La nonviolenza e' in cammino. 330



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 330 del 2 gennaio 2002

Sommario di questo numero:
1. Marguerite Yourcenar, si accorse in seguito
2. Giulietto Chiesa, la terra trema
3. Lidia Menapace, gestione nonviolenta del conflitto: cultura, forme,
istituzioni (parte seconda)
4. Presentazione della Lega obiettori di coscienza
5. Riletture: Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza
6. Riletture: Johan Galtung, Gandhi oggi
7. Riletture: Brian Martin, La piramide rovesciata
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. PER LA CRITICA DELLE IDEOLOGIE. MARGUERITE YOURCENAR: SI ACCORSE IN
SEGUITO
[Da Marguerite Yourcenar, L'opera al nero, Feltrinelli, Milano 1969, 1986,
p. 25 (in diversa traduzione - ed a nostro avviso meno pungente - anche in
Opere. Romanzi e racconti, Bompiani, Milano 1986, 2000, p. 600)]
Si accorse in seguito che i libri sragionano e mentono come gli uomini, e
che le prolisse spiegazioni del canonico vertevano spesso su fatti che, non
esistendo, non avevano bisogno di essere spiegati.

2. RIFLESSIONE. GIULIETTO CHIESA: LA TERRA TREMA
[Giulietto Chiesa, giornalista e saggista, e' un acuto osservatore delle
vicende internazionali. Questo articolo e' comparso sul quotidiano "Il
manifesto" del 30 dicembre]
"They have done a good job". Un amico americano, sicuramente liberal,
riassumeva cosi' la situazione bellica in Afghanistan dopo il definitivo
massacro dei taliban e di Al Qaeda. "Loro" erano e sono il team di George W.
Bush, primo imperatore del XXI secolo. E unico. In effetti alcuni obiettivi,
anche se non tutti, sono stati raggiunti. E cerchero' qui di spiegare in
cosa consistono. Tra questi, tuttavia, non c'e' la vittoria contro il
terrorismo internazionale. Del resto essa non poteva esserci poiche' la
guerra, iniziata il 7 ottobre 2001, non puo' concludersi cosi' in fretta.
Altrimenti verrebbero contraddette le previsioni del vice-imperatore Dick
Cheney, secondo cui essa durera' ben oltre l'aspettativa di vita della
presente generazione.
Il primo obiettivo raggiunto e' la vendetta. Il numero dei taliban e degli
arabi annientato e' e rimarra' sconosciuto ma, mettendo insieme tutte le
notizie ufficiose provenienti dal campo dei vincitori (altre notizie non
abbiamo, essendo quelle del nemico, per definizione, false), possiamo
calcolare che almeno 20.000 uomini siano stati uccisi nei bombardamenti, nei
combattimenti, nelle stragi che hanno accompagnato la vittoria, nei massacri
di prigionieri (non si fanno prigionieri in questa guerra). Un rapporto di
cinque contro uno, se si assume che il numero dei morti nell'attacco dell'11
settembre si aggiri attorno ai 4000. Un rapporto certo inferiore a quello
delle rappresaglie naziste della seconda guerra mondiale, ma comunque tale
da soddisfare i requisiti della proclamazione di guerra ("la nostra causa e'
giusta, la nostra causa e' necessaria", ha detto George Bush) e l'ira del
consumatore americano.
*
Per quanto concerne le vittime civili, esse - com'e' noto - non erano un
obiettivo e sono, per definizione, collaterali. Come tali esse non sono
state ne' fornite, ne' indagate, e dunque non le conosceremo mai. Anche
perche', quando qualcuno comincera' a contarle, l'Afghanistan sara' gia'
sparito dalle prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi, e dunque
non varra' la pena occuparsene.
Il secondo obiettivo raggiunto e' la profonda modificazione delle linee di
demarcazione dell'influenza degli Stati Uniti in tutta l'Asia,
particolarmente nell'Asia Centrale. Al termine della guerra afghana gli
Stati Uniti si sono assicurati il controllo diretto di almeno quattro delle
repubbliche ex sovietiche collocate tra il Medio Oriente e l'area del Mar
Caspio. Per la precisione la dipendenza di Georgia e Azerbaijan - entrambe
guidati da ex membri del Politburo del Pcus - era gia' un dato di fatto
prima dell'inizio della guerra afghana. Ma ora essa e' sancita poco meno che
ufficialmente e, comunque, ben nota a tutte le cancellerie diplomatiche. In
altre epoche sarebbe stato detto che la Georgia di Eduard Shevardnadze e
l'Azerbaijan di Geidar Aliev erano diventate due colonie degli Stati Uniti,
ma ora si usano espressioni piu' soft. Si aggiungono ora al bottino di
guerra l'Uzbekistan di Islam Karimov e il Turkmenistan di Saparmurad
Nijazov. Nel primo di questi due stati gli Usa hanno installato una base
militare permanente. Del secondo nulla si sa con precisione, anche perche'
Ashkhabad, la capitale, e' impenetrabile agli stranieri, in particolare ai
giornalisti. Tuttavia buone fonti (russe) affermano che Turkmenbashi' (il
padre di tutti i turkmeni, come Nijazov ama farsi chiamare) avrebbe
consegnato in mani americane l'aeroporto ex strategico - fu strategico per i
sovietici nel corso della loro guerra afghana - di Mary, e forse anche
quello di Charzhou. Naturalmente Nijazov si e' anche dichiarato disponibile
ad ospitare i terminali dei futuri oleodotti e gasdotti per il trasporto
dell'energia dall'area del Caspio al Golfo Persico. Progetto che, come
vedremo meglio piu' avanti, risale alla meta' degli anni '90 ed e'
strettamente connesso alla nascita del regime dei taliban.
*
In poco meno di tre mesi l'amministrazione Bush ha disegnato una Yalta
asiatica, rimodellando a suo vantaggio tutti i rapporti geo-politici
continentali. La nuova superguerra contro il terrorismo internazionale sta
pagando ottimi dividendi. E tutto lascia intravvedere che anche le fasi
future della superguerra saranno accompagnate da analoghe modificazioni
geo-politiche in altre aree del pianeta. Cio' varra' per l'area della
Palestina, dove Israele ha cominciato, con l'appoggio di Washington, la
guerra per la liquidazione dello stato palestinese, avendo in vista il
rilancio del progetto di un grande stato ebraico. La liquidazione di Arafat
e' la via per questo disegno, che chiudera' ogni via per un negoziato. Cio'
varra' per l'Iraq, dove la fine di Saddam Hussein portera' all'instaurazione
di un protettorato statunitense e all'installazione di basi americane,
analogamente a quanto fu fatto con l'Arabia Saudita dopo la guerra del Golfo
del 1991.
