Medio Oriente, condizioni economiche della pace



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Israele/Palestina, l'opzione nonviolenta

In Cisgiordania e Gaza circola la proposta controcorrente del professor
Mubarak Awad: per ottenere la fine dell'occupazione israeliana i
palestinesi devono adottare una strategia nonviolenta. Non è solo più
umana, è anche più efficace della lotta armata. Una sfida al governo
Sharon, ma anche al fondamentalismo islamista. Condizione cruciale è il
rafforzamento dell'economia popolare e di un nuovo tessuto economico
israelo-palestinese. Ad esempio attraverso organizzazioni di microfinanza
come Faten o Asala. La posta in gioco della pace è lo sviluppo di tutta la
regione.

Francesco Terreri
http://www.microfinanza.it


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Israele/Palestina, l'opzione nonviolenta

Francesco Terreri

La sua proposta controcorrente l'ha rilanciata nei giorni più drammatici
dell'operazione "Muraglia di difesa", quando l'esercito israeliano
assediava il quartier generale di Yasser Arafat a Ramallah e a Jenin si
combatteva casa per casa. "Per vincere, i palestinesi devono adottare una
strategia nonviolenta". Mubarak Awad, nato a Gerusalemme 59 anni fa,
psicologo, fondatore del "Palestinian Center for the Study of Nonviolence",
aveva organizzato un movimento palestinese di resistenza nonviolenta
all'occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza già negli anni '80.
Nel 1988 le autorità militari israeliane lo hanno arrestato ed espulso e da
allora vive negli Stati Uniti.
Non ha mai cessato però di lavorare per l'adozione di una strategia
nonviolenta di lotta per arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi.
Non solo negli anni della speranza, pur controversa, di Camp David e di
Oslo, ma anche oggi di fronte al precipitare della crisi. In queste
settimane nei Territori palestinesi occupati circola il documento-appello
"Nonviolent resistance in Palestine: pursuing alternative strategies"
scritto a quattro mani con Jonathan Kuttab, stimato avvocato palestinese
difensore dei diritti umani.

Né rassegnati né violenti
"Il popolo palestinese ha una reale opportunità di raggiungere i suoi
obiettivi nazionali se persegue una consapevole e organizzata strategia di
resistenza nonviolenta all'occupazione". Una strategia, precisano Awad e
Kuttab, su vasta scala: "non semplicemente simbolica o episodica". Quindi
nella comunità palestinese deve riprendere la discussione politica "dove
ciascuno abbia una voce invece che un fucile". Anzi occorrono nuove
elezioni democratiche.
La tesi di Awad è che, mentre le autorità israeliane sanno bene come
combattere un antagonista armato, "un approccio nonviolento
neutralizzerebbe molta della loro potenza militare". Ci si aspetta che i
palestinesi siano o rassegnati o violenti. Ma c'è una terza possibilità.
Un'azione nonviolenta di tipo gandhiano prevede "grandi marce pacifiche",
"forme di boicottaggio economico" e altre azioni di disobbedienza civile,
mentre le "minacce di guerra e la violenza" - non solo gli
attacchi-kamikaze contro i civili ma ogni violenza - "sono
controproducenti".
L'obiettivo è la fine dell'occupazione israeliana della West Bank e di Gaza
e lo smantellamento degli insediamenti, per arrivare alla soluzione "due
popoli per due stati". L'esempio è la transizione democratica in Sudafrica.
"Cruciale" per il successo della strategia è il ruolo del mondo arabo e
musulmano e il supporto internazionale. "Occorre tradurre in concreta
protesta nonviolenta il sostegno di tante popolazioni arabe" ai
palestinesi. E bisogna creare "un'arena mondiale per una lotta nonviolenta
basata sull'etica e sul diritto internazionale".

