Una testimonianza dal Kurdistan



Quest'anno in Kurdistan ci sono tornata da sola, in novembre. Saremmo
dovuti partire in tre, in dicembre. Avevamo programmato lavoro ed impegni
per mantenerci liberi in quel periodo. Ma un mattino mi sveglia una
telefonata dal Kurdistan, intuisco la voce della mia amica Bakshan,
distorta dall'eco del satellite, interrotta da pause ed interferenze da
telefono di embargo. "E' meglio che venite ora, perché poi dopo il
Ramadan...chissà". E' caduta la linea, d'altronde ogni altra parola sarebbe
stata spreco, inutile aggiunta a quel "dopo chissà". Il confine sul Tigri è
l'unica via d'accesso al Kurdistan iracheno possibile per stranieri come
noi che vanno in Kurdistan senza essere dell'ONU, senza cioè poter passare
per Baghdad. Varco precario, chiuso a singhiozzo dai siriani ad ogni
minaccia di guerra e bombardamenti in Iraq. Dovevo partire in fretta, c'era
il rischio"dopo-chissà" di trovare chiuso. Aspettare solo il tempo
necessario a cambiare in dollari gli aiuti raccolti durante l'anno per i
bambini e per le donne di laggiù, orfani e vedove di un genocidio
dimenticato.

C'era il sole al mio arrivo sul Tigri, l'acqua era chiara, l'aria dolce
dell'autunno del sud. Crudele la bellezza di questo Eden ferito, terra di
fuga, luogo di non ritorno per migliaia di profughi, ora più che mai, dopo
dieci anni di "protezione" dell'ONU. Dieci anni di "no flying zone" che
hanno cancellato dal cuore dei Kurdi ogni speranza di ricostruzione, ogni
sogno di un avvenire di pace nella loro terra, dopo anni di deportazioni,
persecuzioni, bombardamenti chimici. Dieci anni che non sono valsi a
sradicare dal terreno nemmeno la millesima parte dei dieci milioni di mine
antiuomo, lasciate lì in ricordo delle passate persecuzioni, tragico
souvenir del made in Italy. Dieci anni di confini chiusi alle rare
organizzazioni umanitarie che entrano in Kurdistan clandestinamente, con
mille difficoltà, su una barchetta che fa la spola tra le sponde del Tigri.
Si contano sulle punta delle dita di una mano: Emergency, Norwegian People
Aid, Diakonia, France Liberté e poche altre.

Solo l'ONU è legittimata ad operare ufficialmente nell'area kurda
"protetta". Ma tutti i progetti di cooperazione devono ricevere
l'approvazione di Baghdad. Come conseguenza di questa sorta di "doppio
embargo" quest'anno due miliardi di dollari destinati all'area kurda sono
rimasti congelati nelle casse dell'ONU, che non muove un dito senza il
consenso di Baghdad. D'altra parte "sarebbe davvero strano trovare un
funzionario delle Nazioni Unite talmente motivato allo sviluppo del
Kurdistan, da rischiare di perdere un posto da diecimila dollari al mese".
E' un commento ricorrente qui in Kurdistan, dove la gente si è
dolorosamente rassegnata alla scandalosa inefficienza dell'ONU, a sprechi e
corruzioni della burocrazia del doppio embargo.

Una terra di antica tradizione agricolo pastorale, la mezza luna fertile,
dove diecimila anni fa ebbe inizio l'agricoltura, dipende oggi, a dieci
anni dalla fine della Guerra del Golfo, dagli aiuti alimentari della FAO,
dal grano e dai prodotti dell'agricoltura occidentale provenienti da Stati
Uniti, Europa o Australia. L'accordo "Oil for Food" "Petrolio in cambio di
Cibo", proibisce espressamente l'acquisto di cereali e beni prodotti in
Kurdistan. Oggi i Kurdi dipendono dagli aiuti umanitari delle Nazioni
Unite, che li protegge, allo stesso modo in cui, fino a dieci anni fa,
dipendevano dal controllo centralizzato di beni e servizi del regime
iracheno, che li perseguitava. Ed a causa dell'embargo non è nemmeno
possibile l'esportazione dei prodotti agricoli fuori dal Kurdistan. Unica
possibilità di sviluppo per i Kurdi resta il contrabbando, o la fuga da
clandestini, con il rischio di saltare sulle mine Valmara o di morire nelle
barche della disperazione in rotta per l'Europa. Solo in questi casi i
confini si aprono. Così come si aprono, da sempre, ad armi ed eserciti,
nella zona kurda "protetta" dall'ONU.