Altrettanto vasti rimodellamenti di influenze a vantaggio degli Usa
accompagneranno le previste guerre in Somalia e Sudan. Tutto lascia pensare
che la nuova guerra asimmetrica e planetaria non si limitera' allo sterminio
sistematico delle tentacolari propaggini della piovra di Al Qaeda. A
Washington sanno che cio' non bastera' a eliminare il pericolo, anche
nell'ipotesi di un successo totale delle operazioni di polizia. Infatti la
tensione sociale nel pianeta - gia' dilatatasi spasmodicamente nell'ultimo
ventennio - e' destinata anch'essa a crescere di pari passo con il rilancio
(in chiave keynesiana e militare) della globalizzazione americana. E dunque
si pone fin d'ora il problema della moltiplicazione di basi e presidi
permanenti degli Stati Uniti in tutte le aree del pianeta in cui sara'
possibile prevedere il risorgere della minaccia agli interessi economici e
politici americani.
*
Cio' detto occorre tuttavia dare un'occhiata al rovescio della medaglia del
"good job". La Grande Yalta asiatica implica l'esistenza di un
partner-avversario cui concedere parte del bottino. Questo
partner-avversario e' la Russia. Che e' rientrata in gioco dopo il lungo
limbo decennale in cui la sua debolezza oggettiva (e l'assoluta
subalternita' di Eltsin agli interessi americani) l'avevano relegata.
Paradossalmente e' stato proprio l'imperatore a richiamare la Russia nel
grande gioco. Per ragioni di necessita', costretto a pagare un prezzo che
potrebbe rivelarsi perfino piu' salato di quanto appaia oggi. Occorreva la
Russia, la sua solidarieta', per mostrare al mondo la Grande Alleanza contro
il terrorismo internazionale.
L'esistenza stessa di una Grande Alleanza forniva infatti la prova
apparentemente inconfutabile della legittimita' morale della guerra afghana.
Per ottenere l'appoggio di Mosca l'amministrazione Usa non ha lesinato
sforzi e impegni, come dimostra la frequenza febbrile dei contatti, viaggi
in Russia, missioni diplomatiche, concessioni di vario genere, dispiegate
dal poker d'assi Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell.
Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente questo abbraccio multiplo
offertogli da Washington. Lo ha perfino anticipato offrendo, per primo,
addirittura piu' tempestivo di alcuni alleati occidentali, condoglianze e
solidarieta' dopo la tragedia dell'11 settembre. Da quel momento si e' avuta
l'impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington.
Impressione che e' stata accresciuta da un impegno davvero totale,
spasmodico, ossessivo, unanime (al punto da far sospettare un ordine di
scuderia) di tutta l'informazione occidentale nel confermare quella
sintonia.
In realta' abbiamo assistito all'inizio di una serrata (e a tratti molto
rude) trattativa tra Stati Uniti e Russia per ridefinire i loro reciproci
rapporti e per ridisegnare - appunto - la carta asiatica alla luce cruda
dell'11 settembre.
Il presidente russo ha trattato con grande maestria, specie se si tiene
conto che le carte che aveva in mano non erano ne' molte, ne' decisive. Il
primo a sapere che la Russia e' debole, e' proprio lui. Cosi' Vladimir Putin
ha giocato a carte scoperte, mettendo sul tavolo del ranch texano di Bush,
tutto intero, il quadro del contenzioso tra Russia e Stati uniti. Si e'
dunque negoziato su molte questioni contemporaneamente. Ci si e' lasciati
con una stretta di mano perche' ciascuno dei due ha ritenuto (o ha finto di
ritenere) di avere conquistato qualche vantaggio. Putin ha subito ottenuto
la fine di ogni ingerenza esterna sulla Cecenia. Cioe' sia la fine
dell'aiuto ai ribelli ceceni, fino a ieri abbondantemente fornito,
attraverso la Georgia e l'Azerbaijan, dai servizi segreti turchi con la
benedizione della Cia, sia la fine delle periodiche lamentele occidentali in
tema di violazione dei diritti umani in Cecenia. D'ora in poi, e per qualche
tempo, il silenzio dell'Occidente e' garantito.
*
Putin, dal canto suo, ha inghiottito la perdita delle due repubbliche ex
sovietiche di Uzbekistan e Turkmenistan, dopo aver dovuto subire, senza
poter fare quasi nulla, quella di Georgia e Azerbaijan. Ma ha ottenuto, in
cambio, l'assicurazione che l'area d'influenza russa su Armenia,
Kazakhistan, Kirgizia, Tajikistan sono sara' minacciata nell'immediato
futuro. La Russia compie una cospicua ritirata strategica da una parte
dell'Asia Centrale, riconoscendo implicitamente la rivendicazione americana
sull'area, gia' proclamata da Clinton come "area d'interesse vitale per gli
Stati Uniti d'America". E' probabile che Mosca consideri questa ritirata
come temporanea, o tattica, ma essa, per quanto dolorosa, rappresenta un
riconoscimento dei rapporti di forza reali.
Tanto piu' ferma, di conseguenza, e' stata la posizione di Putin in tema di
regolamento politico della situazione afghana dopo la definitiva
liquidazione del regime talibano. Non era certo sfuggita a Mosca la lunga
operazione pakistano-saudita-statunitense il cui obiettivo avrebbe dovuto
essere la creazione di una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare
le immense risorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali
attraverso l'Afghanistan.
L'operazione, iniziata nei primi anni '90, aveva visto, come protagoniste,
due importanti compagnie petrolifere, la Unocal Corp. (americana) e la Delta
Oil (di proprieta' del sovrano saudita). Entrambe avevano soppiantato la
minuscola compagnia petrolifera argentina Bridas nei rapporti con il satrapo
turkmeno Saparmurad Nijazov (che avrebbe dovuto assicurare il terminale nord
di oleodotti e gasdotti) e con i mujaheddin afghani (che si pensava di poter
mettere d'accordo in cambio di molto denaro), che avrebbero dovuto smettere
di combattersi, garantire un futuro relativamente tranquillo all'Afghanistan
e consentire il passaggio degli oleodotti verso il sud, verso il Golfo
Persico.
