questo
ideale, fondamentale nel pensiero di Buber, e' uno degli aspetti della sua
filosofia "dell'incontro tra uomo e uomo" e dell'Io-Tu. Soltanto nel
rapporto "tra" l'uno e l'altro puo' attuarsi la vera pace che e'
comprensione e collaborazione tra gli uomini che debbono attuare il regno
di Dio sulla terra. La vera pace si manifesta nella verita' e nella
giustizia e non puo' divenire uno "slogan", utile soltanto a scopi di
propaganda.



2. APPELLI. PAX CHRISTI: NON UNA VITTORIA CHE DIVIDE MA UNA PACE CHE AFFRATELLA

[Da Pax Christi (per contatti: paxchristi at tiscali.it) riceviamo e
diffondiamo, associandoci all'appello affinche' nel referendum del 6
ottobre prevalga il sentimento della comune umanita']

Il Consiglio nazionale di Pax Christi esprime tutto il suo sostegno alla
decisione del sindaco di Bolzano, Giovanni Salghetti Drioli e alla sua
giunta, di cambiare il nome della piazza tanto contesa passando da Vittoria
a Pace. Ci sembra un atto di apertura ad un orizzonte di convivialita'
delle differenze, come direbbe don Tonino Bello, oltre che un messaggio di
armonia in un momento storico che vive nel terrore della guerra preventiva
e permanente.

Sappiamo bene cosa significa quella piazza per i cittadini di lingua
tedesca dell'Alto Adige, che hanno vissuto il dramma della "sconfitta"
nella grande guerra e la perdita del territorio. E poi, ancora, sotto il
nazifascismo, hanno dovuto subire la pressione dell'Italia da una parte con
l'arroganza di un sistema che avrebbe voluto togliere i vincoli culturali e
linguistici delle popolazioni sudtirolesi e dall'altra con la prepotenza
aggressiva del Terzo Reich che rivendicava spazi per il suo folle progetto
di costruire una Grande Germania (pensiamo quali lacerazioni produsse
l'accordo di Berlino del '39 con le relative opzioni).

Per troppo tempo il nome della Vittoria ha diviso le popolazioni dell'Alto
Adige-Sudtirolo tant'e' che quella piazza venne conosciuta in tutto il
mondo come la piazza dello scontro etnico fra italiani e tedeschi, e il
monumento come il simbolo dell'italianita' antagonista al mondo tedesco (la
scritta latina ne e' la testimonianza).

E dunque bene ha fatto il sindaco Salghetti a mettere fine ad un periodo
cosi' lungo di divisione per trovare una parola (pace) che sintetizzi gli
sforzi di quanti, in Alto Adige, hanno lavorato con passione e speranza
affinche' si aprisse un capitolo nuovo nella storia della terra
"laboratorio di convivenza".

La testimonianza degli obiettori al nazismo Josef Mayr-Nusser e Franz
Thaler, la passione civile di Alexander Langer, gli sforzi politici di
tutti coloro che hanno voluto ricucire vecchi rancori e vecchie
lacerazioni, sono sintetizzati in questo passaggio dalla vittoria alla pace.

Tanto piu' oggi, all'inizio del terzo millennio, in un mondo in cui
l'interazione fra i gruppi umani e' sempre piu' la regola della vita,
superare un concetto come "vittoria" rappresenta una conquista culturale
importante per tutta la comunita' europea. A questo proposito ci sembrano
davvero fuori luogo le dichiarazioni di quanti da una parte esaltano la
novita' Europa unita e dall'altra premono su antichi "valori" della nostra
storia passata.

Come cristiani, dunque, e come uomini di pace ci sentiamo in dovere di
invitare i cittadini di Bolzano a dare concretamente un segno di pace il
prossimo 6 ottobre, giorno del referendum sulla piazza, affinche' davvero
non vincano battaglie di retroguardia culturale e politica, ma avanzi la
convivenza e l'armonia fra le differenze che rende cosi' ricco e
interessante l'Alto Adige-Sudtirolo.



3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: UN DELITTO INTERNAZIONALE

[Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) e' una delle figure
piu' prestigiose della riflessione nonviolenta in Italia]

Il Congresso Usa, rinunciando alla prerogativa suprema di una democrazia,
la decisione tra guerra e pace, ha nominato Bush dittatore di guerra,
libero di decidere una guerra unilaterale, anche contro le decisioni
dell'Onu. Cio' che Bush intende fare e' un delitto internazionale, contro
il piu' prezioso ed evoluto diritto delle genti (jus gentium) che
l'umanita' si sia mai data, cioe' la Carta delle Nazioni Unite, il diritto
positivo internazionale di pace. Ed e' un'azione violenta e arbitraria
d'imperio che pretende punire il governo e il popolo dell'Iraq contro le
regole umane e razionali di ogni giudizio giusto, contro il parere della
comunita' dei popoli, contro una larga e qualificata opinione del suo
stesso paese.

In Italia l'Ulivo si divide sull'invio degli alpini nella guerra in
Afghanistan. Quella guerra, a cui l'Ulivo stesso per debolezza acconsenti',
non e' mai stata lotta al terrorismo, ma errore tragico e stolto, che
alimenta il terrorismo invece di toglierne cause e pretesti. Il governo Usa
ha colto l'occasione dell'11 settembre per scatenare una guerra di
conquista del centro dell'Asia, in funzione di dominio strategico ed
energetico. Non e' male questa divisione nell'Ulivo, che puo' essere una
chiarificazione.

Infatti, il criterio principe della politica, sia di governo sia di
opposizione, e in particolare il criterio principe della sinistra
autentica, e' la pace, cioe' la soluzione dei conflitti senza la violenza
omicida delle armi.



4. RIFLESSIONE. SALVATORE BAIOCCHI: A FIRENZE PREVALGA L'UNICA FORZA CHE
L'UOMO DEVE COLTIVARE E USARE, QUELLA DELLA RAGIONE

[Siamo assai grati a Salvatore Baiocchi (per contatti: info at poliziotti.it)
per questo suo importante contributo alla riflessione sollecitato dal
nostro appello "Perche' non scorra il sangue per le vie di Firenze", che
abbiamo riportato nel notiziario di ieri. Salvatore Baiocchi e'
coordinatore generale di "Poliziotti.it"; libera associazione non sindacale
di appartenenti alla Polizia di Stato]

Gentilissimo professore,

dopo molti mesi torno a scriverle e lo faccio con sincero piacere per
manifestarle il mio piu' sincero apprezzamento per il comunicato con il
quale ha voluto lanciare questo appello che e' un richiamo forte alla
ragione.

Come certamente sapra', la citta' di Firenze vive l'attesa del Social Forum
Europeo non senza apprensione e gia' da alcuni mesi, e adesso che
all'appuntamento manca poco meno di un mese l'"ambiente" comincia a
diventare carico di tensioni e ansie, certamente comprensibili ma non
"necessarie" ne' utili.

Inutile stare qui a dire di chi e' la colpa, che se dovessi indicarne uno
direi l'"irresponsabilita'" di molti e l'"irragionevolezza" di tanti, ma
tant'e', pare che il buonsenso non alberghi piu' nell'animo umano, anzi, in
circostanze come queste in cui la serenita' e la maturita' nelle
riflessioni dovrebbero essere un imperativo ad evitare che la follia
finisca per avere ancora una volta il sopravvento, pare che ci sia chi
opera una scelta del tutto opposta, quella cioe' di perseverare
diabolicamente in atteggiamenti che hanno gia' concorso, a mio modo di
vedere in misura determinante, perche' quella follia si concretizzasse nei
tragici fatti di Genova.

