La nonviolenza e' in cammino. 374



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it



Numero 374 del 4 ottobre 2002



Sommario di questo numero:

1. Peppe Sini, perche' non scorra il sangue per le vie di Firenze

2. Mao Valpiana: Francesco, il lupo di Bagdad e la guerra

3. Jean Marie Muller, momenti e metodi dell'azione nonviolenta (parte prima)

4. Ordine del giorno del Consiglio Comunale di Fano contro la guerra

5. Vincenzo Orsomarso: i movimenti, la sinistra e il programma

6. Simone de Beauvoir, il governo ha risposto

7. Riletture: Joan Baez, Ballate e folksong

8. Riletture: Silvia Ballestra, Joyce L.

9. Riletture: Edgarda Ferri, Il perdono e la memoria

10. La "Carta" del Movimento Nonviolento

11. Per saperne di piu'



1. APPELLI. PEPPE SINI: PERCHE' NON SCORRA IL SANGUE PER LE VIE DI FIRENZE

[Il seguente appello e' stato diffuso il 3 ottobre dal "Centro di ricerca
per la pace" di Viterbo]

Perche' non scorra il sangue per le vie di Firenze: non permettiamo gesti
irresponsabili. Occorre la scelta della nonviolenza.

Basta con le provocazioni.

Basta con le ambiguita'.

Basta con le complicita'.

Proporre di occupare alcune banche a Firenze durante i giorni dell'incontro
europeo dei movimenti impegnati per la globalizzazione dei diritti
significa rischiare di far morire delle persone.

Non e' bastato cio' che e' successo a Praga, e poi a Goteborg, e poi a
Genova, in un crescendo di violenza ed orrore?

Non e' chiaro che le provocazioni effettuate per strappare qualche
visibilita' sui mass-media (con azioni che chi le compie ritiene astute e
sono invece le piu' subalterne al sistema di potere e all'ideologia
dominanti che presume di combattere ed in realta' riproduce) espongono al
rischio di lesioni e di morte i partecipanti a generose manifestazioni
democratiche?

Non e' chiaro che aver permesso per mesi che si cianciasse di una palese
follia come l'invasione della "zona rossa" a Genova ha contribuito in
misura decisiva a creare le condizioni per cui alcuni sadici in divisa, che
si sono sentiti favoreggiati da un governo autoritario e illegalitario,
potessero commettere criminali, bestiali violenze su persone del tutto
inermi?

Non e' chiaro che i dirigenti delle tante associazioni pacifiste, della
solidarieta' e amiche della nonviolenza che hanno scelto di cooperare con i
provocatori, scandalosamente sottovalutando le fin troppo prevedibili
conseguenze di certe azioni, diventano cosi' complici di gesti
irresponsabili che possono dar luogo a irreversibili lutti?

Possibile che nessuno di coloro che hanno avuto responsabilita'
decisionali, organizzative e di effettuale direzione del "movimento di
movimenti" nella preparazione delle giornate di Genova senta il dovere di
fare un esame di coscienza e di ridiscutere atteggiamenti e scelte che
hanno contribuito a che si scatenasse la violenza dei teppisti e golpisti
in divisa e di governo e a che si verificasse l'episodio terribile che ha
portato alla morte di un giovane?

Sia chiaro: sono ovviamente ben diverse le responsabilita' di chi commette
una violenza e di chi ha contribuito a creare le condizioni perche' essa si
desse. Ma l'una, gravissima, non cancella l'altra, certo assai piu' lieve;
e la seconda ha cooperato a consentire lo scatenamento della prima.

Non e' chiaro che occorre che il movimento che vuole impegnarsi affinche' a
tutti gli esseri umani siano riconosciuti tutti i diritti umani faccia una
scelta limpida ed intransigente per la nonviolenza?

La nonviolenza deve essere la discriminante.

Gli irresponsabili, i provocatori, cosi' come tutti i violenti, devono
essere isolati. Non isolarli e' peggio che ipocrisia: e' complicita'.
Limitarsi a chiedere alle forze dell'ordine di mantenere i nervi saldi e di
rispettare la legalita' (cosa che e' giusta, doverosa, necessaria) e'
essere strabici. Occorre che anche da parte nostra facciamo quanto e' in
nostro potere perche' la violenza non trovi appiglio alcuno per scatenarsi.

Non si puo' essere ambigui: chi e' ambiguo e' complice.

Ci sta a cuore la vita e l'integrita' di ogni essere umano.



2. RIFLESSIONE. MAO VALPIANA: FRANCESCO, IL LUPO DI BAGDAD E LA GUERRA

[Ringraziamo Mao Valpiana per averci inviato questa meditazione. Mao
Valpiana e' il direttore di "Azione nonviolenta", la rivista fondata da
Aldo Capitini e punto di riferimento per tutti gli amici della nonviolenza
in Italia. Per contatti: azionenonviolenta at sis.it]

Francesco d'Assisi, si sa, e' un santo che piace proprio a tutti.

Religiosi e laici, bigotti e bestemmiatori davanti al frate della
Porziuncola si commuovono. Piace cosi' tanto che l'hanno nominato Patrono
d'Italia.

Il Santo patrono e' colui che protegge e al quale ci si affida nei momenti
difficili. E qual e' il momento piu' difficile, per una nazione, se non
quello in cui, alle porte di casa, soffiano i venti di guerra?

Francesco, figlio di Pietro Bernardone, ha conosciuto l'orrore della
guerra, vi ha partecipato come soldato, ha sentito l'odore del sangue, ha
visto i morti, e' stato fatto prigioniero. Forse proprio per questa sua
esperienza diretta dopo la scelta di fede si e' dedicato anima e corpo
all'apostolato per la pace. Pace fra gli uomini e pace con la natura.

Dopo la conversione Frate Francesco e' tornato in guerra, ma questa volta
senza spada. Ha voluto seguire una crociata, disarmato, per incontrare il
Sultano e cercare la via del dialogo. C'e' riuscito. Tornato in Italia ebbe
un'idea; l'indulgenza allora era riservata ai crociati che andavano a
combattere, ma lui chiese al Papa l'indulgenza plenaria per tutti coloro
che fossero andati disarmati a pregare alla Porziuncola: la ottenne.

Che il lupo fosse un vero lupo o un brigante che portava quel nome, poco
importa. Cio' che conta e' l'indicazione francescana che i conflitti si
possono risolvere con la nonviolenza. Francesco e' andato incontro al lupo,
gli ha fatto riconoscere le sue colpe e poi l'ha affidato alle cure della
comunita' di Gubbio, che cosi' e' stata coinvolta nel processo di
riconciliazione.

Insomma, in San Francesco abbiamo uno straordinario esempio di strategia
nonviolenta. Da questo punto di vista Francesco e' un ponte fra la
nonviolenza del Vangelo di Gesu' e la nonviolenza politica di Gandhi. Una
nonviolenza attiva che non puo' accettare la guerra, perche' la guerra e'
sempre omicidio di massa, e' il piu' grande crimine contro l'umanita'. La
Costituzione italiana, che "ripudia" la guerra come strumento di
risoluzione delle controversie internazionali, e' dunque in armonia con le
intuizioni del Santo patrono.

Ma allora come puo' l'Italia accettare che gli Stati Uniti, suoi alleati,
preparino una guerra preventiva? In lingua italiano lo sparare prima si
chiama attacco. Questa volta pero' non bastera' mettere a verbale il nostro
"no" alla guerra. Certo, meglio che niente, ma bisogna aggiungere una
parola in piu': quando la guerra inizia nessuno riesce a fermarla; bisogna
prevenirla una guerra, affinche' non avvenga. Come? Non collaborando in
nessun modo alla sua preparazione. Quali sono dunque le proposte della
nonviolenza?

