la guerra va male, la coalizione si sgretola, l'economia vuole la pace



(La Stampa del 2/11/2001 Sezione: Esteri Pag. 4)

Il Belgio si schiera per una pausa
Il ministro Michel sorprende l´Europa e irrita l´America
corrispondente da BRUXELLES Il ministro degli Esteri belga, Louis Michel, si è espresso a favore della sospensione dei bombardamenti americani sull´Afghanistan nel mese del Ramadan, che comincia il 17 novembre. «Una pausa sarebbe positiva perché ogni atto che può irritare il mondo musulmano deve essere evitato», ha detto ieri ad Ashkhabad, la capitale del Turkmenistan, dove è in missione per conto dell´Unione europea di cui il Belgio in questo momento ha la presidenza di turno. E le sue parole hanno immediatamente irritato gli Stati Uniti - Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza, ha dichiarato che gli Usa «non possono permettersi di sospendere la lotta al terrorismo» - e hanno imbarazzato i Quindici. In particolare inglesi, francesi e tedeschi. Se c´era bisogno di una prova del disordine in cui si muove la politica estera dell´Unione, Michel l´ha servita su un piatto d´argento. Il problema non è tanto l´opportunità della sospesione dei bombardamenti per il Ramadan, su cui è aperto effettivamente un dibattito nelle diverse capitali. Il problema è che nelle riunioni dei ministri degli Esteri europei - l´ultima c´è stata appena lunedì scorso a Lussemburgo - non è stata presa alcuna posizione comune in proposito. L´iniziativa di Louis Michel, insomma, non era né concordata, né tantomeno autorizzata da un mandato della Ue. Una mossa personale, allora? O forse soltanto una «gaffe»: termine che da qualche tempo va molto di moda a Bruxelles quando c´è da nascondere dissensi che sono, invece, di sostanza. La tesi della «gaffe» è stata subito accreditata dal portavoce del ministero degli Esteri belga. Che ha parlato, anzi, di «incomprensione»: un altro termine ripetuto più volte nelle ultime settimane. «Michel non ha lanciato alcun appello per una pausa, non ha affatto detto che si devono fermare i bombardamenti. Ha soltanto sottolineato che per rispettare la sensibilità musulmana, si dovrebbe evitare di creare irritazioni». Questa è l´interpretazione «corretta» del ministero degli Esteri. E il portavoce, Koen Vervaeke, ha voluto anche precisare che l´Europa «continua a sostenere gli Usa e ad essere solidale anche se i bombardamenti devono continuare». La «raccomandazione» di Michel è quella di «condurre le azioni belliche in modo estremamente ben mirato per evitare vittime civili e limitare l´irritazione musulmana». Anche con tutte queste precisazioni, l´uscita del ministro Michel ha spiazzato molte persone. A cominciare dall´Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza della Ue, lo spagnolo Javier Solana, ex Segretario generale della Nato, che dall´11 settembre cerca di tenere insieme i pezzi di quella che dovrebbe essere la politica comune dei Quindici in questi due delicati settori. Ieri, complice anche il primo dei quattro giorni del lungo ponte festivo, non ci sono state reazioni pubbliche alla «gaffe». Ma l´irritazione inglese, francese e tedesca ha raggiunto direttamente il ministero provocando la messa a punto che è arrivata esattamente sette ore dopo le dichiarazioni che Louis Michel aveva fatto alla fine del colloquio con il presidente turkmeno, Saparmurad Nyazov. Il ministro degli Esteri belga, che ha già visitato anche l´Uzbekistan, sarà tra oggi e domani in Tagikistan e poi a Mosca per completare la sua missione diplomatica per conto della Ue nei Paesi più vicini al conflitto afghano. E c´è da prevedere che sarà più prudente per evitare nuove «gaffes» con il loro inevitabile corollario di irritazioni e di correzioni. Ma il dato di fondo resta: la coesione europea nella «grande alleanza» contro il terrorismo è salda sugli obiettivi generali, ma è attraversata da alcuni punti critici. Una eco degli interrogativi che circolano è rimbalzata anche alla Nato, nell´ultima riunione del Consiglio atlantico di due giorni fa. Qui i rappresentanti di Italia, Germania e Francia hanno espresso la loro «sorpresa» per le difficoltà che americani e inglesi hanno nello «spiegare i loro obiettivi». Una preoccupazione raccolta, a quanto pare. Dal momento che Allistair Campbell, il mago della comunicazione del premier britannico Tony Blair, ha partecipato alla riunione della Nato ed è volato poi negli Usa per mettere a punto i dettagli finali di una struttura di informazione anglo-americana. Un «Media Operations Center» sul modello di quello che fu creato a Bruxelles nel Comando generale dell´Alleanza Atlantica ai tempi della guerra in Kosovo. Il nuovo «Moc» dovrebbe avere tre centrali operative: a Londra, a Washington e a Islamabad. Quella di Londra dovrebbe agire in contatto con le sede Nato di Bruxelles. Per quella di Islamabad ci sono i problemi maggiori. Ma dovrebbero essere presto superati.
Enrico Singer