Peraltro, come gie' ebbi modo di dire in quel breve scambio di riflessioni
nell'immediato dopo Genova, mi permetto di osservare che la chiave di
lettura da lei data alle violenze e agli eccessi di alcuni poliziotti (di
loro e solo di loro voglio parlare in quanto appartenente all'Istituzione
Polizia di Stato), a mio modesto avviso e' riduttiva e limitante.

Affermare che quegli atti sconsiderati da parte, comunque, di una ristretta
minoranza siano da attribuire a deviazioni comportamentali quali il sadismo
e che siano state rese possibili dal fatto che essi si sentissero in
qualche modo favoreggiati dal governo significa in qualche modo negare che
la situazione che si era venuta a creare fosse di eccezionale gravita', di
caos estremo, e che in circostanze simili tutto puo' fatalmente accadere;
il che non significa evidentemente che si possa o si debba giustificare, ma
ci si puo' almeno sforzare di comprenderne il perche'.

Posto che e' l'uomo che determina le proprie azioni, e che di queste e
delle loro eventuali conseguenze ogni singolo individuo e' responsabile nel
bene e nel male, considero che non si possano valutare operando una
decontestualizzazione, meno che mai in situazioni di caos totale quale
quello che ha imperato a Genova dove quella che lei definisce "la violenza
dei teppisti e golpisti in divisa" non corrisponde a criteri di una serena
e obiettiva lettura dei fatti.

A Genova non c'erano uomini in divisa assetati di violenza, pronti a
scatenarsi e a colpire indiscriminatamente con furia cieca chiunque gli
capitasse a tiro che hanno colto a pretesto l'"atteggiamento" di alcuni di
"coloro che hanno avuto responsabilita' decisionali, organizzative e di
effettuale direzione del 'movimento di movimenti'".

A Genova e' intervenuta una situazione di tale caos generale e
generalizzato, pianificato e voluto, alimentato per lungo tempo tanto da
renderlo non possibile ma follemente certo, con quegli "atteggiamenti e
scelte" ai quali lei stesso fa riferimento nel suo appello.

Questa e' stata la follia che ha generato eccessi, violenze, che ha
provocato sangue e un terribile lutto.

Lei dice: "Sia chiaro: sono ovviamente ben diverse le responsabilita' di
chi commette una violenza e di chi ha contribuito a creare le condizioni
perche' essa si desse"; e come non essere d'accordo, ma occorre fare una
riflessione e una precisazione, e porsi dei quesiti:

- Si puo' ritenere non responsabile di una violenza e delle sue dirette
conseguenze colui (o coloro) i quali si adoperano attivamente perche' alla
violenza si debba giungere?

- Puo' chiamarsi fuori da responsabilita' colui (o coloro) i quali
accendono una miccia e lasciano che bruci, anzi, ne proteggono la fiamma e
la alimentano fino a che questa infiamma le polveri e provoca la successiva
esplosione, dopo aver anche saturato un ambiente?

- Si puo' ragionevolmente sostenere che questo atteggiamento sia meno grave
di quello di chi, potendo o dovendo, non e' intervenuto o non e' stato in
grado di farlo efficacemente per scongiurare il pericolo?

Io dico di no, gentilissimo professore. Ed ecco che allora, seppure con le
precisazioni che ho sentito di rappresentarle, le quali, lo ripeto a scanso
di equivoci o, peggio, strumentalizzazioni, non vogliono in nessun modo
essere giustificative di comportamenti oggettivamente inqualificabili e
indefinibili, mi sento in dovere, perche' i miei sentimenti e la mia
coscienza di uomo me lo impongono, di riaffermare i concetti da lei
espressi in chiusura del suo appello.

Non si puo' essere ambigui: chi e' ambiguo e' complice. Ci sta a cuore la
vita e l'integrita' di ogni essere umano.

E un augurio perche' a Firenze prevalga l'unica forza che l'uomo deve
coltivare e usare, quella della ragione, con la speranza e la fiducia che
cosi' sara'.

La saluto cordialmente, ringraziandola per l'attenzione che la sua
associazione ci dedica.



5. RIFLESSIONE. PEPPE SINI: VERANTWORTUNG E SATYAGRAHA, O DELLA GRATITUDINE

Verantwortung, in tedesco, significa responsabilita', ed e' il concetto
chiave di un'etica all'altezza dei problemi che la civilta' contemporanea
pone ad ogni essere umano (c'e' un grande libro di Hans Jonas, Il principio
responsabilita', con cui il confronto e' ineludibile; ma la reponsabilita',
il rispondere all'altro, il rispondere dell'altro, l'essere responsabile
per l'altro, e' anche il cuore della riflessione di Emmanuel Levinas, non
meno luminosa).

Satyagraha e', con ahimsa, uno dei termini coniati da Gandhi per definire
la proposta nonviolenta: il suo campo semantico e' assai vasto e ricco di
risonanze, ma una traduzione non infelice e' quella piu' nota: forza della
verita', adesione alla verita' (ma molte altre sono possibili);ed insieme
ad ahimsa (che potremmo tradurre: contrario della violenza, ovvero
opposizione alla violenza, in-nocenza, rifiuto di nuocere, lotta contro il
male) definisce molto bene alcuni aspetti, ed alcune radici, ed alcune
direzioni di ricerca, della scelta nonviolenta.

Responsabilita' ed amore del vero e del buono possano ispirare il nostro
agire sempre. Abbiamo cercato di farlo promuovendo l'appello "perche' non
scorra il sangue per le vie di Firenze": esso ha gia' suscitato alcune
riflessioni ed alcuni consentimenti di amiche ed amici molto cari, che qui
vogliamo tutti ringraziare per le lettere personali che ci hanno inviato:
oltre a Salvatore Baiocchi che ha avuto la squisita gentilezza di scrivere
un ampio intervento che pubblichiamo qui sopra, gli amici dell'associazione
"Martin Buber", Andrea Ferrante dell'Arci, Pierluigi Ontanetti dell'Agesci,
Paolo Finzi di "A. rivista anarchica", il senatore Fiorello Cortiana,
Ettore Masina, Mao Valpiana di "Azione nonviolenta", Lidia Menapace, Carlo
Schenone, Arianna Marullo, Enzo Orsomarso: ognuno con la sua sensibilita',
e tutti ugualmente cari al nostro cuore.

Postilla per sorridere: non e' mancato qualche anonimo buontempone; dopo la
diffusione di quell'appello ci stanno arrivando in continuazione messaggi
di posta elettronica recanti virus, in quantita' cosi' abnorme da sembrarci
non casuale e verosimilmente da mettere in relazione con l'agire volontario
di qualcuno che non ci apprezza ed insieme non ci dimentica (un po' come
quel giovine Catullo): pazienza.