- Finanziare istituti di ricerca per la risoluzione nonviolenta dei
conflitti internazionali;

- istituire, reclutare ed addestrare Corpi Civili di Pace per la
prevenzione dei conflitti;

- avviare un processo di democratizzazione dell'Onu;

- dotare l'Onu di una polizia internazionale;

- favorire processi di integrazione con i paesi a rischio;

- sostenere i gruppi dissidenti dei regimi dittatoriali;

- creare una rete di monitoraggio nelle aree a rischio di crisi;

- avviare passi di disarmo unilaterale e preparare forme di difesa nonviolenta;

- investire in diplomazia e favorire processi di pacificazione, di
riconciliazione, di convivenza;

- eliminare il commercio di armamenti, bandire la produzione di armi
chimiche, batteriologiche, nucleari.

Per questo siamo qui a proporre, seriamente, a tutte le forze sociali e
politiche che prendano in considerazione le nostre proposte, sulle quali
lavoriamo da decenni; se non sono applicabili da subito, serviranno almeno
ad evitare la prossima tragedia. Sono le stesse proposte che facemmo al
tempo della prima guerra del Golfo; rimasero lettera morta, perche' - si
disse allora- in quel momento servivano i raid aerei. Se dieci anni fa,
oltre ai raid aerei, si fosse almeno iniziato a preparare un'alternativa,
forse la crisi di oggi potrebbe essere affrontata al 95% con mezzi militari
e al 5% con mezzi nonviolenti. Sarebbe gia' molto, perche' forse la crisi
successiva (fra qualche anno) vedrebbe l'80% di intervento militare e il
20% di intervento nonviolento, e cosi' via... Invece siamo ancora al 100%
di micidiali strumenti militari. E la nonviolenza viene solo ridicolizzata,
o criminalizzata. Si da' per certo (quasi fosse una verita' assoluta) che
le bombe siano efficaci, mentre la nonviolenza sarebbe fallimentare. Ma e'
proprio cosi'?

La guerra e' un'avventura senza ritorno. Un possibile risultato e' quello
di aumentare l'area di consenso attorno al terrorismo fondamentalista, di
radicalizzare nuove pericolose contrapposizioni. A chi, in buona fede, e'
convinto della bonta' di una "opzione militare" chiediamo: quando finira'
questa guerra? quando si potra' dire, abbiamo vinto? chi potra' assicurare
che dal giorno dopo non nasceranno nuovi terrorismi? fino a quando, per la
nostra sicurezza, dovremo finanziare giganteschi apparati bellici, e quanto
dovremo ancora attendere per dare credito alla nonviolenza?

L'opposizione integrale alla guerra e' il fondamento costitutivo della
nonviolenza.

Se il rais Saddam Hussein e' il Sultano moderno, o il lupo internazionale,
deve essere ammansito. Subito. Se il mondo intero non ci riesce, dobbiamo
cercare un nuovo Francesco. Ma forse e' compito di ognuno di noi mettere in
pratica la sua invocazione: "dov'e' guerra, fa che io porti la pace".



3. MATERIALI. JEAN MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL'AZIONE NONVIOLENTA
(PARTE PRIMA)

[Riportiamo la prima parte del testo di un opuscolo edito dal Movimento
nonviolento che a sua volta riproduceva anastaticamente un capitolo di una
piu' ampia opera. L'opuscolo e': Jean Marie Muller, Momenti e metodi
dell'azione nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, s. i. l. ma
verosimilmente Perugia 1981; il libro e' Jean Marie Muller, Strategia
dell'azione nonviolenta, Marsilio, Venezia-Padova 1975 (il capitolo e' il
settimo, alle pp. 73-99). Noi riproduciamo qui il testo di Muller senza le
note dell'autore e senza la presentazione del traduttore Matteo Soccio (uno
dei maggiori studiosi ed amici della nonviolenza in Italia), rinviando per
la lettura del testo integrale all'acquisto dell'opuscolo, disponibile
presso il Movimento nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it. Jean Marie
Muller e' nato nel 1939 a Vesoul in Francia, docente, ricercatore, e' tra i
pi? importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente,
oltre che attivo militante nonviolento e fondatore del  MAN (Mouvement pour
une Alternative Non-violente). Opere di Jean-Marie Muller: Strategia della
nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza,
Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento
Nonviolento, Torino 1980; Metodi e momenti dellâazione nonviolenta,
Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha,
Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1994; Le principe de non-violence. Parcours philosophique,
Desclee de Brouwer, Paris 1995; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1999]

In questo capitolo vorremmo precisare quali sono i diversi momenti di una
campagna di azione nonviolenta tipo, e quali sono le modalita' di ognuno di
questi momenti. Anche se non abbiamo intenzione di dare delle ricette che
basterebbe applicare alla lettera in ogni situazione per raggiungere il
successo, non ci sembra inutile riunire gli insegnamenti tratti dalle
azioni compiute in passato e classificarli secondo un ordine che risponde a
una certa logica. Non si rende sterile l'immaginazione se le offriamo uno
schema in cui essa, come ci ha dimostrato l'esperienza, abbia le maggiori
possibilita' di esercitarsi utilmente. Se anche queste indicazioni non ci
garantissero il successo dell'azione, esse almeno dovrebbero evitarci
numerosi errori che ci assicurerebbero il fallimento.



1. Analisi della situazione

E' essenziale che prima di decidere l'azione si abbia una conoscenza esatta
della situazione in cui s'inserisce quell'ingiustizia che si vuole
denunciare e combattere. Se i responsabili dell'azione dimostrassero di non
essere sufficientemente a conoscenza dei fatti, cio' discrediterebbe
gravemente il movimento. Inoltre, e' molto importante esprimere sui fatti
un giudizio razionale e coerente che miri alla maggiore obiettivita'
possibile. Sappiamo quanto grande sia la tentazione d'ingigantire i fatti e
di esagerarne la gravita', nella presentazione che ne viene data, fino al
punto di rendere ridicola la posizione dell'avversario. Credere pero' che
questo stratagemma possa avere una qualche efficacia e' un'illusione. Al
contrario, sara' allora facile all'avversario far valere, servendosi di
argomenti convincenti, l'aspetto esagerato delle accuse mosse contro di
lui, e dare cosi' l'apparenza di potersi giustificare totalmente. Invece la
conoscenza rigorosa dei fatti e la loro esatta presentazione costituiscono
una carta vincente per la posizione dei responsabili del movimento. La
possibilita' di giustificare ogni volta, con prove alla mano, le
affermazioni addotte e' un elemento di prim'ordine nel rapporto di forze
che si va creando tra gli avversari.

Si tratta percio' di fare un'inchiesta e di preparare un dossier sui fatti
per essere sicuri della fondatezza di tutte le informazioni ricevute sui
motivi delle lamentele sollevate e tener conto solo di quelle che hanno
potuto essere verificate. In questo lavoro, non e' sufficiente limitarsi ai
fatti: e' importante capirli al fine di sapere come e perche' l'ingiustizia
si e' manifestata e si e' mantenuta. Conviene in particolare conoscere
quali sono le forze sociali, politiche ed economiche implicate nella
situazione, quali sono gli atteggiamenti pratici delle parti in gioco e
quali le giustificazioni teoriche che ne vengono date. E' importante
analizzare la struttura di potere che predomina nelle relazioni tra le
diverse parti allo scopo di individuare chi detiene il potere di decisione.
Inoltre, e' opportuno sapere cosa dice la legge a proposito delle
controversie che oppongono le parti in causa. A questo proposito non si
potra' fare a meno di consultare un giurista competente.