L'"argomento degli Hezbollah"
Un tale programma non è solo una sfida alla politica del premier israeliano
Ariel Sharon, ma anche al fenomeno politico più importante del mondo arabo
e musulmano contemporaneo: il fondamentalismo islamista. In un'intervista
rilasciata al pacifista israeliano Meir Amor (sul periodico nordamericano
Peace Magazine, ottobre-dicembre 2000), Awad racconta di come la
nonviolenza sia ostica all'Islam ufficiale, ma di aver trovato che in
India, con Gandhi, lavorava anche il musulmano Abdul Ghaffar Khan.
Awad e Kuttab, sia pur implicitamente, non credono alla semplice
interpretazione del "terrorismo come disperazione". Sanno che le
organizzazioni islamiste sono movimenti politici con un vasto seguito. E
probabilmente sarebbero d'accordo con la lucida analisi di un'altra
psicologa, Grazia Attili ("Kamikaze. Le basi biologiche dell'attacco
suicida", Psicologia Contemporanea, marzo-aprile 2002), secondo cui "i
meccanismi su cui poggia l'addestramento dei kamikaze sono gli stessi su
cui qualsiasi potere fa leva per convincere e avviare alla guerra i propri
soldati: patria, terra, famigliaŠ" e "le migliaia di persone da sterminare
vengono disegnate come individui estranei, portatori di caratteristiche
così diverse da essere assimilabili a specie diverse. Deumanizzati".
Infatti nel documento-appello dei due pacifisti si affronta di petto il
principale ostacolo all'adozione della nonviolenza da parte dei
palestinesi, il cosiddetto "argomento degli Hezbollah". E' la stessa
televisione satellitare degli Hezbollah libanesi, Al Manar, a "ricordare
costantemente ai palestinesi di seguire il loro esempio": la lotta armata
degli Hezbollah ha costretto gli israeliani a ritirarsi dal Libano
meridionale occupato.
Ma Mubarak Awad e Jonathan Kuttab ribattono: "Gli israeliani non hanno mai
considerato il sud del Libano parte di Israele. L'occupazione poteva
cessare quando il suo costo in vite umane fosse diventato troppo pesante
rispetto ai benefici militari della sua continuazione. Viceversa, la lotta
armata dei palestinesi è spesso interpretata come una minaccia contro
Israele in quanto tale".

La nonviolenza contro la paura
Siamo al punto dolente, alla tensione che anima da mesi non solo gli
israeliani ma gli ebrei in tutto il mondo: la violenza e il terrorismo
mettono in gioco l'esistenza stessa dello Stato di Israele. "E quando è in
gioco l'esistenza" commentano Awad e Kuttab "gli israeliani e i loro
sostenitori all'estero fanno fronte comune e combattono nonostante le
perdite". Spiegare, come fanno alcuni, che l'obiettivo delle azioni armate
non è distruggere Israele ma porre fine all'occupazione "non è convincente,
soprattutto nel momento in cui l'israeliano medio viene ucciso o ferito e
la guerra arriva nello stesso Israele".
Ecco la forza dirompente della proposta nonviolenta. "Una lotta nonviolenta
non può essere fraintesa come una minaccia fisica a Israele". Infatti
significa "l'accettazione dell'umanità dell'altro popolo". Anzi "un vasto
numero di israeliani che desiderano sinceramente una giusta pace possono
essere coinvolti in questa lotta nonviolenta contro l'occupazione e gli
insediamenti".
Certo, i palestinesi sceglieranno la nonviolenza "solo se si convinceranno
della sua efficacia" mentre ora "la gente è ancora intrappolata nella
retorica della lotta armata". Insomma Awad e Kuttab non si nascondono le
difficoltà. Una di esse, e non di poco conto, riguarda l'economia.
La resistenza nonviolenta richiede la costruzione e il rafforzamento di
proprie istituzioni sociali ed economiche di base e lo sviluppo di un
tessuto economico "alternativo" tra israeliani e palestinesi, soprattutto
se la prospettiva, come indica Awad, è una "Comunità economica
mediorientale". Ma come sta l'economia popolare in Palestina? Il punto lo
fa Microfinanza, l'organizzazione italiana che promuove il microcredito e
che ha in queste settimane i propri operatori al lavoro sia nei Territori
Palestinesi che in altri paesi dell'area come il Marocco.