6. MATERIALI. JEAN MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL'AZIONE NONVIOLENTA
(PARTE SECONDA)

[Riportiamo la seconda parte del testo di un opuscolo edito dal Movimento
nonviolento che a sua volta riproduceva anastaticamente un capitolo di una
piu' ampia opera. L'opuscolo e': Jean Marie Muller, Momenti e metodi
dell'azione nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, s. i. l. ma
verosimilmente Perugia 1981; il libro e' Jean Marie Muller, Strategia
dell'azione nonviolenta, Marsilio, Venezia-Padova 1975 (il capitolo e' il
settimo, alle pp. 73-99). Noi riproduciamo qui il testo di Muller senza le
note dell'autore e senza la presentazione del traduttore Matteo Soccio (uno
dei maggiori studiosi ed amici della nonviolenza in Italia), rinviando per
la lettura del testo integrale all'acquisto dell'opuscolo, disponibile
presso il Movimento nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it. Jean Marie
Muller e' nato nel 1939 a Vesoul in Francia, docente, ricercatore, e' tra i
pi? importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente,
oltre che attivo militante nonviolento e fondatore del  MAN (Mouvement pour
une Alternative Non-violente). Opere di Jean-Marie Muller: Strategia della
nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza,
Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento
Nonviolento, Torino 1980; Metodi e momenti dellâazione nonviolenta,
Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha,
Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1994; Le principe de non-violence. Parcours philosophique,
Desclee de Brouwer, Paris 1995; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1999. La prima parte del testo di Muller abbiamo presentato nel
notiziario di ieri]

6. Azioni dirette

Divenuta inevitabile la prova di forza, in seguito al fallimento dei mezzi
di persuasione, e' necessario mettere in opera dei mezzi di costrizione.
Sottolineiamo tuttavia che e' opportuno proseguire lo sforzo di
persuasione, in modo particolare nei confronti dell'opinione pubblica.
Comunque, a questo stadio del conflitto, non si tratta piu' soltanto di
invitare l'opinione pubblica a esprimersi: bisogna incitarla ad agire.
Percio' le manifestazioni pubbliche non devono essere interrotte. Si puo'
prevedere che, quando il conflitto si inasprira', queste manifestazioni
vengano proibite. Sara' percio' compito dei responsabili dei movimento
calcolare la capacita' dei manifestanti di far fronte alla repressione
delle forze di polizia attenendosi ai principi e ai metodi della
nonviolenza. Potra' verificarsi il caso in cui sia necessario sospendere
una manifestazione essendoci probabilita' che essa non si svolga senza
offrire pretesti per gravi disordini, il che arrecherebbe discredito al
movimento. Certi ripiegamenti strategici si rivelano necessari allo scopo
di permettere una migliore preparazione della successiva offensiva. Sara'
percio' opportuno rinforzare l'organizzazione e il servizio d'ordine delle
manifestazioni e forse limitare volontariamente il numero dei manifestanti,
per essere in grado di sfidare il governo; infatti non si possono
sospendere tutte le manifestazioni. Una simile misura sarebbe una prova di
debolezza e rischierebbe di pregiudicare il morale di coloro che sono
mobilitati per la lotta e di spezzare il dinamismo del movimento. Nel 1962,
durante la campagna condotta ad Albany, una disposizione federale proibi'
una manifestazione di massa indetta da King. Questi, dopo molte esitazioni,
decise finalmente, contro il parere di numerosi leader, di disdire la
manifestazione prevista perche' non voleva violare un'interdizione del
Governo federale che lo aveva sostenuto fino ad allora contro le autorita'
locali quando queste non rispettavano i testi costituzionali. Ma
"successivamente - ci ricorda sua moglie Coretta - egli ebbe l'impressione
che fu questa decisione ad aver spezzato lo slancio del movimento di
Albany, e se ne dispiacque".



a. Azioni dirette di non-cooperazione

E' importante che i gesti di non-cooperazione proposti dal movimento siano
alla portata di tutti. Chiedere dei gesti di rottura le cui conseguenze
siano molto gravi significa riservare l'azione ad un'elite e costringere
gli altri a tenersi ai margini, nella veste di semplici spettatori; mentre
e' essenziale che il maggior numero di persone possa partecipare.

Facciamo notare che molte di queste azioni di non-cooperazione, cosi' come
abbiamo rilevato per le semplici manifestazioni, possono essere o no azioni
di disobbedienza civile secondo la legislazione in vigore o le decisioni
prese dalle autorita' governative durante il conflitto.

Fra le azioni di non-cooperazione che possono essere adottate nel caso di
una campagna di azione diretta, ricordiamo in particolare:

- L'hartal. Un hartal e' un giorno di sciopero generale durante il quale
viene chiesto a tutta la popolazione di disertare i luoghi di lavoro, le
strade e i locali pubblici e di restare a casa. In quel giorno, tutte le
attivita' devono cessare, le citta' e i paesi devono sembrare morti. Un
hartal puo' essere deciso allo scopo di inaugurare la campagna di azione
diretta. Esso esprime la determinazione della popolazione a condurre la
lotta fino a che i diritti non verranno riconosciuti e rispettati;
manifesta la sua unita' e la sua capacita' di autodisciplina. Il successo
di un hartal implica che la popolazione abbia forte coscienza della portata
del conflitto in corso e abbia gia' dato segni concreti della sua
determinazione. Gandhi fece ricorso a questo metodo in diverse occasioni.
Fu proprio con un hartal che egli inauguro', il 6 aprile 1919, la prima
campagna di azione diretta che segnava l'inizio della lotta aperta
dell'India contro il governo britannico per la sua indipendenza. Questo
metodo fu pure utilizzato a Budapest nel 1956, all'inizio della rivoluzione
ungherese.

L'hartal puo' anche essere presentato come una giornata di "lutto
nazionale" deciso dalla popolazione al fine di esprimere i suoi sentimenti
di fronte ad una qualche decisione dei governo mirante a privarla di uno
dei suoi diritti essenziali.

- Rinvio di titoli e di decorazioni. Il rinvio di titoli e di decorazioni
non puo' non avere un'influenza diretta nel rapporto di forze in campo.
Esso e' essenzialmente un gesto simbolico, ma in quanto tale nel suo
impatto sull'opinione pubblica puo' essere considerevole.

Nel piano di non-cooperazione che egli compi' nel 1920, la prima tappa
prevista da Gandhi era il rinvio dei titoli e la rinuncia ai posti
onorifici. Gandhi, come d'abitudine, diede il primo esempio e il primo
agosto 1920 restitui' al vicere' le tre medaglie che gli erano state
conferite per i suoi buoni e leali servizi resi all'impero britannico.

Nel 1970 negli Stati Uniti i resistenti alla guerra del Vietnam
organizzarono una manifestazione di massa durante la quale soldati
americani in congedo che avevano partecipato a questa guerra gettarono a
terra le loro decorazioni, secondo una messinscena che dava a questo gesto
un significato del tutto particolare. Questa manifestazione impressiono'
notevolmente l'opinione pubblica sia nazionale che internazionale.

Si puo' ragionevolmente pensare che se molte personalita' francesi in vista
(universitari, scrittori, vescovi...) decidessero di restituire al
presidente della Repubblica la loro Legione d'onore per protestare, ad
esempio, contro le vendite di armi, consentite dal governo francese, tanto
al governo razzista del Sudafrica quanto alla dittatura militare del
Brasile, questo gesto non mancherebbe di colpire vivamente l'opinione
pubblica. Esso avrebbe una portata non soltanto simbolica, ma realmente
politica.

- Lo sciopero. Lo sciopero illustra direttamente il principio di
non-cooperazione. Poiche' i capitalisti (nel senso tecnico della parola)
devono in gran parte la loro potenza economica e sociale alla cooperazione
degli operai, e' possibile per questi ultimi (quando sono vittime di una
ingiustizia relativa sia alle loro condizioni di lavoro, sia alle loro
condizioni di salario) interrompere questa cooperazione allo scopo di
costringere i propri avversari di classe a riconoscere i loro diritti.
Certo, numerosi scioperi si sono svolti in un contesto di violenza e
sarebbe ridicolo pretendere di recuperare gli scioperi operai nel campo
della nonviolenza. Tuttavia, e' opportuno rilevare che se delle forme di
violenza hanno accompagnato molto spesso - non sempre - gli scioperi, esse
sono rimaste marginali rispetto all'azione di sciopero propriamente detto.
D'altronde resterebbe da dimostrare l'efficacia reale di queste violenze,
in rapporto all'evoluzione del conflitto. Qui e' importante sottolineare
che lo sciopero puo' essere organizzato attenendosi strettamente allo
spirito e ai principi della nonviolenza e, pensiamo, con maggiori
possibilita' di successo.