Quest'analisi deve permetterci di fare con cognizione di causa una scelta
politica con cui si potra' decidere quali saranno i nostri alleati e quali
i nostri avversari nel conflitto in corso.



2. Scelta dell'obiettivo

In base all'analisi della situazione, si dovra' scegliere l'obiettivo da
raggiungere attraverso l'azione. La scelta dell'obiettivo e' essenziale
poiche' da essa soltanto puo' dipendere la riuscita o l'insuccesso del
movimento. Converra' scegliere un obiettivo preciso, limitato e possibile.
Nella scelta di questo obiettivo bisognera' tenere conto dei diritti
dell'avversario e fare in modo - per quanto e' possibile - che egli non
debba perdere la faccia nell'accettare le rivendicazioni che gli sono state
fatte. L'obiettivo deve essere determinato in modo tale da iscriversi in
una prospettiva futura che permetta se non proprio una reale
riconciliazione - questa, secondo ogni verosimiglianza, non potra'
raggiungersi che piu' tardi -, per lo meno una coesistenza pacifica tra le
due parti. L'obiettivo deve apparire allora come un contributo positivo per
l'avvenire di tutta la comunita'.

Le rivendicazioni del movimento devono essere realistiche e suscettibili di
essere accettate dall'avversario. Conviene percio' distinguere cio' che
sarebbe auspicabile da cio' che e' possibile. Il successo di un'azione e'
raggiunto solo quando si sia ottenuto cio' che si e' rivendicato; chiedere
l'impossibile significa inevitabilmente andare incontro al fallimento. Una
sola campagna di azioni non bastera' a sopprimere un'ingiustizia
profondamente radicata nelle strutture e nelle mentalita'. Saranno
necessarie in seguito altre campagne con obiettivi via via piu' ambiziosi.
E' importante, nel momento iniziale, che la campagna d'azione non si trovi
ridotta a una campagna di proteste a causa di un obiettivo sproporzionato
rispetto ai mezzi di cui dispone il movimento. E' essenziale per questo
movimento vincere il confronto, soprattutto per poter dare piena coscienza
della loro forza e piena fiducia a quelli che fino a quel momento sono
stati le vittime rassegnate dell'ingiustizia. E' opportuno quindi stabilire
cio' che deve essere preteso in modo che non si debba fare alcuna
concessione nel corso dei futuri negoziati. La strategia della nonviolenza
non e' una strategia di mutue concessioni. Il piu' delle volte, si pretende
piu' di quanto si vuole, per essere certi di raggiungere cio' che si vuole.
In questo caso invece ci si sforza di fissare sin dall'inizio cio' che deve
e puo' essere richiesto, e si resta fermi su questa posizione per tutta la
durata della lotta, senza fare concessioni.  Nella lotta nonviolenta,
sottolinea Gandhi, "il minimo e' anche il massimo, e siccome e' un minimo
irriducibile, non si puo' parlare di ritirata. Il solo movimento possibile
e' un avanzamento". Qui pertanto, non si tratta di esigere l'impossibile
per ottenere il possibile ma si tratta di esigere il possibile e di
attenersi ad esso senza mai transigere, a meno che non si debbano
riconoscere e soddisfare certe eventuali rivendicazioni dell'avversario
che, durante il conflitto, fossero comprese come giuste.



3. Primi negoziati

Conviene entrare al piu' presto possibile in contatto diretto con
l'avversario, prima di portare la controversia sulla pubblica piazza, allo
scopo di tentare tutto cio' che e' possibile per risolvere il conflitto
senza dover ricorrere alla prova di forza. Si tratta allora di far
conoscere ai rappresentanti della parte avversa le conclusioni a cui
l'analisi della situazione ha condotto e di far valere le rivendicazioni
del movimento precisando l'obiettivo che questo ha deciso di raggiungere.
Sin da questo momento e' importante dar prova della piu' rigorosa cortesia
nei confronti dell'avversario. In particolare e' opportuno evitare di far
pesare sui propri interlocutori minacce destinate a "incutere paura".
Conviene invece sforzarsi di far capire che il cambiamento della situazione
cosi' com'e' ricercato e', tutto sommato, meno minaccioso per l'avversario
del mantenimento dello status quo. Il clima che si istaurera' durante
questi primi negoziati determinera' in buona parte il clima di tutto il
conflitto. E' percio' essenziale impegnarsi a crearlo in modo tale che
disponga l'avversario non ad inasprire gli antagonismi, ma a ridurli.
Questi primi negoziati devono permettere alle due parti di conoscersi
meglio. Conviene a questo proposito osservare attentamente le reazioni dei
propri interlocutori e gli argomenti che adducono in risposta alle accuse
mosse.

Nel momento stesso in cui si da' prova della piu' stretta cortesia e'
importante anche dare prova della massima fermezza e della massima
determinazione. Le manifestazioni di "comprensione", le assicurazioni "di
studiare seriamente il dossier" e magari le promesse di fare "tutto cio'
che e' possibile", che possono essere formulate dall'avversario nel corso
di questi negoziati e' opportuno siano accolte senza processi alle
intenzioni. Nessuna necessita' strategica obbliga a sospettare di malafede
queste manifestazioni di "buona volonta'". La fermezza e il rifiuto di
transigere non guadagnano affatto in forza puntando sulla sistematica
diffidenza nei confronti dell'avversario. Ma deve essere chiaro che il
movimento non si accontenta in nessun momento di promesse, ma che aspetta
invece delle decisioni. Esso accettera' di sospendere la sua azione solo
quando sara' raggiunto un accordo definitivo che metta fine al conflitto.

Cosi', nel corso dei negoziati tra i neri e i bianchi, durante il
boicottaggio degli autobus di Montgomery, "alcuni membri del comitato
bianco ci suggerirono di ritornare a servirci degli autobus e di rimandare
la discussione per un possibile accordo a dopo le feste natalizie,
assicurando che la comunita' avrebbe accolto con maggior simpatia le nostre
richieste, se la protesta fosse stata intanto sospesa. La nostra risposta
fu ancora una volta negativa. Tutti i nostri sforzi, infatti, sarebbero
stati vani, se avessimo sospeso la protesta in seguito ad una vaga promessa
di futuri accordi" (M. L. King).

E' raro che un accordo possa concludersi gia' con i primi negoziati.
Questi, quando si trovano ad un punto morto, devono essere sospesi ma non
rotti definitivamente, perche' e' proprio fine dell'azione diretta la
ripresa dei negoziati. Conviene pertanto, nei limiti del possibile,
mantenere continui contatti con l'avversario per tutta la durata dei
conflitto.

Secondo un principio fondamentale della strategia, il tempo dei negoziati
deve essere pure il tempo della preparazione alla prova di forza. I
negoziati devono essere leali, e d'altronde e' interesse del movimento che
essi riescano. Ma si tratta anche di prevedere l'avvenire e di prepararsi.



4. Appello all'opinione pubblica

In seguito al fallimento dei primi negoziati, bisognera' sforzarsi di fare
esplodere l'ingiustizia di fronte all'opinione pubblica con tutti i mezzi
di informazione di cui puo' disporre il movimento. Si tratta di ricercare
il massimo di "pubblicita'" nel senso tecnico della parola, e cioe' di
raggiungere il pubblico per fargli conoscere le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. E' molto importante mantenere l'iniziativa dell'informazione e
di vigilare affinche' il senso dell'azione non venga ne' deformato ne'
falsificato. Certo la pubblicita' nasconde tranelli da cui bisognera'
guardarsi, ma non per questo essa, in quanto strumento di comunicazione con
il pubblico, e' meno indispensabile. Facciamo notare che si tratta di
mettere l'opinione pubblica di fronte alle proprie responsabilita', ma non
si tratta di colpevolizzare. Si tratta di farle prendere coscienza
dell'ingiustizia e non invece di attribuirle cattiva coscienza di fronte ad
essa. La cattiva coscienza paralizza piu' di quanto non mobiliti.