*
Operazione strategica a doppia valenza: economica e politica.
Da un lato avrebbe consentito una soluzione molto economica per il movimento
di ingenti quantita' di energia verso le grandi economie occidentali.
Dall'altro avrebbe permesso di bypassare la Russia, sottraendole al tempo
stesso principesche royalties e l'influenza sull'intera area
centro-asiatica.
Quest'ultimo aspetto era in stretta connessione con il progetto strategico
(sostenuto da influenti circoli di Washington) di indebolire ulteriormente
la Russia fino a un suo completo collasso, la sua trasformazione in
"confederazione debole", infine la suddivisione in tre stati (Russia
europea, senza il Caucaso del Nord, Siberia Occidentale e Estremo Oriente).
Il progetto falli' per l'impossibilita' di mettere d'accordo le fazioni
afghane. Al suo posto venne deciso di "pacificare" l'Afghanistan mediante un
nuovo regime, costruito artificialmente dall'esterno. Il movimento dei
Taleban era nato cosi', tra il 1994 e il 1995, mediante il finanziamento
saudita delle madrassas (scuole coraniche) e il massiccio intervento dei
servizi segreti pakistani, che fornirono istruzione, comandi, intelligence
per la guerra contro i mujaheddin. Decine di migliaia di studenti coranici
vennero cosi' formati a una nuova Jihad, addestrati, armati e trasportati in
Afghanistan dai campi profughi della North-West Frontier. In meno di due
anni, con armi e fiumi di dollari, i Taleban del mullah Omar conquistarono o
comprarono quasi tutti i comandanti militari ex mujaheddin, costrinsero gli
altri alla fuga, e s'impadronirono del 90% del territorio del paese. Era il
1996 quando arrivarono a Kabul. Ma la Russia non era rimasta con le mani in
mano. I militari e i servizi segreti russi avevano riempito il vuoto
politico del presidente Eltsin. Resisi conto che l'operazione taliban era
diretta a colpire a fondo gli interessi russi, avevano cominciato a
sostenere e armare l'unico antagonista afghano rimasto sul terreno a
contrastare la travolgente avanzata dei taliban: il tagiko Ahmad Shah
Massud, trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir.
*
Il fallimento dell'operazione taliban era stato figlio della
spregiudicatezza di Mosca, pronta a sostenere colui che era stato il suo
acerrimo nemico durante gli anni dell'intervento sovietico in Afghanistan.
Ma ora Vladimir Putin aveva le sue rimostranze da fare a George Bush. E una
proposta: vi diamo l'appoggio politico necessario per liquidare i taliban,
che nel frattempo sono divenuti pericolosi anche per voi. Ma a condizione
che il futuro governo dell'Afghanistan sia concordato con noi. E a un'altra
condizione: che il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sia
gestito assieme alla Russia e non contro la Russia.
Alla luce degli eventi successivi sembra di poter dire che l'accordo
raggiunto nel ranch del Texas, tra Bush e Putin, non fu ne' chiaro, ne'
completo. Gli Usa devono soddisfare le esigenze del generale Musharraf,
pericolante e infido, mentre la Russia ha tutto l'interesse a sostenere fino
in fondo le richieste dei tagiki eredi di Massud. E tra tagiki e Islamabad
non c'e' pacificazione possibile, poiche' l'assassinio di Massud e' opera di
Osama bin Laden non meno che dell'Inter Service Intelligence pakistana. Si
spiega cosi' perche' i tagiki sono entrati a Kabul per primi, contro
l'avvertimento di Bush, impadronendosi di fatto del potere, certo d'accordo
con Mosca, senza aspettare il via libera americano. E si spiega cosi' anche
l'arrivo a Kabul, di nuovo per primi, del contingente russo: secondo il
proverbio "fidarsi e' bene, non fidarsi e' meglio". Che nella versione russa
suona: "abbi fiducia, ma prima verifica" (doveriaj, no proveriaj).
*
Cio' che succedera', a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovra' essere
letto in questa chiave, se si vorra' capire qualcosa. Putin non e' disposto
a regalare l'Afghanistan all'America. Ne' e' disposto a lasciare che
Washington decida da sola sul futuro dell'Asia Centrale e su quello delle
risorse energetiche ivi contenute. E' vero che Mosca e' relativamente
debole, che non e' piu' potenza globale. Ma e' anche vero che nell'area in
questione - il suo "cortile di casa" - Mosca e' ancora molto forte,
temibile, in grado d'influenzare molte situazioni. Ad esempio la tenuta di
regimi come quello di Tashkent e quello di Ashkhabad puo' essere messa
rapidamente a repentaglio se la Russia scoprisse di essere stata ingannata o
colpita nei propri interessi. A Mosca non c'e' piu' Eltsin, manutengolo
degli interessi occidentali. Putin, convinto assertore del capitalismo in
Russia, e' anche un altrettanto convinto fautore degli interessi nazionali
russi. E, se non fosse sufficientemente convinto, dovrebbe fare i conti con
quei settori dell'establishment russo che premono perche' essi vengano
difesi.
Sotto questa prospettiva occorre esaminare anche gli altri due temi che sono
stati al centro dell'incontro di novembre nel ranch del Texas. Su entrambi
non c'e' stato accordo. Su uno si e' registrata una modesta convergenza,
sull'altro si e' registrata una completa divergenza. Si tratta,
rispettivamente, dell'allargamento a est della Nato, e del trattato Abm del
1972. Colin Powell - ma Donald Rumsfeld e' di altro avviso - e' disposto a
concedere molto a una Russia che conceda molto. Per esempio anche un
avvicinamento della Russia alla Nato, che le consenta di entrare in un
organismo congiunto, da inventare ad hoc, in cui alla Russia sia perfino
concesso qualche diritto in materia di decisioni collettive.
Putin ha mostrato di essere interessato a una tale eventualita',
riservandosi di decidere quando le cose si faranno piu' chiare e,
soprattutto, quando a Washington si sara' deciso cosa s'intende regalare
alla Russia. Niente di piu'.