- Il boicottaggio. Il principio del boicottaggio e' una variante del
principio di non-cooperazione. I proprietari di una impresa commerciale
devono la loro ricchezza alla cooperazione volontaria dei loro clienti. Il
boicottaggio consiste, quando per esempio i proprietari rifiutano di
soddisfare una certa rivendicazione del personale giudicata essenziale, nel
ritirare loro il beneficio di questa cooperazione al fine di esercitare su
di essi una pressione sociale che li costringa a cedere. Il potere di
acquisto dei consumatori diventa allora un vero potere sociale che si
oppone al potere dell'avversario. Certo, il boicottaggio puo' riuscire solo
se una forte percentuale della popolazione si unisce al movimento. Cio'
dovrebbe essere possibile soprattutto quando l'obiettivo e' particolarmente
chiaro e preciso, poiche' la partecipazione a un boicottaggio non comporta
generalmente gravi inconvenienti.

Lo sciopero e il boicottaggio condotti da Cesar Chavez negli Stati Uniti
illustrano in modo esemplare la possibilita' e l'efficacia della lotta
nonviolenta nel contesto della lotta di classe. Cesar Chavez non si e'
avvicinato agli oppressi per fornire loro il suo aiuto generoso. Egli e'
nato tra di loro. E' uno di loro. E' uno di quegli americani di origine
messicana, uno di quei chicanos che formano la maggior parte della
manodopera dei vigneti californiani. I chicanos costituiscono il tipo
stesso di un sottoproletariato inorganizzato e sfruttato. Tutti gli sforzi
compiuti in precedenza erano stati spezzati dai proprietari e votati al
fallimento. Cesar Chavez ha lavorato dapprima con Saul Alinsky nel quadro
della Comunity Service Organisation e fu in questo lavoro che egli scopri'
in maniera empirica i principi della strategia dell'azione nonviolenta.
Solo piu' tardi egli scopri' Gandhi a cui si riferi' costantemente cosi'
come a Martin Luther King. Dopo aver rotto con questa organizzazione, che
giudicava troppo lontana dagli operai stessi, egli decise di creare un
sindacato. Prima di lanciare delle azioni di rivendicazione impiego'
parecchi mesi in un lavoro di "coscientizzazione" e di organizzazione.
Spinto dalle circostanze, quando non si sentiva ancora sufficientemente
pronto, nel 1965 diede slancio al suo movimento in uno sciopero. Chavez
volle sin dall'inizio che il movimento diventasse nonviolento sia nello
spirito che nei metodi. Questa scelta precisa fu sottoposta al voto di
tutti gli operai durante una manifestazione di preparazione allo sciopero e
approvata all'unanimita'. Picchetti di sciopero furono organizzati nei
vigneti dagli operai, allo scopo di proseguire il lavoro di
coscientizzazione e di persuadere quelli che accettavano ancora di lavorare
che era loro interesse fare sciopero e unirsi al movimento. Sin dall'inizio
dello sciopero, i proprietari reagirono brutalmente e cercarono di spezzare
il movimento. Inoltre, gli operai dovettero subire parecchi fastidi da
parte delle autorita' locali che si erano schierate a fianco dei
proprietari.  D'altra parte, i proprietari poterono reclutare lavoratori
"crumiri" in numero sufficiente da garantire la raccolta dell'uva.
Tuttavia, questa prima fase della lotta permise agli operai di superare la
loro paura e di prendere coscienza della loro forza.

Fu a quel punto che Cesar Chavez decise di organizzare il boicottaggio
dell'uva. Picchetti di boicottaggio furono organizzati un po' ovunque negli
Stati Uniti e l'azione si rivelo' subito estremamente efficace. Venne
effettuata una marcia di cinquecento chilometri su Sacramento allo scopo di
dare il massimo di pubblicita' all'azione degli operai dei vigneti. A
Boston, i leader del boicottaggio diedero una rappresentazione del Boston
Tea Party (e' noto che fu gettando in mare un carico di te' britannico nel
porto di Boston che inizio' il processo che doveva portare la "Nuova
Inghilterra" alla sua indipendenza): dopo aver effettuato una sfilata
attraverso la citta', essi buttarono diverse casse di uva nel porto. Nel
quadro del boicottaggio, furono rappresentate scene satiriche allo scopo di
drammatizzare la lotta agli occhi della popolazione. L'opinione pubblica
cosi' interpellata e informata si schiero' sempre piu' numerosa in favore
del movimento di Chavez. Versamenti di fondi manifestarono concretamente la
solidarieta' del paese e permisero al movimento di assicurare agli
scioperanti e alle famiglie il minimo vitale. La Chiesa, i sindacati,
numerosi movimenti e diverse personalita' diedero il loro sostegno a Chavez.

I proprietari dei vigneti decisero allora di esportare il massimo di uva
che restava invenduta sul mercato degli Stati Uniti e del Canada. Ma, a San
Francisco, il sindacato degli scaricatori di porto rifiuto' di caricare
l'uva sulle navi che dovevano salpare per l'Oriente. In Inghilterra gli
operai si rifiutarono di scaricare piu' di trenta tonnellate di uva della
California. La stessa cosa si verifico' in Finlandia, in Svezia e in
Norvegia. Ma, dal canto suo, il Pentagono, le cui simpatie si indovina
facilmente a chi andavano, forni' un aiuto prezioso ai proprietari; opero'
massicci acquisti di uva di cui la maggior parte fu destinata ai soldati
del Vietnam. Ma l'intervento dell'esercito non fu in grado di spezzare il
boicottaggio.

Infine, dopo cinque anni di lotta, i proprietari dovettero cedere e il 29
luglio 1970 riconobbero il sindacato di Chavez e accettarono l'essenziale
delle sue richieste. Durante la riunione nella quale furono firmati gli
accordi, Cesar Chavez pote' affermare: "Oggi, nel momento in cui vi e'
tanta violenza in questo paese, siamo felici di mostrare che questo accordo
giustifica la nostra posizione: la giustizia sociale puo' essere realizzata
attraverso l'azione nonviolenta". Dopo questa vittoria Cesar Chavez divenne
il leader di tutti gli operai agricoli della California. Altre azioni
furono intraprese e altri successi ottenuti.

- Lo sciopero degli affitti. Sul finire del XIX secolo, nel quadro della
lotta condotta dall'Irish Land League il cui fine era di "dare la terra al
popolo", "i contadini cattolici irlandesi si rifiutarono di pagare
l'affitto ai proprietari terrieri che erano in genere inglesi molto ricchi"
(D. De Ligt).

In conclusione, nonostante la mobilitazione di 15.000 poliziotti e di
40.000 soldati, il movimento ottenne un largo successo.

Nel maggio del 1965, il primo sciopero promosso da Cesar Chavez non fu
diretto contro i proprietari dei vigneti, ma contro coloro che affittavano
agli operai agricoli capanne di una sola stanza, col tetto metallico, prive
di finestre e acqua corrente, costruite provvisoriamente nel 1937. Era
stato appena deciso un aumento di affitto che elevava il prezzo da diciotto
a venticinque dollari. Cesar Chavez giudico' inammissibile questo aumento e
lancio' la parola d'ordine dello sciopero degli affitti. Nel novembre dello
stesso anno, gli operai videro trionfare la loro causa.