Bisognera' cercare di creare un "fatto di cronaca" e redigere a tal fine
comunicati nei quali verranno esposte le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. Si trattera' quindi di informare i partiti, i movimenti, le
organizzazioni e le personalita' suscettibili di dare il loro sostegno
all'azione progettata. Si potra' organizzare una distribuzione di volantini
e potra' essere molto efficace "far parlare i muri" per mezzo di scritte e
di manifesti che espongono in poche parole i dati della situazione e le
soluzioni previste per porvi rimedio.

Sara' opportuno, per dare forza a questa affermazione, organizzare delle
manifestazioni che sono un confronto diretto con il pubblico, allo scopo di
informarlo e di farlo reagire di fronte agli argomenti sostenuti dai
manifestanti. Queste manifestazioni dovrebbero, inoltre, permettere a
quelli che sono disposti a partecipare all'azione, di contarsi, di
conoscersi e di organizzarsi. E' essenziale che quelli che sono vittime
dirette dell'ingiustizia denunciata possano partecipare a queste
manifestazioni. Questa dovrebbe essere per loro l'occasione di prendere
coscienza della propria forza, di vincere la paura e di sviluppare la
volonta' di resistenza.

Questo confronto del pubblico con le posizioni sostenute dal movimento deve
permettere di correggere cio' che deve essere corretto e di individuare
meglio gli argomenti sui quali e' piu' opportuno insistere. Percio' e'
importante osservare attentamente e registrare le reazioni degli
spettatori. Queste sono delle preziose indicazioni che devono permettere di
capire meglio i rapporti di forza esistenti tra il movimento e la
popolazione, e di orientare meglio l'evoluzione del conflitto.

Nel corso di tutte queste manifestazioni pubbliche, la scelta degli slogan
deve essere compiuta anticipatamente dai responsabili del movimento. Gli
slogan non devono essere numerosi. I partecipanti devono sottomettersi
rigorosamente alla scelta che sara' stata effettuata e in nessun caso
dovranno introdurre nella manifestazione altri slogan di loro scelta. Nella
scelta degli slogan e' un'esigenza strategica quella di cercare la parola
giusta che nomini e qualifichi le situazioni che si cerca di correggere.
L'impatto della parola deriva dalla sua giustezza e non dalla sua violenza.
A questo proposito Danilo Dolci rievoca un fatto tanto minuscolo quanto
significativo. Con un gruppo eterogeneo di giovani, egli aveva promosso una
marcia da Milano a Roma, per manifestare soprattutto la loro opposizione
alla guerra nel Vietnam. Nel raccontare questa marcia, Dolci scrive:
"Poiche' alcuni gruppetti di ragazzi a tratti scandiscono "Johnson torna
alle tue vacche" molti contadini dei borghi che attraversiamo, soprattutto
in Emilia, non sembrano affatto persuasi; sono come offesi: "le vacche non
sono forse importanti?", mormorano. I ragazzi cominciano a comprendere
chilometro dopo chilometro la distinzione tra sfogo rabbioso e capacita' di
penetrare nelle popolazioni affinche' ciascuno si muova ad assumere una
posizione cosciente ed esplicita di fronte alla guerra". Cosi', quando
giungeranno a Roma, gli slogan scelti si riveleranno piu' incisivi e piu'
efficaci.

Conviene sottolineare l'importanza, nel corso di queste manifestazioni
pubbliche, dell'atteggiamento esteriore dei manifestanti che e' un mezzo
essenziale di espressione e di comunicazione. "Al di la' delle parole
scritte e pronunciate, il corpo umano e' impiegato per testimoniare in modo
drammatico i fatti e le verita' legati al problema in questione" (Hildegard
Gos-Mayr). Soltanto un atteggiamento calmo e disciplinato da parte dei
manifestanti potra' dare alla manifestazione un carattere di nobilta' e di
dignita' che le dara' una maggiore forza. Al contrario, un atteggiamento
rilassato e disordinato dei manifestanti non potrebbe non incidere
negativamente sugli spettatori.

Queste prime manifestazioni pubbliche devono essere innanzitutto strumenti
di persuasione capaci di far valere la giustezza della causa sostenuta, ma
esse costituiscono gia' dei mezzi di pressione che preparano la messa in
opera dei mezzi di costrizione.

Senza pretendere di essere esaurienti, citiamo alcuni metodi di
manifestazione pubblica:

- Comunicati. La presa di posizione pubblica di diverse personalita'
attraverso un comunicato rilasciato alla stampa puo' fornire una preziosa
garanzia a questa o a quella rivendicazione. Tuttavia un tale metodo e'
efficace solo se il testo dei comunicato e' sufficientemente forte e
preciso in modo che il fatto di sottoscriverlo sia gia' di per se stesso un
impegno. Purtroppo cio' non e' il caso della maggior parte dei comunicati a
cui siamo abituati, soprattutto in Francia. Troppi intellettuali e artisti
"di sinistra" - in pratica sempre gli stessi - si accontentano di firmare
regolarmente comunicati che protestano per principio contro questo o
quell'attentato alla democrazia, senza che cio' abbia in genere la minima
incidenza sul fatto in questione. Precisiamo tuttavia che non si deve
rimproverare a questa elite di fare questo, ma le si deve rimproverare di
far soltanto questo.

- Petizioni. Promuovere una petizione significa raccogliere il maggior
numero di firme in fondo a un testo che denunci una certa ingiustizia e
richieda una certa soluzione appropriata. Questo testo verra'
successivamente spedito, o consegnato direttamente da una delegazione, a
quelli che hanno il potere di decidere in merito al problema posto. Questa
procedura puo' rivelarsi efficace nel caso in cui sia possibile raccogliere
un numero rilevante di firme. Tuttavia la facilita' con cui si firma un
testo rischia di ridurre la portata di una tale iniziativa.

Facciamo notare a questo punto che le due prime azioni politiche di Gandhi
furono appunto la redazione e l'invio di due petizioni. Infatti, nel 1894
quando Gandhi, su proposta dei compatrioti residenti nel Sud-Africa,
accetto' di rinviare il suo ritorno in India per condurre sul posto la
lotta contro il razzismo che gravava sulla comunita' indiana, la prima
decisione che egli prende e' di redigere una petizione, rivolta
all'Assemblea legislativa del Natal, per chiedere di respingere il progetto
di legge che privava gli indiani del diritto di voto. "I giornali - ricorda
Gandhi nella sua autobiografia - la riportarono con commenti favorevoli,
impressiono' anche l'assemblea, fu discussa alla Camera. (...) Pero' la
legge fu approvata". Questa prima petizione fu dunque un insuccesso. Ma
essa permise agli indiani, fino allora rassegnati e passivi, di mobilitarsi
in difesa dei loro diritti. "Questa petizione - scrive Gandhi - fu la prima
ad essere mai stata spedita dagli Indiani ai legislatori sudafricani. Era
il primo tentativo da parte degli indiani di usare una tale procedura e
un'ondata di entusiasmo attraverso' tutta la comunita'".