Del resto Putin sa perfettamente che l'allargamento verso est dei confini
della Nato sara' deciso indipendentemente dalla Russia e, quindi, sa che il
proprio spazio di manovra e' segnato dai rapporti di forza concreti, che
sono a suo svantaggio. Per questo non strilla, non si agita, non da' in
escandescenze (come amava fare Eltsin) quando lo si chiude in angolo:
aspetta il momento in cui potra' far valere la sua forza. D'altro canto la
vicenda afghana, cioe' l'inizio della guerra infinita, sembra dire che
Washington non ha piu' molto bisogno della Nato. Ha deciso di fare da sola,
al piu' con l'aiuto dell'Inghilterra. Pensa di potere e di dovere farcela da
sola, senza impacci, senza remore. La Nato avra', sempre di piu', un valore
politico diplomatico. In quel tipo di Nato la Russia potrebbe anche essere
ammessa. Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a una soddisfazione simbolica.
Anche questo ha capito.
*
L'unica cosa, non da poco, che Putin ha ottenuto in Europa, e' stata una
tregua dell'offensiva americana contro la Bielorussia di Lukashenko.
Washington aveva - ed ha - come obiettivo di rovesciare il presidente
bielorusso. Ma dovra' ora dilazionare questo obiettivo per non creare altri
problemi con Mosca. Minsk puo' aspettare. Il "modello Belgrado", della
sovversione finanziata dall'esterno, delle minacce-promesse in cambio del
rovesciamento del leader nazionale di turno, usato con successo contro
Milosevic, per ora non si ripetera'.
La completa divergenza c'e' stata soltanto in materia di "scudo stellare".
Qui Bush non poteva concedere nulla. La filosofia "unilaterale" di Cheney,
Rumsfeld, Rice non ammette deroghe, con o senza il terrorismo
internazionale. L'America e' l'unica superpotenza rimasta. Come tale non si
sente piu' tenuta a negoziare con chicchessia. Al massimo, quando lo
riterra' opportuno, potra' comunicare agli altri le sue decisioni sovrane. A
questo si deve solo aggiungere che lo "scudo stellare" (cioe' la
militarizzazione dello spazio) diventa ora essenziale per il dominio globale
del pianeta. E che i 100 miliardi di dollari necessari per realizzarlo
saranno anche un utile strumento "keynesiano" per rimettere in moto la
disastrata new economy.
*
Come ha scritto il Financial Times pochi giorni dopo la tragedia delle Twin
Towers, "tutti ormai dobbiamo essere di nuovo keynesiani". Anche a questo
proposito Vladimir Putin non ha alzato la voce quando da Washington gli e'
stato comunicato, con i regolamentari sei mesi di anticipo, che gli Stati
Uniti si apprestavano a uscire dal trattato. Ha fatto rispondere dal suo
ministro della difesa, laconicamente, che la Russia comincera' a installare
sui suoi missili Topol non piu' una, ma dieci testate nucleari. La Duma ha
annunciato che la messa in esecuzione degl'impegni del trattato Start-2
sara' sospesa e, nel frattempo, la Russia ha varato il sommergibile nucleare
Ghepard: una nuova generazione capace di gareggiare con il meglio della
tecnologia americana.
Detto in termini piu' concisi, e' cominciata una nuova corsa al riarmo
mondiale. Perche' e' del tutto evidente che la Cina sta accelerando il
proprio sviluppo tecnologico-militare, poiche' sa di essere stata gia'
eletta a nemico principale quando l'attuale "clash of civilizations" contro
il mondo islamico sara' terminato. Dov'e' la "Grande Alleanza" contro il
terrorismo internazionale, che fu sbandierata all'inizio della guerra, per
giustificare la sua "inevitabilita'" e la sua "legittimita'"? Semplicemente
non c'e' mai stata.

3. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: GESTIONE NONVIOLENTA DEL CONFLITTO: CULTURA,
FORME, ISTITUZIONI (PARTE SECONDA)
[Questo intervento di Lidia Menapace, di qualche anno fa, abbiamo ripreso
dal sito della scuola di pace del Comune di Senigallia
(www.comune.senigallia.an.it/scuoladipace_web). Lidia Menapace, una delle
nostre maestre piu' grandi, e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla
Resistenza, è poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto" e
partecipe di varie rilevanti esperienze politiche e culturali della sinistra
critica. E' tra le voci più significative della cultura delle donne e dei
movimenti di solidarieta' e di liberazione. La maggior parte degli scritti e
degli interventi di Lidia Menapace è dispersa in quotidiani e riviste, atti
di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per
un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La
Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della
differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con
Chiara Ingrao), Né indifesa né in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988;
Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna,
Milano 2000. La prima parte di questo intervento abbiamo pubblicato ieri, il
seguito pubblicheremo prossimamente]
4. Nominare i conflitti. Il conflitto sindacale
Allora, come si risolve la questione della gestione nonviolenta del
conflitto?
Dobbiamo almeno proporci alcune procedure mentali, e poi ciascuno cerchera'
di applicarle la' dove vive. Quando si parla di una "azione di movimento",
la metodologia e' questa: io mi convinco di alcune cose e poi cerchero' di
applicarle, esprimerle e farle conoscerle la' dove ho le mie relazioni
sociali, dove parlo con altre persone: nella scuola, nella mia famiglia,
nella professione, nel mio partito, nel sindacato.
La prima cosa da fare e' prendere l'abitudine di nominare sempre tutti i
conflitti, e di non avere paura dell'esistenza del conflitto. Il conflitto
c'e', e coprirlo e' sbagliato. Anche aver paura, vergogna, timore o senso di
colpa del conflitto e' sbagliato. Anche di fronte a tutti i malesseri,
riconoscere che ci sono e' ragionevole. Uno che dicesse che non c'e'
disoccupazione, non e' un benefattore dell'umanita', ma un cretino, perche'
la disoccupazione c'e'. Quando uno dice che la disoccupazione c'e', non
intende dire che e' una buona cosa, dice semplicemente che c'e'. Allora il
conflitto c'e', e ne esistono diverse forme.
Esistono ad esempio dei conflitti di interesse fra varie classi o ceti
sociali, e questo c'e'. Ed e' inutile dire che non esiste, oppure che
dipende dal fatto che gli uni hanno l'odio di classe e gli altri la
prepotenza dei padroni, spiegazioni moralistiche senza fondamento, che
comunque non aggiungono niente al fatto che il conflitto c'e'. Questo
conflitto esiste ed e' un conflitto di interessi. Il problema e' un altro.