- Il rifiuto collettivo dell'imposta. E' opportuno precisare sin
dall'inizio che il rifiuto di pagare l'imposta non potrebbe giustificarsi
come opposizione al principio stesso dell'imposta. Non soltanto e'
legittimo, ma e' necessario che i membri di una comunita' partecipino al
finanziamento delle realizzazioni della comunita' stessa. Il pagamento
dell'imposta e' l'esercizio pratico della solidarieta' che deve legare
tutti i membri della medesima comunita'. Non si puo' pertanto opporsi al
pagamento dell'imposta che quando questa viene ad alimentare delle
ingiustizie di cui ci si rifiuta di essere complici e che si vogliono
denunciare e combattere pubblicamente.

Il rifiuto di pagare interamente o in parte l'imposta puo' concepirsi in
due prospettive diverse. Puo' trattarsi innanzitutto di far cessare
un'ingiustizia di cui si e' personalmente vittima. Quando, ad esempio,
delle imposte colpiscono una certa categoria sociale o un certo settore
d'attivita' in modo abusivo, diventa legittimo per coloro che sono vittime
di questo abuso il rifiuto di pagare queste imposte allo scopo di obbligare
il governo a rendere loro giustizia. Cosi' il rifiuto collettivo
dell'imposta praticato a Bardoli, in India, nel 1928, si rivelo' un mezzo
efficace di lotta nelle mani dei contadini contro l'arbitrio del governo di
Bombay. Questo aveva deciso un aumento del 22% dell'imposta sul ricavato
agricolo. Dopo aver tentato, ma invano, di ottenere l'annullamento di
questa decisione attraverso vie legali, i contadini decisero di organizzare
la resistenza. Fecero percio' appello a Patel, un avvocato che aveva
rinunciato alla sua professione per seguire Gandhi. Sotto la guida di
Patel, i contadini decisero di rifiutarsi di pagare l'imposta fino a che
avessero ottenuto o l'annullamento dell'aumento del 22%, o la creazione di
una commissione d'inchiesta che potesse giudicare imparzialmente la loro
situazione. Il governo si rifiuto' di cedere e decise al contrario di
esercitare una brutale repressione, praticando in particolare numerosi
pignoramenti sui beni e sulle terre dei contadini, e procedendo a numerosi
arresti. Ma i contadini non cedettero e si attennero strettamente alle
indicazioni nonviolente date da Patel. Gandhi sostenne pubblicamente
l'azione. Tutta l'India segui' con molta attenzione l'evoluzione dei fatti
e manifesto' concretamente la propria solidarieta' inviando a Patel
considerevoli somme di denaro. I giornali inglesi fecero eco all'azione dei
contadini e l'opinione pubblica inglese, scossa da questa insurrezione
pacifica, si risveglio'. Fu aperto un dibattito alla Camera dei Comuni sui
fatti di Bardoli. Infine le autorita' di Bombay furono costrette a cedere,
sei mesi dopo l'inizio della campagna di sfida, e a nominare una
commissione d'inchiesta. Questa convenne che l'aumento dei 22% deciso non
poteva giustificarsi.  Essa "decise in conclusione che l'aumento non doveva
superare il 6,25%. Tuttavia, essendosi la commissione dichiarata
incompetente nel giudicare certi elementi del dossier, questi, su pressante
richiesta dei contadini, furono presi in considerazione nell'accordo finale
in modo tale che praticamente non fu deciso alcun aumento d'imposte a
Bardoli" (Joan Bondurant). "Dopo tanti anni d'inerzia - osserva Nanda -
questo successo costitui' uno stimolo senza precedenti (...), poiche'
questa campagna aveva rivelato un'energia latente che si poteva sperare
d'impegnare nella lotta per la liberazione del paese".

In secondo luogo, puo' invece trattarsi di opporsi ad una decisione
ingiusta del governo non accettando che il finanziamento di questa
ingiustizia venga assicurato con i propri denari e mettendo in opera tutto
cio' che e' possibile per costringere il governo a tornare su questa
decisione. Quando gli strumenti di controllo previsti dalla costituzione si
rivelano inefficaci, questo mezzo permette alla popolazione di esercitare
un controllo effettivo sull'azione del governo. Osserviamo che conviene in
questo caso non tenere per se' i soldi "risparmiati" sulle proprie imposte
ma versarli a organismi o movimenti che partecipano direttamente alla lotta
contro l'ingiustizia in questione. Certo, il governo sara' generalmente ben
provvisto di mezzi repressivi che dovrebbero consentirgli in particolare,
attraverso trattenute sui salari o pignoramenti sui beni, di recuperare il
denaro che egli e' stato rifiutato, senza contare le ammende che non
mancheranno di colpire i contribuenti refrattari. Tuttavia l'impatto che si
cerca non e' finanziario, ma politico, e questa repressione deve venire ad
accrescerlo. Se il numero di coloro che rifiutano l'imposta in queste
circostanze diventasse notevole, l'efficace di un simile gesto potrebbe
essere molto grande.  Siccome pero' il costo di quest'azione potrebbe anche
essere elevato, quelli che decidono di ricorrervi devono avere piena
coscienza delle sue conseguenze e devono essere pronti ad assumersele fino
in fondo. E' fondamentale percio' che essi possano contare, se dovesse
occorrere, sulla solidarieta' effettiva di un gruppo di sostegno, in
particolare dal punto di vista finanziario.

Negli Stati Uniti, alcuni militanti contro la guerra dei Vietnam si
rifiutavano di pagare una parte delle loro imposte allo scopo di rifiutare
ogni complicita' personale con quella guerra e di denunciarla pubblicamente.

In Francia, diverse persone appartenenti alla Comunita' di Ricerca e di
Azione Nonviolenta di Orleans hanno incominciato nel 1970 a rifiutare di
pagare allo Stato il 20% delle loro imposte che hanno versato al movimento
"Azione, Giustizia e Pace" di dom Helder Camara. Esse intendono denunciare
in questo modo la degradazione dei termini di scambio con i paesi dei Terzo
Mondo e la politica militare francese soprattutto in materia di armamenti
nucleari, sostenendo che i paesi ricchi si rifiutano di pagare ad un giusto
prezzo le materie prime dei paesi poveri, ma non esitano invece a investire
somme ingenti in una corsa sfrenata agli armamenti. Dom Helder Camara, in
una lettera dei 13 novembre 1970 indirizzata a quelli che si erano
impegnati in questa azione, scrisse in particolare: "La vostra decisione mi
sembra un gesto perfetto di autentica violenza dei pacifici, di autentica
pressione morale liberatrice".

- L'obiezione di coscienza. L'obiezione di coscienza in passato non si
inseriva il piu' delle volte nel quadro di una strategia dell'azione
nonviolenta. Essa si basava fondamentalmente su una esigenza morale e/o
religiosa che proibiva l'omicidio e aveva innanzitutto un carattere
individualista.

L'obiezione di coscienza politica puo' concepirsi secondo due prospettive.
In primo luogo, puo' trattarsi, per coloro che sono convinti dell'efficacia
dei metodi nonviolenti in caso di aggressione straniera diretta contro la
propria nazione, di rivendicare il diritto di essere riconosciuti cittadini
a tutti gli effetti pur scegliendo la via della nonviolenza. Infatti e'
inammissibile che gli Stati impongano a tutti i cittadini il mezzo della
violenza come il solo modo di assumersi le responsabilita' civiche nel caso
di un conflitto internazionale. In questa prospettiva l'obiettore di
coscienza deve svolgere un servizio nazionale durante il quale e' suo
diritto-dovere prima di ogni cosa studiare teoricamente i principi e i
metodi della nonviolenza e prepararsi a metterli successivamente in
pratica. Precisiamo che nei paesi in cui esiste una legge che riconosce
l'obiezione di coscienza, cio' non vuol dire che la nonviolenza abbia
ottenuto diritto di cittadinanza. Infatti questa legge e' stata
generalmente accordata al solo scopo di risolvere qualche singolo caso che
diventava sempre piu' scomodo. La nonviolenza, tuttavia, continua ad essere
disprezzata dal governo come un'idea ingenua e pericolosa.