Allora Gandhi non si scoraggio' e decise di far giungere al governo inglese
"una petizione fiume". Bisogna tuttavia sottolineare che Gandhi decise "di
non accettare una sola firma se il firmatario non avesse prima capito a
pieno il significato esatto della petizione". In quindici giorni furono
raccolte diecimila firme: un successo considerevole. La petizione fu
spedita a Lord Ripon, allora segretario di Stato alle Colonie. Inoltre, "ne
erano state stampate un migliaio di copie per farle circolare e per
distribuirle; era la prima volta che si informava la popolazione indiana di
quali fossero le sue condizioni nel Natal. Inviai copie a tutti i
pubblicisti di mia conoscenza. "The Times of India", in un articolo di
fondo sulla petizione, difendeva a spada tratta le richieste indiane.
Furono inviate copie anche ai periodici e pubblicisti di diversi partiti in
Inghilterra: il "Times" di Londra si dichiaro' favorevole alle nostre
rivendicazioni e cominciammo a sperare che alla legge fosse posto il veto".
Infatti il governo di Londra, impressionato dalla campagna di Gandhi,
oppose il veto al progetto di legge ritenendo che esso stabiliva una
discriminazione razziale nei confronti di una minoranza dell'Impero. Gandhi
otteneva cosi' il suo primo successo. Tuttavia questo non fu che parziale,
perche', alla fine, i bianchi del Natal seppero aggirare l'ostacolo che
Londra aveva messo sulla loro strada: essi formularono la loro legge in
termini che non potevano piu' essere qualificati come razzisti. Questo
progetto di legge, cosi' emendato, ma che portava agli stessi risultati
pratici, fu approvato e votato. Gandhi doveva riprendere la lotta ma era
sicuro, questa volta, di poter contare sulla determinazione dei suoi
compatrioti che avevano preso coscienza della loro forza e vinto la loro
paura.

- Sfilata. Si parla di sfilata quando i manifestanti formano un corteo e
percorrono a piedi la citta' da un punto all'altro. Cartelli e slogans
informano gli spettatori sulle ragioni obiettive della manifestazione. La
sfilata e' il metodo piu' classico della manifestazione pubblica. Cosi',
quando viene annunciato che il tal partito, il tal sindacato o il tale
movimento invita la popolazione a partecipare ad una manifestazione, si
tratta generalmente di una sfilata.

Facciamo solo presente che, dal punto di vista della strategia della
nonviolenza, l'organizzazione di una sfilata deve soddisfare le esigenze
caratteristiche dell'azione nonviolenta. Si puo' ragionevolmente pensare
che queste esigenze non saranno soddisfatte se non sara' in precedenza
deciso che debbano esserlo, e se non vengano prese precauzioni particolari
perche' lo siano effettivamente. Pensiamo in particolare alla scelta degli
slogan e all'atteggiamento dei manifestanti nei confronti delle forze di
polizia.

- Marcia. Si parlera' di marcia quando i manifestanti percorrono a piedi
lunghe distanze da una citta' all'altra attraverso uno o piu' paesi. Il
fine e' di sensibilizzare la popolazione delle regioni attraversate
sull'ingiustizia che si vuole denunciare. Cartelli e striscioni con qualche
semplice scritta e volantini che diano maggiori spiegazioni devono
permettere agli spettatori di essere informati sulle ragioni e sugli
obiettivi della marcia. In ciascuna citta'-tappa si possono organizzare
delle riunioni pubbliche per informare gli abitanti e per provocare un
dibattito pubblico sul problema in questione. Sara' utile stabilire dei
contatti con le personalita' e i movimenti capaci di prendere posizione in
favore dei manifestanti e di promuovere a loro volta delle manifestazioni.
Delegazioni possono chiedere di essere ricevute dalle autorita' locali per
far valere nei loro confronti il punto di vista dei manifestanti.

La marcia puo' avere il fine preciso di richiamare l'attenzione dei
pubblico su un'azione che avverra' al termine di essa. Un esempio
particolare e' dato dalla famosa "marcia del sale" intrapresa da Gandhi
allo scopo di preparare il popolo indiano a violare la legge con la quale
il governo faceva pagare ad ogni indiano una forte tassa per ogni acquisto
di sale. Dopo aver percorso a piedi 380 chilometri attraverso l'India
prendendo la parola in ogni villaggio attraversato per invitare la
popolazione alla resistenza contro la legge ingiusta, giunse in riva al
mare e compi' il gesto simbolico di raccogliere un po' di sale. Da quel
momento Gandhi diventava ribelle dell'impero britannico. Per effetto della
marcia, tutta l'India aveva gli occhi puntati su di lui ed era pronta a
ribellarsi.

Nel 1971 venne promossa, dal leader nonviolento spagnolo Gonzalo Arias e da
numerosi suoi compatrioti, una "marcia sul carcere", da Ginevra a Madrid,
allo scopo di esprimere la propria solidarieta' con l'obiettore Jose'
Beunza detenuto allora a Valenzia, e di far pressione sul governo perche'
venisse riconosciuto uno statuto legale a lui e agli altri obiettori. La
marcia, a cui partecipavano pure manifestanti di diversi paesi, dovette
interrompersi al posto di frontiera di Bourg-Madame dove gli spagnoli
furono arrestati e gli altri marciatori respinti verso la Francia. Ma la
stampa riferi' abbondantemente dell'avvenimento e il fine dell'azione, che
era innanzitutto quello di informare l'opinione pubblica sulla situazione
degli obiettori spagnoli, fu raggiunto.

- Sciopero della fame limitato. Quando lo sciopero della fame si iscrive
nella strategia dell'azione nonviolenta ripugna chiamarlo con il suo nome:
si preferisce allora parlare di digiuno. Ma pensiamo che cio' sia un
errore. Ci sembra importante distinguere il digiuno intrapreso per motivi
di ordine religioso o terapeutico dallo sciopero della fame intrapreso per
motivi di ordine politico. Di conseguenza, il digiuno e' un'azione privata,
mentre lo sciopero della fame e' un'azione pubblica.

Lo sciopero della fame limitato a qualche giorno, tra i 3 e i 20 giorni,
mira a denunciare pubblicamente un'ingiustizia e ad informare l'opinione
pubblica su di essa. Si tratta di un'azione di protesta che di per se
stessa non potra' generalmente pretendere di sopprimere l'ingiustizia. Ma
essa puo' avere un effetto considerevole sull'opinione pubblica e cio' in
particolare se la personalita' di chi la compie e' importante. Facciamo
pero' notare che il moltiplicarsi sconsiderato degli scioperi della fame
rischia di stancare l'opinione pubblica e di screditare questo mezzo.
Percio' e' opportuno ricorrervi con molta cautela.

Al termine di queste manifestazioni, converra' ripresentare all'avversario
delle proposte precise in vista di un regolamento negoziato dei conflitto.
E' possibile che la pressione esercitata dall'opinione pubblica sia
abbastanza forte da costringere l'avversario a non portare avanti uno
scontro di cui puo' temere che torni a suo svantaggio. In un regime
democratico (certo, tutto e' relativo, e si potrebbe avanzare che nessun
regime e' veramente democratico, ma diversi confronti che si impongono
permettono di dire che certi lo sono e certi non lo sono affatto), la
"forza dell'opinione pubblica" e' reale e puo' far maturare certi problemi
fino a che le soluzioni desiderabili diventino possibili. Ci sembra pero'
che molti liberali, a cui ripugna per temperamento il ricorso all'azione
diretta, tendano a sopravvalutare questa forza. Quando si tratta di opporsi
a una decisione del governo, non basta il piu' delle volte che l'opinione
pubblica si esprima perche' la pressione esercitata su di esso sia
abbastanza forte per costringerlo a cedere. Sara' allora necessario
ricorrere all'azione diretta, o almeno lasciar capire chiaramente che si e'
decisi a farlo.