Dobbiamo lasciare che si esprima selvaggiamente e vinca il migliore?
Tutta la storia del movimento sindacale ed operaio dimostra che e' stata
scelta un'altra strada: nominare i conflitti e cercare di trovare delle
procedure per governarli. Il fine del sindacato, infatti, non e' la
distruzione fisica dell'avversario, ma la sua riduzione a piu' moderate
richieste. Questo viene fatto attraverso una serie di comportamenti e scelte
di mezzi. La lotta sindacale per definizione e' la riduzione nonviolenta di
un conflitto che poteva essere sanguinoso, e che talora lo fu. Questo
conflitto viene tenuto sotto controllo, ma non nel senso che si dice che
hanno ragione gli operai o hanno ragione i padroni, o nel senso che non e'
vero che il conflitto esiste e basterebbe essere buoni. Questi interessi
sono realmente in conflitto fra di loro, e allora ci si organizza e si
stabiliscono le regole di gestione del conflitto e anche le forme di lotta.
Tra le grandi organizzazioni sociali nell'eta' moderna il sindacato e'
quella che ha scoperto e praticato forme di lotta nonviolenta. "Forma di
lotta nonviolenta" non vuol dire forma di lotta mite, o col sorriso sulle
labbra, ma piuttosto forma di lotta che esclude la distruzione fisica
dell'avversario, che sono dunque grandi manifestazioni, scioperi, picchetti,
etc. Questi strumenti cercano di compattare una forza e presentarla in modo
tale che poi si possa aprire la trattativa avendo manifestato la propria
forza. Questa e' una gestione nonviolenta del conflitto, e io voglio
cominciare proprio da questa, perche' molto spesso si crede che la gestione
nonviolenta del conflitto sia la non gestione del conflitto: si sta li' e si
prendono le sberle in faccia. Questa non e' gestione nonviolenta del
conflitto. La gestione nonviolenta del conflitto e' anche forte,
determinata, che vuol raggiungere degli obiettivi, e che solo esclude la
distruzione fisica dell'avversario, esclude dunque che il conflitto diventi
cruento. Ma il conflitto rimane tale e puo' esprimersi anche con forza: lo
sciopero, il picchetto, la grande manifestazione non sono cose che non
abbiano dentro di se' elementi minacciosi. C'e' un conflitto di interessi!?
Bene, io faccio mancare la mia forza lavoro e tu sei danneggiato.
L'esempio precedente significa che la gestione nonviolenta del conflitto
comporta anche danni. Ad esempio quando a proposito della difesa popolare
nonviolenta si dice che il sabotaggio e' ammesso, si legittimano anche atti
di forza come la distruzione di un ponte per fermare l'invasione del nemico.
Quando si parla di gestione nonviolenta del conflitto bisogna intendere una
cosa energica. Questa osservazione e' importante, perche' altrimenti si ha
sempre l'idea che l'azione nonviolenta sia una resa piu' o meno sorridente
ed eticamente nobile. Non e' questo. L'azione nonviolenta e' azione, e
quindi comporta metodologie, organizzazione, espressione della forza e uso
di mezzi.
L'unica cosa che si esclude e' la volonta' di distruzione dell'avversario, e
questo distingue teoricamente in maniera netta la gestione nonviolenta del
conflitto dalla guerra, che invece e' fondata sull'idea che il conflitto si
puo' eliminare distruggendo uno dei due contendenti. Questa e' la dialettica
amico-nemico, per cui la mia vita e' la tua morte, e non per cui la mia vita
e' la possibilita' di tenere a freno la tua prepotenza obbligandoti a pagare
qualche prezzo. Questa e' la gestione nonviolenta del conflitto. La prima e'
la guerra, o gestione violenta dei conflitti, che significa non solo uso
delle armi e versamento di sangue, ma significa soprattutto l'idea che il
conflitto si possa risolvere solo cancellando uno dei due contendenti. La
dialettica amico-nemico e' fondata sull'idea che se io campo tu devi morire.
La guerra si basa sull'idea che il conflitto si risolve riducendolo, e
d'altra parte per ridurre il conflitto si hanno quelli che dalla guerra del
Golfo in poi si chiamano effetti collaterali. La morte dei nemici si chiama,
infatti, "effetto collaterale". Durante la guerra gli americani dicevano ad
esempio: "abbiamo avuto 400 morti, e poi abbiamo avuto alcuni effetti
collaterali", e cioe' sono morti qualche decina di migliaia di iracheni. Si
tratta degli effetti collaterali di un'operazione chirurgica.
Una delle invenzioni piu' clamorosamente geniali della guerra del Golfo e'
l'uso dei simboli linguistici, che, non a caso, sono stati studiati nei
dipartimenti di linguistica delle universita' americane su commissione del
Pentagono, perche' oramai - lo dico con vergogna - i generali sono diventati
intelligenti. Hanno cosi' tanti soldi che possono comprare quasi tutte le
universita'. Il complesso industriale-militare-scientifico e' l'aggregato di
potere piu' strepitoso ed enorme che ci sia al mondo. E i militari sono i
migliori committenti che qualsiasi scienziato o produttore possa
immaginarsi, perche' chiedono solo una tecnologia che si usa una volta e poi
scoppia e non serve piu'. Quindi tutti gli studi che si fanno sul
riciclaggio, sulla conservazione dei materiali, sull'utilizzo delle macchine
sono una rogna non da poco per chi produce. Al contrario i militari chiedono
una cosa che scoppia, e che poi se ne fa un'altra.
Sono tecnologie molto elementari, queste. Comunque i militari sono ottimi
committenti, hanno soldi a non finire e quasi nessun controllo. E'
sufficiente pensare che la gestione dei 20.000 miliardi all'anno messi da
parte nelle finanziarie per il nuovo modello di difesa sono dati, a
prescindere completamente dalla situazione economica generale, senza
resocontazione. C'e' da sperare che siano utilizzati per amanti, ville,
caviale, champagne, che almeno non fanno danni, perche' se sono stati usati
davvero per armi allora c'e' da aver paura.