In secondo luogo, l'obiezione di coscienza puo' essere utilizzata come
mezzo per opporsi alla politica del governo, in un certo campo, in
particolare quando nell'esecuzione di questa politica riveste primaria
importanza il ruolo giocato dall'esercito. In questo caso, l'obiezione di
coscienza e' un metodo nonviolento impiegato per combattere una politica
precisa, anche se essa non implica, come nel caso precedente, un'opzione
fondamentale per la nonviolenza. Cosi', in Francia durante la guerra
d'Algeria, molti giovani chiamati alle armi, giudicando ingiusta questa
guerra, si sono rifiutati di mettersi a disposizione dell'autorita'
militare e hanno dichiarato la propria obiezione di coscienza. Essi si
opponevano a quella guerra con un metodo nonviolento di non-cooperazione,
ma cio' non significava necessariamente che essi si opponessero a ogni
guerra e che non fossero pronti a ricorrere alla violenza in altre
circostanze.

- Lo sciopero della fame illimitato. Uno sciopero della fame illimitato non
ha piu' per fine, come e' il caso dello sciopero della fame limitato, di
protestare contro un'ingiustizia. Quelli che ricorrono ad esso sono
intenzionati a proseguirlo fino al raggiungimento degli obiettivi che si
sono fissati, fino a quando, cioe', venga eliminata l'ingiustizia che essi
denunciano. Questa azione pone numerosi e gravi problemi tali da far
pensare che essa non sia un mezzo che possa trovare il suo posto nella
strategia dell'azione nonviolenta. Inoltre, non possiamo affatto citare qui
come esempio i digiuni illimitati intrapresi da Gandhi. Il loro significato
e la loro efficacia devono spiegarsi essenzialmente nell'influsso del tutto
eccezionale esercitato da Gandhi sulla popolazione indiana. Per di piu', e'
in questo caso che religione e politica si trovano inestricabilmente
mescolate nell'atteggiamento di Gandhi. Cosi', a proposito del digiuno
illimitato deciso da Gandhi nel settembre 1932, il suo biografo Nanda
scrive: "Gandhi, tuttavia, non doveva giustificarsi con nessuno tranne che
con la propria coscienza o, come lui diceva, con il suo creatore". Ci
conviene percio' cercare altrove i criteri per definire a quali condizioni
uno sciopero della fame illimitato puo' essere intrapreso conformemente
alle esigenze della nonviolenza.

Innanzitutto, deve essere scrupolosamente rispettato anche qui cio' che e'
richiesto per le altre azioni dirette nonviolente, vista la natura
particolare dell'azione e la gravita' dei rischi che devono correre gli
attori. In particolare, e' necessario che questi abbiano in precedenza
fatto ricorso ad altre iniziative per farsi ascoltare dall'avversario e che
quest'ultimo si sia ostinatamente rifiutato di prenderli in considerazione.
Uno sciopero della fame illimitato non puo' essere intrapreso che per
motivi particolarmente gravi, quando e' apparso, dopo un'analisi
dettagliata del dossier, che l'obiettivo ricercato puo' essere raggiunto
nello spazio di tempo che esso consente. Uno sciopero della fame illimitato
intrapreso su un obiettivo impossibile da raggiungersi, oltre ad essere un
gesto disperato di protesta, non sarebbe un'azione nonviolenta. Questo
atteggiamento si avvicinerebbe invece a quello di coloro che si immolano
con il fuoco. Pur non volendo esprimere qui un giudizio sul significato e
sul valore che simili gesti possono avere - soprattutto quando questi si
collocano nella prospettiva di una filosofia o di una religione orientale
-, ci teniamo a sottolineare che essi non possono entrare a far parte di
una strategia dell'azione nonviolenta.

Resta il fatto che ogni sciopero della fame illimitato comporta, per chi lo
intraprende seriamente, il rischio di morire. Tutte le precauzioni prese
per assicurare l'efficacia dell'azione non possono garantire in assoluto la
sua riuscita. Ma ci sono delle cause che giustificano questo rischio. E
colui che decide di correrlo volontariamente deve assumersene la
responsabilita' fino alle sue piu' estreme conseguenze. Esercitare
pressioni sull'avversario e minacciarlo facendogli capire che non cedendo
diverrebbe responsabile delle sofferenze e, nel caso estremo, della morte
di coloro che fanno lo sciopero della fame, costituirebbe un inammissibile
ricatto. Le sole responsabilita' che gli devono essere attribuite durante
lo sciopero sono quelle che egli porta effettivamente a proposito
dell'ingiustizia denunciata e combattuta. Le pressioni che devono essere
esercitate nei confronti dei responsabili dell'ingiustizia non devono
affatto mettere in evidenza le sofferenze degli scioperanti della fame, ma
le sofferenze di coloro che sono vittime dell'ingiustizia.

Perche' l'obiettivo possa essere raggiunto in uno spazio di tempo cosi
breve, e' necessario che l'opinione pubblica sia gia' sensibilizzata
riguardo all'ingiustizia di cui si vuole ottenere l'eliminazione. La
funzione di uno sciopero della fame illimitato e' di opporsi a una
ingiustizia contro cui si e' delineata una maggioranza, rimasta pero'
ancora silenziosa. L'ingiustizia e' gia' stata identificata come tale, ma
non ne e' stata veramente percepita la sua gravita'. La tentazione di
rassegnarsi e' piu' forte della volonta' di agire. La maggioranza potra'
allora trovare nell'azione degli scioperanti l'espressione del proprio
sentimento e del proprio pensiero. Essa avra' cosi' modo di esprimersi e di
agire a sua volta allo scopo di esercitare il proprio potere politico per
far fallire il potere di coloro che sono responsabili dell'ingiustizia. Lo
sciopero della fame illimitato svolge allora il ruolo di catalizzatore che
mobilita e mette in moto per una stessa azione delle energie rimaste
latenti. A questo punto facciamo nostra l'affermazione di Gandhi secondo
cui e' piu' conveniente intraprendere il digiuno contro i propri amici, che
contro i propri nemici.

La pressione, che dovra' essere decisiva per il raggiungimento
dell'obiettivo fissato, non deve essere quella dello sciopero della fame,
ma quella che e' stata suscitata dallo sciopero della fame. Cosi', quando
si conduce la lotta contro una decisione del governo, lo sciopero della
fame illimitato non ha come fine diretto quello di farlo cedere, ma di
cristallizzare l'opposizione e la determinazione della popolazione perche'
questa faccia cadere il governo. E' percio' necessario che gli scioperanti
possano contare immediatamente su appoggi, innanzitutto a livello
dell'informazione ma anche a livello dell'azione. Cio' richiede che
organizzazioni che giocano un ruolo importante nei confronti dell'opinione
pubblica, come i partiti politici, i sindacati e le Chiese, e anche
personalita' influenti, condividano nella parte essenziale, prima ancora
dell'inizio dello sciopero, l'analisi e l'obiettivo di coloro che sono
decisi ad intraprenderlo e siano pronti a sostenerlo. Per costringere
l'avversario a cedere, sara' dunque necessario che siano organizzate altre
manifestazioni nonviolente: non soltanto manifestazioni pubbliche ma pure
azioni di non-cooperazione, magari di disobbedienza civile. E' compito di
coloro che hanno preso l'iniziativa dei movimento di resistenza, cioe'
degli scioperanti, suggerire quali sono le possibilita' concrete di azione.
Dovra' essere costituito un comitato direttivo con il compito di
coordinarle.