5. Invio di un ultimatum

Di fronte al fallimento degli ultimi tentativi di negoziato, diventa
necessario fissare all'avversario un ultimo termine al di la' del quale
saranno date disposizioni di ricorrere all'azione diretta. L'ultimatum, che
ricorda le ragioni e gli obiettivi dei movimento, i tentativi precedenti di
negoziare e i loro fallimenti, puo' essere considerato come l'ultimo passo
in vista di un accordo negoziato. Effettivamente, la prova di forza
incomincia con l'ultimatum. Questo in effetti e' piu' un mezzo di
costrizione che un mezzo di persuasione. E' d'altronde verosimile che
l'avversario si rifiuti di cedere di fronte a cio' che bisogna pur chiamare
una minaccia e che egli considerera' un "inammissibile ricatto". Egli
rifiutera' l'ultimatum sostenendo di non temere la prova di forza. Inoltre,
l'ultimatum e' un appello all'opinione pubblica per invitarla a mobilitarsi
in vista dell'azione. Conviene percio' rendere pubblico il testo
dell'ultimatum e, a questo scopo, farlo pervenire alla stampa, ai movimenti
e alle personalita' suscettibili di solidarizzare con quelli che sono
decisi ad agire.

Nel racconto della lotta condotta nel Sudafrica, Gandhi spiega a lungo in
quali condizioni, nel 1908, egli spedi' un ultimatum al generale Smuts.
L'azione che stava conducendo allora era diretta contro l'Atto asiatico,
detto anche l'"Atto Nero", che rendeva obbligatorio a tutti gli indiani di
iscriversi nei registri del governo. Questa legge stabiliva che "quasi in
ogni momento o luogo, gli indiani potevano essere invitati ad esibire il
certificato di registrazione; gli esperti di polizia potevano entrare nelle
case degli Indiani per esaminare i permessi". Gandhi giudico' questa legge
contraria alla dignita' degli indiani e invito' i suoi compatrioti a
combatterla fino a che non fosse abolita. Dopo una prima prova di forza,
durante la quale gli indiani si erano rifiutati di farsi registrare, Gandhi
accetto' il compromesso un po' paradossale propostogli dal generale Smuts a
nome del governo. Questo permetteva di abolire l'Atto asiatico se gli
indiani si fossero impegnati a iscriversi volontariamente. Gandhi ci tenne
a iscriversi per primo e chiese ai suoi compatrioti di fare altrettanto in
conformita' agli impegni presi. Gandhi aveva pero' commesso l'errore di
accettare un accordo sospendendo l'azione diretta davanti ad una semplice
promessa: infatti il generale Smuts non mantenne il suo impegno e rifiuto'
ostinatamente di abolire l'"Atto Nero". A quel punto Gandhi si trovo'
costretto a riprendere l'offensiva rilanciando l'azione diretta. Egli si
decise allora a spedire un ultimatum al generale Smuts. "Infine - riferisce
nel suo racconto - fu spedito un ultimatum al governo. Non adoperammo la
parola "ultimatum", ma fu cosi' che il generale Smuts chiamo' la lettera
che gli spedimmo in cui veniva espressa la determinazione della comunita'".
Il testo dell'ultimatum ricordava l'accordo raggiunto precedentemente e
precisava: "La comunita' ha spedito numerosi comunicati al generale Smuts e
preso tutte le iniziative legali possibili per ottenere giustizia, ma esse
finora non hanno portato ad alcun risultato. Siamo spiacenti di dover
affermare che se l'Atto asiatico non verra' abolito in conformita'
all'accordo, e se la decisione del governo a riguardo non sara' comunicata
agli indiani entro una data stabilita (la data fu fissata per il 16
agosto), i certificati ritirati dagli indiani verranno bruciati e gli
stessi ne sopporteranno le conseguenze umilmente ma con fierezza".

Gandhi e i suoi esitarono molto prima di spedire questo ultimatum: "Ci
furono molte discussioni - egli racconta - quando fu spedito l'ultimatum.
La richiesta di una risposta entro un termine stabilito non sarebbe stata
considerata insolente? Non avrebbero avuto l'effetto di irrigidire il
governo e di portarlo a respingere i nostri termini che altrimenti avrebbe
potuto accettare?". Ma alla fine tutti gli indiani della comunita' africana
decisero di spedire l'ultimatum: "Dovemmo - continua Gandhi - correre il
rischio di essere accusati di mancanza di cortesia, e pure quello di vedere
il governo rifiutare, per risentimento, cio' che altrimenti avrebbe potuto
accordare. (...) Dovemmo adottare un atteggiamento diretto senza
esitazione. (...) Il linguaggio dell'ultimatum si inseriva in una
progressione naturale e appropriata".

Per il giorno in cui doveva scadere l'ultimatum, Gandhi organizzo' una
manifestazione per bruciare i certificati nel caso in cui il governo si
fosse ostinato a rinnegare l'impegno che aveva assunto. Smuts respinse
l'ultimatum con disprezzo: "Quelli - egli disse allora - che hanno rivolto
una simile minaccia al governo non si rendono conto della sua potenza. Mi
dispiace che qualche agitatore stia tentando di eccitare dei poveri
indiani, che si troveranno sul lastrico se soccomberanno ai loro
incitamenti". Quando la manifestazione stava per incominciare, Gandhi
ricevette un telegramma nel quale era detto che "il governo si doleva della
decisione della comunita' indiana, ma non poteva cambiare la propria linea
di condotta". La manifestazione incomincio' e Gandhi insistette sulle gravi
conseguenze che potevano derivare dal fatto di bruciare il proprio
certificato e chiese ai presenti di calcolare i rischi che stavano per
assumersi. Ma i partecipanti furono unanimi nel decidere di passare ai
fatti e piu' di duemila certificati furono bruciati. Infine, dopo molte
altre peripezie, l'"Atto Nero" venne annullato.

(Continua)



4. MATERIALI. ORDINE DEL GIORNO DEL CONSIGLIO COMUNALE DI FANO CONTRO LA GUERRA

[Il seguente "Ordine del giorno a sostegno delle iniziative tese a
scongiurare la guerra in Iraq" e' stato approvato dal Consiglio Comunale di
Fano. Per maggiori informazioni si puo' contattare l'estensore, Luciano
Benini (lucben at libero.it), che e' uno dei piu' qualificati amici della
nonviolenza in Italia]

Il consiglio comunale di Fano

premesso che:

il Comune di Fano fa parte degli "Enti locali per la pace" e dovrebbe
quindi impegnarsi per la soluzione pacifica e nonviolenta dei conflitti,

lo Statuto del Comune di Fano all"art. 5, punto 2, afferma "Promuove e
favorisce relazioni economiche, culturali e sociali al fine di contribuire
alla pace ed allo sviluppo di relazioni fra i popoli, attivando forme di
cooperazione, scambi e gemellaggi con citta' europee ed extraeuropee";

lo Statuto del Comune di Fano all'art. 5, punto 3, afferma che "In
ottemperanza e in attuazione dell'art. 11 della Costituzione, il Comune
ripudia la guerra e la sua preparazione";

ad un anno dagli attentati alle Twin Towers e al Pentagono, non e' provata
l'esistenza di alcun collegamento fra quei tragici eventi e la nazione
irachena, come testimoniato dalle indagini compiute e per dichiarazione
delle massime autorita' statunitensi;

qualsiasi iniziativa tesa a minare la sovranita' interna di un Paese senza
comprovate ragioni collegate a precisi e circostanziati atti in violazione
del diritto internazionale assumerebbe un carattere arbitrario;

una nuova guerra in medio oriente potrebbe avere effetti gravi di
destabilizzazione dell'area ed essere di ulteriore alimento allo
svilupparsi del fondamentalismo e del terrorismo;

perdura una grave situazione di sofferenza della popolazione irachena,
testimoniata da numerosi rapporti delle maggiori agenzie umanitarie
dell'Onu, causata dalla crisi economica e dall'embargo, che ha provocato
oltre un milione e mezzo di vittime civili e contro il quale piu' volte si
e' espresso il Parlamento italiano;