Da sempre si respira aria di guerra qui in Kurdistan. Ma ora la situazione
sembra diventata più grave, più dura per chi assiste da spettatore
impotente. Carri armati turchi ed iracheni si fronteggiano in prossimità
dei monti verso Amedye, ai confini con la Turchia. La sensazione è quella
di una guerra incombente. I proclami minacciosi di Saddam trasmessi di
continuo alla televisione irachena si fanno incalzanti: "riprenderemo il
Kurdistan quando e come vogliamo". Gli effetti collaterali di possibili
nuovi "bombardamenti umanitari" i Kurdi se li sentono già addosso. I giorni
della fuga sotto le bombe chimiche si riaffacciano come un incubo nella
memoria collettiva, a dieci anni dall'ultimo esodo, quello di un milione e
mezzo di kurdi, verso Turchia ed Iran. In ogni casa, in ogni villaggio, si
raccolgono uvetta e frutta secca, da portare in tasca per sostenersi in
caso di fuga. Ora che sono qui capisco fino in fondo le parole della mia
amica in quella confusa conversazione telefonica, quel "dopo chissà" pesa
addosso alla gente, ora più che mai. Sensazione di insicurezza, di
insopportabile isolamento, che da sempre accompagna chi vive nella "no
flying zone" e che ora sembra dilatarsi all'infinito.

Negli ultimi mesi si sono aggiunti gli "Jund al Islam" (Soldati dell'Islam)
a sconvolgere i già precari equilibri in questa terra dimenticata. Si
tratta di un esercito di mercenari arabi guidati da Abdullah Al Shafi, un
arabo afgano, che pare abbia stretti legami con Bin Laden ed Al Qaida. I
terroristi islamici, addestrati a Kandahar, hanno stabilito basi
consistenti in due villaggi del Kurdistan iracheno nei pressi di Halabja, e
hanno dichiarato guerra ai due principali partiti kurdi del Nord Iraq, PDK
e PUK, ed a tutte le altre correnti islamiche. Hanno poi intrapreso una
serie di atti terroristici in tutto il Kurdistan, con l'assassinio di
esponenti politici kurdi e persino di un famoso cantante, Arjuman Howrami,
colpevole di bestemmia contro l'Islam. Ma il fatto più grave è avvenuto ad
Halabja, alla fine di settembre. A tredici anni dagli atroci bombardamenti
chimici di Saddam Hussein, i Kurdi di Halabja sono stati ancora una volta
vittima di un orrendo crimine, questa volta per mano dei Soldati
dell'Islam. Quaranta "peshmerga" (partigiani) del PUK (Unione Patriottica
del Kurdistan) sono stati ammazzati mentre erano raccolti in preghiera in
una moschea. Li hanno ritrovati con i corpi dilaniati ed orrendamente
mutilati Per qualche settimana Halabja è stata teatro di forti scontri. I
terroristi islamici hanno occupato militarmente Halabja, hanno chiuso le
scuole femminili, hanno imposto le loro consuete leggi, vietato musiche,
danze, fotografie, vietato alle donne di mostrare il volto. Il PUK ha poi
ripreso il controllo di Halabja, ma i Soldati dell'Islam continuano ancora
ad avere basi in alcuni villaggi del Kurdistan iracheno ai confini con
l'Iran, continuano ancora ad intimidire le donne, a minacciare la
popolazione inerme.

Ho incontrato alcune vedove di Halabja. Mi sono vergognata di saperne così
poco di queste recenti vicende. Sulla pelle hanno ancora le cicatrici dei
bombardamenti chimici. Cicatrici che non si rimarginano. Le loro tragiche
storie continuano a consumarsi al buio, ora come allora. Sono fiere dei
corsi di cucito e di computer iniziati da un anno con gli aiuti che abbiamo
portato. Per fortuna le loro scuole non sono state distrutte dai
terroristi. Potranno riprendere anche per quest'anno. Con gli aiuti di
Siena riprenderà anche lo scuola bus che porta a scuola le ragazze dai
campi profughi e dai villaggi nei pressi di Duhok. Fanno parte anche loro
della schiera degli ottocentocinquantamila kurdi etichettati come "IDP"
"Internally Displaced People" "rifugiati interni". Scacciati da città e
villaggi controllati dal regime iracheno, che continua la politica di
"arabizzazione" del terriorio, si sono accampati in Kurdistan in tendopoli,
in alloggi di fortuna, in vecchi campi di concentramento e carceri, usate
un tempo da Saddam nelle campagne di sterminio dei Kurdi. Ora come allora
non c'è ONU né UNICEF ad assisterli. Le loro tragiche storie continuano a
consumarsi nel buio. Un buio pieno di nomi di mogli, di madri, di figli che
nessuno potrà più pronunciare. Nomi dei tanti esodi che nessuno ricorda.

L'anno scorso lo scuola bus era solo per trenta bambine. Quest'anno saranno
in cento a prenderlo. Le maestre non credono ai loro occhi. Difficile
descrivere la gioia impressa sul loro volto. Il loro incredibile sorriso ci
dà l'entusiasmo per continuare a portare fin qui questi pochi granelli di
sabbia. Qui se ne comprende fino in fondo il valore. "Ser ciaua" mi dicono
le donne per salutarmi, prima della partenza. E' un antico saluto kurdo.
Più che un saluto è una benedizione, un augurio, una promessa di ricordarti
per sempre. Significa "ti porto sugli occhi".

"Ser ciaua" donne e bambini del Kurdistan, portarvi negli occhi e non
dimenticarvi è tutto quello che mi rimane per voi.



Iole Pinto

Dicembre 2001

Comitato di Solidarietà con il Popolo Kurdo di Siena

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