Ricordiamo che fu attraverso uno sciopero della fame illimitato che Louis
Lecoin, all'eta' allora di settantaquattro anni, ottenne il riconoscimento
legale in Francia dell'obiezione di coscienza. Nell'ottobre dei 1958, il
comitato di sostegno degli obiettori di coscienza consegno' al governo il
progetto di uno statuto. Nonostante tutti i passi intrapresi, non fu dato
alcun seguito a questo progetto. Tuttavia, interrogato in privato,
soprattutto da Albert Camus, il generale De Gaulle rispose che gli
obiettori avrebbero avuto uno statuto, ma che bisognava attendere il
momento opportuno, cioe' la fine della guerra d'Algeria. All'inizio del
1962, Lecoin stimo' che non c'era piu' niente che poteva opporsi
all'approvazione di questo statuto. Egli decise percio' d'impegnarsi in una
prova di forza con il governo. Il 28 maggio scrisse al generale De Gaulle
per informarlo che avrebbe incominciato dal primo di giugno uno sciopero
della fame affinche' le buone intenzioni manifestate fin allora a favore
degli obiettori di coscienza si traducessero nei fatti. A partire dal primo
di giugno Lecoin si astenne percio' da qualsiasi nutrimento. Dopo qualche
giorno, i giornali e la radio diedero abbondanti informazioni sull'azione
di Lecoin. Ben presto dagli ambienti vicini al presidente della Repubblica
arrivarono promesse ufficiose. Lo stesso generale De Gaulle disse ad una
persona molto vicina a lui: "Non voglio vedere morire il signor Lecoin". Il
vecchio anarchico volle pero' proseguire il suo sciopero fino a che una
decisione non fosse stata presa ufficialmente. L'opinione pubblica,
interpellata, incomincio' a mobilitarsi. Furono promosse numerose
iniziative a sostegno dell'azione di Lecoin. Il 15 giugno, alcuni
poliziotti, accompagnati da un medico legale, fecero irruzione nella camera
di Lecoin e lo trasportarono all'ospedale. Il 21 giugno, il primo ministro
Georges Pompidou informo' che il governo aveva deciso di sottoporre
all'Assemblea nazionale, durante la sessione in corso, un progetto di legge
per il riconoscimento degli obiettori di coscienza.  Lecoin poteva a quel
punto ritenersi del tutto soddisfatto. Tuttavia egli richiese che se, per
un qualsiasi motivo, il Parlamento non avesse potuto discutere il progetto
durante la sessione in corso e fosse stato costretto a spostare l'esame a
una data ulteriore, gli obiettori incarcerati fossero liberati in attesa di
un voto definitivo. La sera dei 22 giugno il governo diede questa
assicurazione e Lecoin cesso' il suo sciopero. Bisogno' pero' aspettare il
24 luglio 1963 perche' l'Assemblea potesse discutere il progetto di legge.
Lecoin assistette ai dibattiti. Ma numerosi emendamenti, di cui molti
furono presentati dal deputato Michel Debre' che si trovava purtroppo "in
posizione critica rispetto al governo", mutilarono il progetto iniziale che
purtuttavia era stato accettato dallo stesso generale De Gaulle. A quel
punto Lecoin, non potendo sopportare ulteriormente, si alzo' e grido': "E'
una vergogna, e' uno scandalo". Gli uscieri e i poliziotti lo bloccarono e
lo portarono in questura. Alla fine, cio' che resto' del progetto fu votato
definitivamente il 22 dicembre 1963.

- Lo sciopero generale. Nella sua Histoire socialiste Jaures riporta la
seguente dichiarazione che Mirabeau pronunzio all'Assemblee des Etats de
Provence rivolgendola all'indirizzo di "tutti i gentiluomini e signorotti
che intendevano tutelare gli interessi della classe produttiva": "State
attenti, non sdegnate questo popolo che produce tutto, questo popolo che
per essere formidabile non dovrebbe che rimanere immobile". E Jaures
osserva che Mirabeau diede in questa occasione "la piu' potente e la piu'
sbalorditiva formula di cio' che chiamiamo oggi sciopero generale". Cosi'
definito, lo sciopero generale di tutto un popolo, deciso a spezzare il
giogo della tirannide e dell'oppressione che pesa sulle sue spalle e a
diventare padrone dei proprio destino, e' l'esemplificazione piu' perfetta
del principio di non-cooperazione.

Nel suo famoso libro Considerazioni sulla violenza, Georges Sorel fa
l'apologia della "violenza proletaria". Ma nell'affermare con forza la
necessita' della violenza per la liberazione dei proletariato, Sorel non
intende incitare gli operai a buttarsi in uno scontro sanguinoso con gli
eserciti della borghesia. Al contrario, egli si rammarica del fatto che la
parola rivoluzione evochi generalmente questa immagine, e rifiuta questa
prospettiva che, egli afferma, appartiene al passato. "Per moltissimo tempo
- egli scrive - la Rivoluzione e' apparsa, nei suoi tratti fondamentali,
come un succedersi di guerre gloriose, che un popolo, assetato di liberta',
e mosso dalle piu' nobili passioni, aveva sostenuto contro la coalizione di
tutte le forze della tirannide e dell'errore". Ma, facendo leva soprattutto
sui fatti tragici della Comune avvenuti nel 1871, egli mostra che il
proletariato ha dovuto distogliere la sua immaginazione e la sua ragione da
qualsiasi epopea guerresca. D'altra parte, Sorel se la prende con forza con
i "socialisti parlamentari" che vorrebbero convincere gli operai del fatto
che e' possibile ormai ottenere il riconoscimento dei loro diritti con il
solo gioco della democrazia formale. Sorel afferma che ormai il
proletariato deve porre il suo ideale e la sua speranza soltanto nello
sciopero generale. Dicendo cio', egli non si preoccupa di concepire
l'organizzazione pratica di questa azione gigantesca: cio' che a lui
interessa dimostrare e' che l'idea dello sciopero generale corrisponde alle
aspirazioni profonde dell'anima operaia e che essa e' capace di mobilitare
il proletariato nella lotta contro la borghesia. Per lui lo sciopero
generale e' un mito e deve essere considerato come tale, ma pensa appunto
che solo la potenza di questo mito puo' creare il dinamismo necessario al
movimento rivoluzionario. "Lo sciopero generale - egli scrive con molta
perspicacia - e' il mito in cui viene a compendiarsi il socialismo, nella
sua interezza, un organismo d'immagini capaci di evocare, con la forza
dell'istinto, tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse
manifestazioni della guerra, impegnata dal socialismo, contro la societa'
moderna. Gli scioperi hanno fatto fiorire nel proletariato i sentimenti
piu' nobili, piu' profondi e piu' fattivi che esso possegga. Lo sciopero
generale li unisce tutti, in un quadro d'insieme; da' a ciascuno di essi,
riunendoli insieme, la massima intensita'. (...) Noi otteniamo, cosi',
quella intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva fornirci in
modo perfettamente chiaro - e l'otteniamo, in un insieme percepito
istantaneamente".