l'ininterrotta presenza per nove anni di ispettori aventi mandato Onu ha
garantito l'esame e l'ispezione di migliaia di siti in territorio iracheno,
disponendo la rimozione di armi di distruzione di massa e collocando
telecamere ed avanzati sistemi di monitoraggio;

tenuto conto:

che l'accusa all'Iraq di detenere forse alcune bombe nucleari ed armi
chimiche e biologiche proviene da un paese, gli Stati Uniti, che di tali
armi di distruzione di massa ne detiene molte centinaia di migliaia e le ha
gia' ripetutamente utilizzate (Hiroshima, Nagasaki, Vietnam, Corea, Iraq,
Kossovo, ecc.);

che la tecnologia per la produzione di armi chimiche, nucleari e
batteriologice fu fornita negli anni '80 dai paesi occidentali, Italia in
testa, quando il dittatore iracheno era il pupillo dell'occidente in
contrapposizione al regime di Komeini in Iran;

che la guerra non e' mai la soluzione a nessun conflitto internazionale;

che si dovrebbe imparare dalla recente inutile guerra in Afghanistan che ha
ucciso molti piu' civili innocenti di quanti ne siano morti a causa degli
attacchi terroristici negli Stati Uniti e che non solo non e' servita a
debellare il terrorismo internazionale ma semmai gli ha fornito nuove
ragioni di azione;

sensibile

ai numerosi appelli che sono venuti contro la guerra dal mondo religioso
(papa, vescovi italiani, vescovi cattolici e anglicani inglesi, Consiglio
Ecumenico delle Chiese) e laico (ex presidente degli Stati Uniti Jimmy
Carter);

auspica

che l'Italia non si limiti a non condividere il protrarsi delle sanzioni e
la eventualita' di azioni militari, ma avvii una forte iniziativa
diplomatica tesa a scongiurare la guerra, annullare le sanzioni economiche
e dare una soluzione definitiva alla questione irachena;

impegna il Sindaco, la Giunta e il Presidente del Consiglio

a trasmettere il presente ordine del giorno al Consiglio di Sicurezza
dell'Onu, al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e ai
Presidenti di Camera e Senato.



5. DIBATTITO. VINCENZO ORSOMARSO: I MOVIMENTI, LA SINISTRA E IL PROGRAMMA

[Ringraziamo Enzo Orsomarso (per contatti: vorsoma at tin.it) per averci messo
a disposizione questo articolo scritto per la rivista "Ora locale".
Vincenzo Orsomarso insegna a Viterbo ed e' da sempre impegnato nella
sinistra critica, per la pace e i diritti umani; e' autore di densi saggi
gramsciani e sulle questioni della formazione]

Va affermato con forza che oggi la sinistra non puo' fare a meno di
stabilire un confronto permanente con i movimenti che in questi mesi sono
nati e si sono sviluppati sui nodi fondamentali del presente.

Non si tratta solo di forze sociali e culturali di cui l'opposizione ha
bisogno per condurre fino in fondo una battaglia contro il tentativo del
centrodestra di creare un regime nel nostro paese, ma e' necessario
considerare queste nuove realta' come una risorsa per il rinnovamento di
cui le forze politiche democratiche e di sinistra hanno profondo bisogno,
pena la loro dissoluzione.

Il rapporto quindi da stabilire e' in primo luogo di ascolto; ma cio' non
puo' bastare, e' necessario che i partiti siano pronti al confronto, ad
assumere le istanze dei movimenti ai fini dell'innovazione politica,
programmatica ma anche organizzativa. Mentre per i movimenti in questa fase
e' indispensabile creare una fitta rete di comunicazione che consenta loro
di contaminarsi, di accrescere il consenso e la partecipazione popolare; la
giustizia, la difesa dello stato di diritto, dei diritti sociali, dello
stato sociale, la globalizzazione della democrazia, la lotta contro la
guerra  sono questioni strettamente intrecciate tra di loro.

Oggi e' ancora una volta la guerra la piu' grave delle forme di violazione
del diritto e come nel secolo scorso e' assunta a strumento per il
controllo delle risorse energetiche, dei mercati e dei territori; ma e'
anche lo strumento per affermare l'egemonia statunitense e fronteggiare
possibili futuri concorrenti. Lo sguardo dell'amministrazione americana
sembra rivolto soprattutto alla Cina, dove uno sviluppo incurante del
degrado ambientale, dei diritti umani e delle condizioni materiali di vita
di milioni di lavoratori, sta per fare del gigante asiatico una temibile
potenza mondiale (cfr. W. Bello, Il mondo del crepuscolo americano,
intervista a cura di B. Vecchi, in "il manifesto", 17 settembre 2002,
p.12). Una prospettiva che atterrisce gli Stati Uniti e rappresenta uno dei
motivi per i quali  l'unica superpotenza mondiale si avvia sulla strada
delle globalizzazione blindata e delle guerre cosiddette preventive che,
tra l'altro, dovrebbero avere una funzione anticiclica, dovrebbero cioe'
porre argine ad una crisi economica che e' il risultato della stessa
globalizzazione liberista. Un'idea sostenuta da ambienti molto vicini alle
lobby dell'industria bellica ma che per Immanuel Wallerstein risulta
infondata: il costo economico della guerra che si profila in Iraq produrra'
"lo stesso tipo di danno di lungo termine alla posizione mondiale degli USA
nell'economia-mondo che fece la guerra del Vietnam" (I. Wallerstein, Il
migliore alleato di Osama bin Laden e' a Washington, alla Casa Bianca, in
"Carta", 19/25 settembre 2002, p. 23).

E' quindi improbabile che le guerre permanenti possano determinare la
ripresa dell'economia nordamericana, ma in questi ultimi tre anni le spese
militari negli USA hanno raggiunto circa 400 miliardi di dollari, pari al
40% della spesa militare mondiale, inoltre sono ben 85.000 le imprese che
lavorano per  il complesso sistema militare statunitense. Un potente
apparato industriale e lobbistico capace di condizionare le scelte
dell'Amministrazione e del Congresso americano in materia di politica
internazionale.

Piu' in generale le guerre preventive rispondono all'esigenza imperiale di
produrre un sistema organizzato di apartheid su scala mondiale che dovrebbe
garantire il trasferimento di valore dal Sud verso il Nord, accentuando la
gia' grave divaricazione sociale planetaria che e' il risultato della
gestione del debito dei paesi poveri e degli aggiustamenti strutturali
imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale.

La globalizzazione blindata che si profila oltre a ridurre drasticamente
gli spazi di liberta' e'  assolutamente indifferente ai diritti dei popoli
coinvolti nei conflitti, come dimostrano le vicende dell'Afghanistan, ed e'
destinata ad accelerare la crescita dell'"economia irregolare e illegale",
un fenomeno che negli ultimi anni ha interessato anche i paesi di antica
industrializzazione. Secondo uno studio dell'Universita' di Linz,
l'economia "irregolare e illegale" negli ultimi trenta anni (dal '70 al
2000) in Italia passa dal 10,7% al 28,5%, in Germania dal 2,8% al 16%, nel
Regno Unito dal 2% al 13,3%, negli Usa dal 3,6% al 9,1%, rispetto al Pil
degli stessi paesi. Non dissimile e' la crescita della economia sommersa
nei paesi poveri o in via di sviluppo dove l'economia in nero si aggira
mediamente intorno al 39% con punte superiori al 50% in paesi come la
Nigeria, Egitto, Filippine, Bolivia o Peru', mentre nei paesi in
transizione la quota media dell'economia illegale si aggira intorno al 23%
con punte del 41 % in Russia (Cfr. N. Nesi, I. Cicconi, Capitalismo e
globalizzazione, Koine', 2002, p. 114).