*
5. Il conflitto fra i generi. Azione nonviolenta
Abbiamo forse incominciato ad approssimarci all'idea di cosa sia la gestione
nonviolenta del conflitto. Primo e' la sua nominazione: si riconosce che
c'e' un conflitto, lo si chiama per nome e cognome. Ad esempio puo' essere
un conflitto di interessi fra le classi, i ceti, le professioni, un
conflitto economico che riguarda l'accesso alle risorse, il loro utilizzo e
la loro trasformazione in merci, e quanto viene appropriato da chi mette il
suo lavoro e da chi rischia il suo capitale, classicamente, sia pure oggi in
modo piu' sofisticato e piu' complesso. Si possono evocare anche altri
conflitti.
Ad esempio esiste un conflitto di interessi fra genere maschile e genere
femminile, che non e' la stessa cosa che dire che esistono conflitti fra il
singolo uomo e la singola donna. Esistono anche questi, ma possono anche non
esistere, visto che ci sono coppie felici all'interno delle quali non
esistono conflitti. Ci sono partiti o sindacati dove le donne sono
felicissime di come sono trattate, rappresentate, messe in lista o nelle
candidature, fatte riuscire nei posti piu' strepitosamente importanti, e va
benissimo. Ma lasciando stare queste isole felici, esiste tuttavia un
conflitto di interessi fra i due generi.
Questo conflitto di interessi e' storico e dipende dal fatto che le vicende
della storia hanno portato al fatto che uno dei due generi sia dominante,
nel senso che, per esempio, nominando se stesso pretende di nominare
l'intera specie umana. Avrete sentito parlare fino alla noia dei valori
dell'uomo. Magari una donna dice 7000 volte: dobbiamo difendere i valori
dell'uomo. Ma che se li difendano gli uomini i loro valori. Io vorrei
difendere i valori delle donne, ad esempio. Perche' non posso dirlo? Si
risponde: quando si dice uomo, si intende anche donna, tanto siamo uguali.
Allora io dico: siccome siamo uguali, io dico donna, e intendo anche uomo. E
si capisce subito che non e' uguale, perche' se io dico di difendere i
valori della donna, nessuno capisce che sto parlando anche dei valori
dell'uomo. Questo significa che uno dei due generi e' riuscito, essendo
dominante, a imporre che la sua denominazione valga come neutro universale.
Si tratta di un'operazione di una genialita' strepitosa, che maschera il
conflitto.
Quando affermo che il genere maschile e' il genere dominante intendo
offendere gli uomini, perche' considero "dominio" una parola oscena.
Qualunque democratico che lotta contro il dominio delle multinazionali, non
puo' essere contento di essere considerato lui stesso dominatore, altrimenti
c'e' una contraddizione insanabile: "Lottare contro il dominio delle
multinazionali e' utile, ed io eserciterei un dominio sull'altro genere?
Dovrei vergognarmi".
Comunque c'e' questo dominio storicamente consolidato, che si manifesta
negli usi linguistici e soprattutto nella ripartizione del potere pubblico e
sociale, e nel fatto che il genere femminile viene ammesso non
contemporaneamente all'esercizio dei diritti: valga per tutti l'esercizio
del voto come forma della cittadinanza. Generalmente si chiama suffragio
universale quello di tutti gli uomini, che e' l'espressione piu' tipica di
questo gioco mentale per cui tutto il genere maschile e' uguale alla specie
umana. Le donne prima devono chiedere di poter votare, di poter andare
all'universita', di poter esercitare tutte le professioni. Nella storia del
femminismo si ricordano una serie di episodi curiosi, come quello di una
laureata in giurisprudenza che fece domanda per partecipare a un concorso
nella magistratura quando ancora le donne non erano ammesse, e la domanda fu
respinta perche' "mancante del requisito del sesso". Nel senso che la tipa
era sessuata, ma non era del sesso giusto, essendo una donna. A questo punto
si chiede che questo requisito venga almeno considerato per com'e' in natura
nelle sue due forme. Tutto questo riduce questo conflitto gradatamente, per
lo piu' attraverso delle lotte nonviolente.
Queste lotte nonviolente non sono dolci, perche' generalmente dal
suffragismo in poi l'espressione della rabbia delle donne per essere escluse
dal godimento dei diritti politici e civili non si esprime in termini
gentili: se mi ami concedimi il diritto di voto. Si esprime in forme molto
dure: vergognatevi di tenerci fuori dal potere, cedete, mollate il potere
della rappresentanza, riconoscete questo diritto.
Dal movimento del suffragismo in poi anche questo movimento di
rivendicazione dei diritti politici e civili mette all'ordine del giorno
nella storia il conflitto fra i generi, conflitto che era a lungo rimasto
sedato, nascosto, gestito in forma di dominio da una parte e di pressione
anche non consapevole dall'altra. Quando questo conflitto diventa
consapevole, esso assume fin dalle suffragiste inglesi, e questa e' la cosa
interessante, forme e metodi di espressione nonviolenti.
Le suffragiste inglesi invadono il parlamento e gettano volantini sulla
testa dei deputati che stavano discutendo dei "bastardi", cosi' si
chiamavano i figli illegittimi nella legislazione inglese. In questo
volantino c'era scritto: forse ci sono dei genitori illegittimi, certamente
non ci sono dei figli bastardi, quindi evitate questa definizione, i figli
sono tutti legittimi, forse i genitori quando li concepirono potevano non
essere legati in matrimonio secondo le norme stabilite dal codice, ma questo
non implica alcun giudizio sul frutto del concepimento. Oppure le
suffragiste si legavano alle colonne davanti al parlamento e si sedevano per
terra, cosa scandalosissima ai loro tempi, ed anche molto complicata con gli
abiti che portavano, e i poliziotti e spesso anche i militari a cavallo
inglesi non avevano il coraggio di calpestarle e quindi si fermavano. Queste
forme di lotta come il volantinaggio, il legarsi ai simboli delle
istituzioni e il sit-in sono stati inventati dal movimento suffragista e
sono poi diventati patrimonio del movimento politico delle donne.