Commercio equo e microcredito, istituzioni dell'economia popolare
Ai primi di giugno, sotto gli auspici di Usaid, l'agenzia statunitense di
cooperazione allo sviluppo -ancora influenzata dall'impostazione
clintoniana piuttosto che da quella dell'amministrazione Bush - si è
riunita a Marrakech in Marocco la conferenza "Microfinanza nel Vicino
Oriente". Come per l'analoga conferenza di Budapest (maggio) sull'Est
Europa, in questo appuntamento si è scoperto che i programmi di
microcredito in Medio Oriente sono più di quelli censiti dal segretariato
del Microcredit Summit, fermi a 17 con 54 mila destinatari.
A Marrakech ce n'erano almeno un'altra decina, anche se la presenza attiva
è limitata a Marocco, Egitto, Libano, Giordania. E Palestina. Dalla West
Bank e da Gaza, oltre agli operatori ufficiali di Usaid, dell'Unrwa (Onu),
della Arab Bank, c'erano due istituzioni di microfinanza locali, Faten e
Asala.
Faten, Palestine for Credit and Development, nasce nel '98 da un programma
di microcredito avviato da Save The Children. E' un'organizzazione non
profit che fornisce servizi di microfinanza a microimprenditori
palestinesi, soprattutto donne. In oltre tre anni ha erogato crediti per
18,9 milioni di dollari e al dicembre 2001 aveva 4.498 prestiti attivi.
Dichiara un tasso di ripagamento del 99% e una "sostenibilità operativa" -
cioè la capacità di contare sulle proprie forze - del 75%.
Asala, Palestinian Business Women's Association, è un'organizzazione che
opera a Gaza e in Cisgiordania in partnership con il Catholic Relief
Services. Sostiene le donne imprenditrici a basso reddito nell'avviare
nuove attività o nel migliorare quelle esistenti. Con la chiusura delle
frontiere e la riduzione delle opportunità di lavoro in Israele a seguito
della seconda Intifada, le piccole attività economiche autonome hanno
acquisito una rilevanza molto maggiore per il livello di vita delle
famiglie.
Anche nel commercio internazionale, attraverso i canali dell'equo e
solidale, qualcosa si è mosso, ad esempio con l'Italia. La Holy Land
Handicraft Cooperative Society, organizzazione di artigiani palestinesi del
legno dell'area di Betlemme, ha avviato relazioni stabili prima con la
cooperativa di Ferrara Commercio Alternativo, poi con Equomercato di Cantù
e con il Consorzio Ctm-Altromercato. Parc, Palestinian Agricultural Relief
Committes, la maggiore ong palestinese impegnata soprattutto nello sviluppo
rurale, ha stretto rapporti con Ctm-Altromercato.

Le condizioni economiche della pace
Si tratta di esperienze ancora limitate, anche se non vanno sottovalutate.
Peraltro l'economia palestinese è, da due anni a questa parte, al disastro.
Prima del precipitare di quest'ultima crisi, una popolazione di 3 milioni
di persone viveva con un prodotto nazionale di 4,9 miliardi di dollari,
cioè con poco più di 1.600 dollari annui a testa. Gli aiuti internazionali
nel 2000 ammontavano a 636 milioni di dollari.
Con la cosiddetta seconda Intifada e l'escalation della violenza, il
reddito nazionale pro capite è crollato (-10,3% nel solo 2000). I 120 mila
palestinesi che lavoravano in Israele - 80 mila dei quali illegali - sono
quasi sempre impediti a raggiungere il posto di lavoro a causa del blocco
dei Territori. La disoccupazione in Cisgiordania e a Gaza è arrivata al 75%
della popolazione attiva. Tuttavia non è privo di significato il fatto che
l'unico settore che nel decennio '90 ha registrato una crescita media
(+3,6% l'anno) superiore a quella della popolazione è quello della giovane
e piccola industria manifatturiera palestinese.
Del resto la guerra strisciante sta portando alla crisi anche l'economia
israeliana, nonostante i fasti del complesso militare-industriale. E, vista
nel contesto Europa/Mediterraneo, la questione è quella di un mondo arabo
di 246 milioni di abitanti, oltre la metà dei quali popolazione urbana, con
una generazione di giovani "mai così numerosa", come ricorda il recente
Arab Human Development Report dell'Undp, che praticamente da venticinque
anni non vede miglioramenti nel tenore di vita (+0,3% medio annuo
l'incremento del prodotto lordo pro capite tra il 1975 e il 2000).
Difficile immaginare un percorso verso la pace, la convivenza, la libertà
dalla paura senza pensare ad un futuro possibile per queste persone. In
Palestina e in Israele ci sono minoranze attive che si stanno assumendo le
proprie responsabilità. Sarà bene che noi europei ci assumiamo le nostre.