La globalizzazione liberista afferma cosi' la sua piu' profonda natura, il
rifiuto di qualsiasi  regola che non sia funzionale al rapido accrescimento
dei guadagni. D'altronde la famosa affermazione di un esponente del governo
Berlusconi, secondo cui "con la mafia bisogna convivere", rappresenta una
pratica di governo dell'economia diffusa in troppi paesi devastati
socialmente, culturalmente e moralmente da uno "sviluppo" che rifugge
leggi, regole e diritti.

Ha precisato recentemente Samir Amin che "si sta affermando sia nel mondo
degli affari che in quello politico" un "modello vicino a quello mafioso":
non si tratta di un fenomeno che riguarda solo i paesi del Terzo Mondo e i
paesi ex socialisti, ma sta diventando regola nel cuore stesso del
capitalismo centrale (cfr. S. Amin, Il capitalismo senile, in "La rivista
del manifesto", settembre 2002, p. 13).

In questo contesto e' del tutto evidente come le organizzazioni che si
fondano sull'illegalita' trovino un oceano di opportunita' e possibilita'
di operare. Pertanto la difesa dello stato di diritto oggi puo' essere
efficace, soprattutto in un paese come il nostro, solo se posta nell'ambito
della questione piu' generale della lotta per la pace, della
globalizzazione dei diritti, della democrazia e della regolamentazione
politica dei movimenti di capitale, nonche' della tassazione del capitale
nelle sue varie forme. A proposito di quest'ultima misura va detto, anche
se solo di passaggio, che e' la strada che consente di far uscire dal
generico l'insieme di proposte (dalla riduzione dell'orario di lavoro, al
reddito di cittadinanza, alla difesa e all'allargamento dello stato
sociale) che si sono accumulate disordinatamente in questi anni senza mai
porsi il problema di rimuovere quelle strettoie che dall'alto ne
impediscono la praticabilita' (cfr. R. Bellofiore, Con e oltre Keynes, in
"La rivista del manifesto", luglio/agosto 2002, pp. 31-32).

Pace, globalizzazione della democrazia e regolamentazione politica
dell'economia, difesa ed estensione dei diritti sociali e del lavoro, stato
di diritto sono i punti su cui le forze democratiche e di sinistra sono
chiamate ad elaborare un programma che va costruito insieme ai movimenti
che oggi sono in campo. Nonostante l'ostilita' nascosta di quanti nella
sinistra e nel centrosinistra non hanno nessuna intenzione di imboccare
questa strada, anzi sperano in quel riflusso che potrebbe consentire a ceti
politici ormai privi di un vero ancoraggio sociale di riprendere a
veleggiare nel mare dei compromessi per approdare, nel nome dell'interesse
nazionale, a nuove forme di consociativismo, ovviamente facendo leva sulle
crescenti difficolta' del governo del Cavaliere.

E' una "sinistra liberista", per la quale la democrazia partecipata e' una
jattura e che rivendica  quell'autonomia della politica dai condizionamenti
dei movimenti di massa che di fatto ha favorito la subordinazione dei
gruppi dirigenti, anche socialdemocratici, agli interessi dei potentati
economici globali.

Al contrario i movimenti di questi mesi sono gli eventi su cui far leva per
avviare un processo politico partecipativo per andare anche oltre quella
versione di sinistra dell'autonomia della politica che consiste nel
riproporre un movimento-partito con una testa centralizzata e delle
periferie acefale.

Gli obiettivi politici e sociali per i quali si  mobilitano ormai un enorme
e crescente numero di persone certo non pongono all'ordine del giorno
l'abbattimento del sistema di sfruttamento capitalistico, il percorso e'
tutto da costruire, ma mettono di fatto in discussione l'ideologia della
"societa' di mercato" che si appropria di pezzi rilevanti di "vita" per poi
restituirli in forme degradate.

I movimenti di massa non possono e non devono produrre timore e sconcerto
tra le forze di sinistra, al contrario vanno considerati come enormi
risorse collettive, saperi sociali da mettere in produzione ai fini di una
rinnovata progettualita' politica. La strada della partecipazione diffusa
e' l'unica che puo' consentire la costruzione di un programma
profondamente democratico; ma e' anche il modo per consentire alla sinistra
di insediarsi nuovamente nella societa' e riformare radicalmente una forma
partito ormai arrivata al capolinea.



6. MAESTRE. SIMONE DE BEAUVOIR: IL GOVERNO HA RISPOSTO

[Questo frammento abbiamo estratto da Simone de Beauvoir, A conti fatti,
Einaudi, Torino 1973, 1980, p. 404. Il governo di cui si parla e' quello
argentino nel '72, ma in quanti paesi del mondo avviene lo stesso. Simone
de Beauvoir e' nata a Parigi nel 1908; e' stata protagonista, insieme con
Jean-Paul Sartre, dell'esistenzialismo e delle vicende della cultura, della
vita civile, delle lotte politiche francesi e mondiali dagli anni trenta
fino alla scomparsa (Sartre e' morto nel 1980, Simone de Beauvoir nel
1986). Antifascista, femminista, impegnata nei movimenti per i diritti
civili, la liberazione dei popoli, di contestazione e di solidarietˆ, e'
stata anche lucida testimone delle vicende e degli ambienti intellettuali
di cui e' stata partecipe e protagonista. Opere di Simone de Beauvoir:
pressoche' tutti i suoi scritti sono stati tradotti in italiano e piu'
volte ristampati; tra i romanzi si vedano particolarmente: Il sangue degli
altri (Mondadori), Tutti gli uomini sono mortali (Mondadori), I mandarini
(Einaudi); tra i saggi: Il secondo sesso (Il Saggiatore e Mondadori), La
terza eta' (Einaudi), e la raccolta Quando tutte le donne del mondo·
(Einaudi). La minuziosa autobiografia (che e' anche un grande affresco
sulla vita culturale e le lotte politiche e sociali in Francia, e non solo
in Francia, attraverso il secolo) si compone di Memorie dâuna ragazza
perbene, L'eta' forte, La forza delle cose, A conti fatti, cui vanno
aggiunti i libri sulla scomparsa della madre, Una morte dolcissima, e sulla
scomparsa di Sartre, La cerimonia degli addii, tutti presso Einaudi. Opere
su Simone de Beauvoir: Enza Biagini, Simone de Beauvoir, La Nuova Italia,
Firenze 1982 (cui si rinvia per una bibliografia critica ragionata)]

Il governo ha risposto che erano i prigionieri che si ferivano da se'
battendo la testa contro i muri.



7. RILETTURE. JOAN BAEZ: BALLATE E FOLKSONG

Joan Baez, Ballate e folksong, Newton Compton, Roma 1977, pp. 176. Una
raccolta delle canzoni della Baez attinte dal patrimonio popolare.



8. RILETTURE. SILVIA BALLESTRA: JOYCE L.

Silvia Ballestra, Joyce L., Baldini & Castoldi, Milano 1996, e ristampa
recente in edizione economica senza indicazione di data, pp. 274, euro
8,40. L'indimenticabile Joyce Lussu si racconta in diciannove conversazioni.



9. RILETTURE. EDGARDA FERRI: IL PERDONO E LA MEMORIA

Edgarda Ferri, Il perdono e la memoria, Rizzoli, Milano 1988, pp. 270.
L'autrice dialoga, con tenerezza e pudore, con i parenti di vittime della
Shoah, della violenza politica, del terrorismo, dei poteri criminali.



10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.



11. PER SAPERNE DI PIU'

* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it

* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it

* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it



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Numero 374 del 4 ottobre 2002