Gandhi ha studiato le forme di lotta del suffragismo inglese e ha ricavato
molte delle sue teorizzazioni sull'azione nonviolenta da li'. Anzi ha
elaborato una specie di osservazione sulle varie fasi a partire da quella in
cui un movimento rompe gli equilibri culturali, cioe' nomina un conflitto,
lo fa diventare visibile nella storia: i movimenti che rompono l'equilibrio
in un primo momento vengono ignorati, perche' si spera in questo modo che il
movimento si esaurisca da se'. Questa e' una forma di guerra, perche'
ignorare vuol dire cancellare l'esistenza, e' come dire: io campo se tu non
ci sei. Dunque prima vengono ignorati, seppelliti nel silenzio. Poi sono
colpiti dal ridicolo. Infatti, non a caso le suffragiste furono chiamate in
questo modo, dette generalmente zitelle insoddisfatte, che se avessero
trovato qualche marito avrebbero smesso di chiedere il diritto di voto. E
generalmente le barzellette sulle suffragiste si sprecano. Oggi ci sono
quelle sulle femministe, tutte lesbiche, tutte maledonne, tutte nemiche
degli uomini, tutte castratrici. Dopo il ridicolo c'e' la repressione: le
suffragiste vennero anche messe in galera per vilipendio della nazione, per
offesa alla morale pubblica e cosi' via. Infine, quando si superano questi
tre livelli si entra nella storia. Pare che sia cosi', secondo Gandhi.
Quindi bisogna aspettarsi il silenzio, l'irrisione, la repressione, e se si
tiene duro, si diventa un movimento che pratica la sua azione politica
nonviolenta in modo ormai ammesso.
Voglio ricordare che invece negli Stati Uniti il movimento suffragista
incomincio' subito a praticare delle alleanze significative e comincio' ad
esercitare una cosa che non c'era nel movimento inglese, ma che e' presente
nel movimento sindacale, e cioe' la disobbedienza civile e il non rispetto,
tranquillo e nonviolento, delle leggi esistenti. Siccome il codice
matrimoniale americano era fondato sulla subordinazione della donna
all'uomo, della moglie al marito, le suffragiste americane generalmente si
sposavano facendo una dichiarazione di non rispetto del codice, e qualche
volta veniva loro percio' rifiutato il matrimonio. Generalmente i due erano
d'accordo, e dunque si realizzava una gestione del conflitto fra i generi in
cui uno era un disertore, rompendo la solidarieta' del suo branco. Dunque,
fa parte dell'azione nonviolenta anche il non riconoscimento tranquillo
delle leggi esistenti, la disobbedienza civile alle leggi.
Le suffragiste americane fecero anche disobbedienze piu' significative di
questa, che pure era importante in una societa' puritana: generalmente le
suffragiste americane ospitavano gli schiavi neri che scappavano dal sud.
C'e' una storia comune d'alleanza: un movimento di gestione nonviolenta dei
conflitti spesso sente l'esigenza di un'alleanza con le situazioni piu'
marginali e difficili della societa'. Moltissimi schiavi neri che scappavano
dagli stati del sud imparavano il nome di una donna che li ospitava nella
loro casa e che indicava loro un altro nome, fino a che non arrivavano al
nord. Anche questa era un'azione illegale, perche' le suffragiste ospitavano
persone scappate da una condizione di legale schiavitu' nello stato in cui
erano.
Allora, nell'azione nonviolenta, nella gestione nonviolenta dei conflitti,
incominciamo a introdurre un nuovo elemento rispetto alle metodologie che
abbiamo visto nel movimento sindacale e in quello suffragista: si puo' anche
mettere in discussione la legalita' esistente, si puo' anche disubbidire
alle leggi, non sottraendosi alle sanzioni che eventualmente colpiscono. Se
infatti qualcuna di queste donne veniva scoperta, era naturalmente
processata. Questo comporta un altro aspetto della gestione nonviolenta dei
conflitti, che richiede un grande coraggio civile.
Di nuovo, se prima avevo detto che l'azione non violenta e' azione, non e'
passivita', cosi' pure l'azione nonviolenta e' anche grande coraggio civile,
esposizione, assunzione di responsabilita', fino alla rinuncia temporanea
della propria liberta' assoggettandosi ad un processo, con l'intenzione di
dimostrare che c'e' una legge ingiusta che va modificata. L'intendimento e'
ottenere un futuro riconoscimento giuridico alla giustezza della propria
azione.
E' lo stesso tipo di testimonianza che viene richiesta all'obiezione di
coscienza al servizio militare. Inizialmente l'obiezione di coscienza e' il
rifiuto di obbedire ad una legge dello stato, ed in se' e' illegittima.
Eppure questa disobbedienza e' cosi' forte, parla cosi' tanto che prima o
poi modifica la legge. E quindi l'obiezione di coscienza diventa legale.
Su un altro terreno si puo' dire che la lunga omerta' intorno all'aborto,
tollerato benche' fosse un reato, e' stata rotta dall'azione nonviolenta
delle donne che hanno detto: vogliamo che questo problema venga preso in
considerazione, come un problema di cui pubblicamente si parla, e quindi
violiamo la legge, addirittura facciamo dichiarazione di averla violata.
Sapete quante di noi hanno firmato false dichiarazioni di aver abortito per
suscitare il dibattito, in modo da poter poi ottenere una modifica della
legge.
La gestione nonviolenta del conflitto sposta in avanti il conflitto. Mi
interessa molto che si capisca e spero che sia utile trasmettere questa idea
specialmente alle giovani generazioni, che la gestione nonviolenta dei
conflitti e' una cosa che richiede grande determinazione, grande capacita'
organizzativa, grande solidarieta'. La gestione nonviolenta del conflitto
non e' cosa da pappemolli, non e' una cosa semplicemente passiva, puramente
esigenziale. E' una vera politica, tanto e' vero che si propone di ottenere
una modificazione degli assetti giuridici.
(CONTINUA)

4. ESPERIENZE. PRESENTAZIONE DELLA LEGA OBIETTORI DI COSCIENZA
[Dal sito della Lega obiettori di coscienza (in sigla: LOC) riprendiamo
questa scheda di autopresentazione, di qualche anno fa, e che su alcuni
punti richiederebbe di essere aggiornata alla luce delle novita'
legislative - e non solo - degli ultimi anni]
La LOC (Lega Obiettori di Coscienza) nasce nel 1973 (dopo l'approvazione
della Legge 772 del 15.12.1972); dapprima federata al Partito Radicale,
assume dal 1979 la piu' totale autonomia politica e di iniziativa.
La LOC. e' l'associazione degli obiettori di coscienza al servizio militare
e di coloro che si riconoscono nei valori della pace, della solidarieta',
della nonviolenza, e che, con la propria affermazione, intendono contribuire
al superamento del modello e dell'organizzazione militare.