Cosi' Sorel, ed e' in cio' che la sua analisi ci sembra interessante, tenta
di sostituire nella coscienza operaia il mito della guerra rivoluzionaria
con la quale il proletariato schiaccia definitivamente la borghesia in un
bagno di sangue - e noi sappiamo quanti "rivoluzionari" in tutto il mondo
sono ancora legati piu' o meno coscientemente a questo mito -, con il mito
dello sciopero generale con il quale il proletariato pone fine
all'oppressione capitalistica e inaugura con entusiasmo l'era del
socialismo. Comunque, esiste effettivamente una tradizione operaia in cui
lo sciopero generale concentra tutte le speranze del proletariato.
Barthelemy De Ligt ci ricorda una canzone che una volta "si cantava
dappertutto: nelle famiglie, nelle assemblee e nelle officine". Essa
illustra questa tradizione in modo particolarmente significativo:

"0 tu che ti chini verso la terra / La tua fronte e' pallida dal dolore /
Sollevati, fiero proletario / Un migliore avvenire appare all'orizzonte! /
Non a colpi di mitraglia / Il Capitale vincerai / Per vincere la battaglia
/ Non avrai che da incrociar le braccia! / Per la caduta fatale / Degli
sfruttatori tiranni, / Lo sciopero generale / Ci fara' trionfanti! / La
migliore arma per abbattere / I difensori del Capitale, / Questa orrenda
razza matrigna, / e' lo sciopero generale".

Rosa Luxemburg ha consacrato allo sciopero generale uno studio documentato
e dettagliato, facendo riferimento essenzialmente all'esperienza della
rivoluzione russa del 1905. Per molto tempo lo sciopero generale fu
combattuto in seno ai partiti comunisti come un'idea pericolosa,
propagandata dagli anarchici e capace di portare il movimento
rivoluzionario fuori dalle vie realiste. Su questo punto, Engels aveva
vivamente attaccato Bakunin. Ma Rosa Luxemburg non esita ad affermare: "Lo
sciopero di massa (...) appare oggi l'arma piu' potente della lotta
politica per i diritti politici". Analizzando gli avvenimenti sopravvenuti
in Russia, Rosa Luxemburg sottolinea che "lo sciopero di massa non puo'
essere "fatto" artificiosamente, non puo' essere "deciso" nel cielo
azzurro, ne' "propagandato", ma che esso e' un fenomeno storico che in un
certo momento risulta dalle condizioni sociali con la forza della
necessita' storica".

Percio' "il Partito deve - se si osa adoperare questo termine - agganciarsi
al movimento di massa, quando lo sciopero sia stato spontaneamente
intrapreso, e ha il compito di dargli un contenuto politico e delle parole
d'ordine giuste. Se non ne ha l'iniziativa, deve averne la direzione e
l'orientamento politico. E' soltanto cosi' che potra' impedire che l'azione
si perda e rifluisca nel caos".

Se ci riferiamo allo sciopero di massa avvenuto in Francia, nel maggio del
'68, non possiamo che essere sorpresi dalla giustezza delle affermazioni di
Rosa Luxemburg. E' vero che nel 1968 lo sciopero generale non e' stato ne'
suscitato, ne' deciso, ne' organizzato da alcun partito ne' organizzazione
ma che esso e' stato intrapreso spontaneamente da un movimento venuto dalle
masse stesse. E' pure vero che, per il fatto di non aver intravisto come
possibile un tale fenomeno, i diversi partiti e le diverse organizzazioni
che si ritiene rappresentino gli interessi delle masse, sono stati presi
alla sprovvista. Si sono trovati nell'incapacita' di dare un contenuto
politico coerente allo sciopero generale e non hanno potuto "impedire che
l'azione si disperdesse". Cosi', anche se appare difficile preparare a
medio termine, per tale giorno e a tale ora, l'inizio di uno sciopero
generale, e' opportuno che quest'ultimo venga tenuto in considerazione come
un elemento essenziale della prospettiva rivoluzionaria. La sua
possibilita' concreta deve essere ricercata in certe circostanze sociali
particolari, allo scopo di potere allora dominare e orientare l'avvenimento
e di far riuscire per quell'occasione i progetti da cui dipende l'avvento
di un "socialismo dal volto umano".

(Continua)



7. INCONTRI. A PINEROLO UN CORSO SULLA TRASFORMAZIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI

[Dal bello e appassionante "Foglio di comunita'" dell'associazione Viottoli
(per contatti: corso Torino 288, 10064 Pinerolo (To), tel. 0121322339 -
0121500820, fax 01214431148, e-mail: info at viottoli.it, sito:
www.viottoli.it) riprendiamo la notizia di questo corso]

Il gruppo Giustomondo di Pinerolo (con il patrocinio dell'associazione
Viottoli), proseguendo nel  cammino di formazione "Amici della nonviolenza"
(un percorso di auto-formazione intorno al tema della nonviolenza,
consapevoli che un progetto di giustizia sociale deve anche passare
attraverso la nostra crescita individuale  e la scelta della nonviolenza
come metodo di azione politica), vi propone per l'anno 2002-2003 un ciclo
di incontri a cura del Centro studi "Domenico Sereno Regis" di Torino
aventi come tema: La trasformazione nonviolenta dei conflitti.

- 23 novembre 2002: Incontro introduttivo (Violenza, pacifismo,
nonviolenza: dalle riflessioni personali ad una definizione condivisa;
confronto sugli obiettivi del percorso);

- 7 dicembre 2002: Il conflitto nella prospettiva della nonviolenza (Il
paradigma gandhiano nei conflitti; l'approccio di Transcend e altri
contributi nell'ambito della Peace Research);

- 18 gennaio 2003: La teoria nonviolenta del potere e la dinamica della
lotta nonviolenta nei macro conflitti (L'analisi di G. Sharp);

- I febbraio 2003: Casi storici di lotte nonviolente nel Novecento (Studio
di casi, con sussidi audiovisivi );

- I marzo 2003: La nonviolenza nella trasformazione dei conflitti a livello
interpersonale (Il modello Patfoort);

- 15 marzo 2003: Tecniche di intervento durante la violenza (Mediazione,
interposizione, forze nonviolente di pace...);

- 12 aprile 2003: Dopo la violenza (Modelli di riconciliazione);

- 3 maggio 2003: La lotta nonviolenta per il cambiamento sociale (Analisi
di un caso attuale);

- 31 maggio 2003: La lotta nonviolenta per il cambiamento sociale
(Preparazione di un'azione).

Gli incontri si svolgeranno alle ore 15 presso la sede dell'associazione
Viottoli, corso Torino 288 (primo piano) a Pinerolo.

Ciascun incontro avra' la durata di circa tre ore e verra' condotto con
metodologie attive e momenti di training.

Il rimborso richiesto per il ciclo di incontri completo e' di circa 45 euro
a persona (dipendente dal numero degli iscritti - minimo 20 persone).

Informazioni e iscrizioni: tel. 0121374659 (Caterina), 012176441
(Francesco); e-mail: giustomondo at libero.it



8. RILETTURE. ROSALBA CANNAVO': PIPPO FAVA. CRONACA DI UN UOMO LIBERO

Rosalba Cannavo', Pippo Fava. Cronaca di un uomo libero, Cuecm, Catania
1990, pp. 256, lire 20.000. Una monografia che ricostruisce la figura del
grande giornalista, scrittore ed intellettuale militante di formidabile
impegno civile assassinato dalla mafia. Con una preziosa e commovente
appendice di immagini e documenti.



9. RILETTURE. MARIANNE MAHN-LOT: BARTOLOMEO DE LAS CASAS E I DIRITTI DEGLI
INDIANI

Marianne Mahn-Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, Jaca
Book, Milano 1985, pp. 294. Una buona biografia del grande difensore dei
diritti umani degli indios.



10. RILETTURE. NADIA NERI: UN'ESTREMA COMPASSIONE

Nadia Neri, Un'estrema compassione, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 176,
euro 9,30. Una penetrante e appassionata monografia su Etty Hillesum.



11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.



12. PER SAPERNE DI PIU'

* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it

* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it

* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it



Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it



Numero 375 del 5 ottobre 2002