Aderiscono alla LOC i singoli, anche cittadini non italiani, che ne facciano
richiesta, oltre ad associazioni, coordinamenti e collettivi di carattere
locale e sedi locali di associazioni nazionali, i quali, accettando lo
Statuto e la Carta Programmatica, richiedano di federarsi alla LOC, fornendo
i dati tecnici e la situazione organizzativa.
La LOC caratterizza in modo peculiare il proprio agire politico in
ottemperanza alle seguenti linee fondamentali, nelle quali si riconoscono i
diversi gruppi federati, pur restando autonomi nella pratica politica:
- la nonviolenza e la valorizzazione delle differenze culturali,
ideologiche, etniche, sessuali e religiose, come strumento di lotta politica
e punti di partenza imprescindibili per l'elaborazione delle iniziative
della LOC;
- il rifiuto della logica che porta alla risoluzione violenta dei conflitti,
all'organizzazione di modelli di difesa basati sugli eserciti professionali
o meno, alla ricerca scientifica a scopi militari, al commercio di armi e
materiale bellico;
- la comprensione delle strette interconnessioni tra i problemi inerenti la
pace, la salvaguardia dell'ambiente e lo sviluppo dei popoli, indispensabile
primo passo per poter eliminare le forti discriminazioni economico-sociali e
per promuovere il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di
tutti, presupposti fondamentali per la realizzazione integrale dei diritti
umani.
L'impegno della LOC si attua concretamente in una serie di obiettivi:
- attenzione scrupolosa alla gestione tecnica e politica, da parte del
Ministero della Difesa e dell'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile,
dell'obiezione e degli obiettori di coscienza, della cui rappresentanza
politica la LOC si fa carico per favorire il rispetto dei diritti e dei
doveri degli obiettori;
- istituzione di un canale privilegiato di contatto con i parlamentari piu'
sensibili alle tematiche dell'obiezione di coscienza e del servizio civile,
per coagulare le forze politiche disponibili intorno all'elaborazione di
iniziative che portino a nuove leggi sulla Difesa Popolare Nonviolenta, la
riconversione dell'industria bellica, il disarmo (da perseguire sia con atti
unilaterali, sia con accordi tra gli Stati, basati sui principi della
trasparenza e della cooperazione internazionale);
- promozione e sostegno delle realta' federate che avviano collaborazioni
con gli Enti Locali sui temi della pace, del disarmo, della difesa sociale e
della Difesa Popolare Nonviolenta;
- attenzione particolare ai mezzi di comunicazione di massa, approntando
tutti gli strumenti che si riterranno necessari per divenire interlocutori
autorevoli dell'opinione pubblica sulle tematiche dell'obiezione di
coscienza e della pace;
- svolgimento di un ruolo informativo e divulgativo, direttamente a livello
nazionale e sostenendo le realta' federate a livello locale, particolarmente
rivolto agli iscritti alle liste di leva, con carattere di integrazione ed
eventualmente di collaborazione con l'attivita' informativa della Pubblica
Amministrazione sui temi dell'obiezione di coscienza e del servizio civile;
- promozione e sostegno di attivita' e manifestazioni a carattere
nonviolento, che, a livello nazionale ed internazionale, operano a favore
della pace e del disarmo;
- tutela, anche legale, degli obiettori di coscienza;
- istituzione di percorsi formativi che dotino gli obiettori di coscienza
interessati degli strumenti per approfondire il proprio ruolo di cittadini
in servizio civile a difesa della collettivita';
- istituzione di seminari di studio sui temi della pace, del disarmo, della
riconversione dell'industria bellica, della riforma della legge
sull'obiezione di coscienza;
- elaborazione, insieme alle realta' gia' impegnate sul campo della Difesa
Popolare Nonviolenta, di strumenti idonei alla progettazione di risposte
concrete di fronte a conflitti nazionali o internazionali, con particolare
attenzione a quelli causati dallo squilibrio Nord-Sud, affinche', alle pur
necessarie rimostranze sulla illiceita' di risoluzioni violente dei
conflitti, si tenti di prefigurare delle proposte alternative.
La LOC inoltre si e' impegnata in questi anni a fornire strumenti
informativi e suggerimenti agli obiettori in servizio affinche' denuncino le
numerose violazioni di legge e irregolarita' messe in atto da enti di
servizio civile.
E' impegnata in campagne nazionali contro il Nuovo Modello di Difesa e
l'esercito professionale, producendo in proprio e in collaborazione con
altre realta' pacifiste materiali informativi in proposito.
Ha promosso - dal 1982 - la Campagna di obiezione alle spese militari
insieme ad altre associazioni dell'area pacifista e nonviolenta.
Fa parte del comitato di redazione della rivista "Guerre e Pace", mensile di
informazione internazionale alternativa
(www.mercatiesplosivi.com/guerrepace) e su "Azione Nonviolenta", mensile del
Movimento Nonviolento, pubblica ogni mese pagine autogestite
(www.nonviolenti.org).
Opera infine a livello locale con centri sociali, rete antirazzista,
movimenti autoorganizzati, etc.
Presidente dell'associazione e' Giancarla Codrignani.
La sede nazionale e' attualmente: Lega obiettori di coscienza,, via Pichi 1,
20143 Milano, tel. 028378817 e 0258101226, fax 0258101220, e-mail:
locosm at tin.it

5. RILETTURE. ALDO CAPITINI: SCRITTI SULLA NONVIOLENZA
Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, pp. 480.
Nel primo volume delle opere scelte (un'edizione rimasta purtroppo
interrotta) la raccolta dei principali scritti capitinani dedicati
specificamente alla nonviolenza.

6. RILETTURE. JOHAN GALTUNG: GANDHI OGGI
Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 184. Il
prestigioso peace researcher analizza e propone la riflessione e l'azione di
Gandhi come riferimento e risorsa per costruire oggi un'alternativa politica
nonviolenta. Con una introduzione di Giuliano Pontara.

7. RILETTURE. BRIAN MARTIN: LA PIRAMIDE ROVESCIATA
Brian Martin, La piramide rovesciata, La Meridiana, Molfetta (BA) 1990, pp.
308. Lo studioso nonviolento australiano propone in quest'opera un
interessante ragionamento complessivo ed articolato per un'analisi e una
strategia adeguate al fine di sradicare la guerra.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ;
angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 330 del 2 gennaio 2002