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(La Stampa del 2/11/2001 Sezione: Esteri Pag. 4)

ANNAN: COALIZIONE A RISCHIO SE IL CONFLITTO SARA´ LUNGO
GINEVRA. Il segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha messo in guardia sulla possibilità che un prolungamento della guerra alimenti «tensioni e stress» nella coalizione internazionale antiterrorismo e ha auspicato la veloce risoluzione del conflitto. Ha anche predetto che il «prezzo maggiore dell'11 settembre ricadrà sui più poveri», rendendo più urgente l'abbandono delle politiche isolazioniste e protezionistiche per facilitare i Paesi in via di sviluppo. A Ginevra - dove ha visitato i quartieri generali europei delle Nazioni Unite ed inaugurato il Forum globale sull'occupazione - il premio Nobel per la pace 2001 ha parlato della guerra nata per combattere il terrorismo e delle sue implicazioni. Sono diverse ed ugualmente valide, per Annan, le ragioni per le quali il conflitto contro i taleban in Afghanistan deve «durare il meno possibile»: «Più sarà lungo, più è verosimile che cresceranno le tensioni e lo stress nella coalizione internazionale» nata per combattere il terrorismo. Al contempo, più durerà la guerra, più a lungo verrà impedito alle Nazioni Unite - ha rilevato il segretario generale - di riprendere il lavoro umanitario interrotto in un Paese duramente provato e, alla vigilia, di un inverno gelido. Annan ha invocato, da una parte, la fine «più rapida possibile» dei combattimenti, dall'altra «l'unità» dell'alleanza internazionale che «non deve affievolirsi». Il terrorismo, ha sottolineato Annan, potrà essere sconfitto solo se la coalizione militare, politica e diplomatica messa insieme dalla casa Bianca dopo gli attentati al World Trade Center rimarrà coesa.
Ansa

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Economia di pace
2 novembre 2001
di Carlo Bastasin (editoriale de La Stampa)

La maledizione di Osama ha colpito: «Non potrete mai più sentirvi sicuri». Il crollo della fiducia negli Usa fa temere che i cittadini americani - e noi con loro - abbiano perso, per la prima volta, la certezza ottimista che ogni generazione successiva vivrà meglio di quelle che l'hanno preceduta. E' vano il tentativo di governare le attese dei cittadini, di incoraggiarli, di massaggiarne lo spirito ferito: dal sogno americano sembrano piombati nell'era delle aspettative declinanti.
Se quello che viviamo non è un singhiozzo della storia, ma una frattura permanente della speranza, allora a poco servirà l'attivismo economico con cui Washington cerca di scuotere la paura. La risposta di Bush alla depressione è coraggiosa, ma riproduce un cliché da guerra fredda: se dentro i confini nazionali calava la fiducia dei cittadini, lo Stato subentrava, stimolando la ricerca tecnologica nei settori rilevanti alla sicurezza nazionale, finanziando l'industria aerospaziale, allentando le pressioni competitive sulle imprese con l'accondiscendenza della Banca centrale a stimoli inflazionistici. Una ricetta che oggi finisce per intaccare gli equilibri tra Stato e mercato, con effetti né certi, né rapidi sulla fiducia dei cittadini, senza stimoli che si estendano all'estero, con obiettivi anticiclici a fronte di una depressione non ciclica, ma strutturale e non a caso sincrona in tutte le democrazie occidentali.
E' il mondo, infatti, non i singoli Stati europei o americani, a essere cambiato. E' la sensazione di vivere in una comunità d'un tratto divisa e pericolosa. Ne è impressionante dimostrazione il rischio di arretramento nel 2001 del commercio mondiale (nel 2000 cresceva del 12%) per la prima volta da molti decenni. L'ipotesi di condivisione mondiale del benessere attraverso i liberi scambi vacilla proprio quando la lotta al terrorismo richiede di allargare la coalizione politico-militare a paesi ai margini dell'Occidente e di incentivarli, come succede ora col Pakistan e forse un giorno anche con l'Afghanistan, con l'obiettivo del benessere, dell'inclusione nella prosperità dei commerci di cui è precondizione la libertà in un mondo pacifico. Ma qui batte il "cuore di tenebra" di Europa e Stati Uniti: la cecità di escludere i Paesi non sviluppati dai mercati quando si tratta di commerciare i beni poveri, l'agricoltura, il tessile. Settori assurdamente protetti in Europa e negli Usa.
L'eliminazione di tutte le barriere, secondo l'ultimo rapporto della World Bank, corrisponderebbe a un aumento della ricchezza mondiale in dieci anni superiore al pil di Francia e Italia insieme. Per oltre metà andrebbe a favore dei Paesi più poveri del pianeta. In Europa l'agricoltura assorbe metà del bilancio comunitario. Sarebbe interesse degli europeisti - oltre che di tutti i cittadini - aprire i loro mercati al resto del mondo, trasformare i sussidi e gli sprechi in espliciti sostegni al reddito degli agricoltori e i contributi occulti in una tassa europea trasparente, ragione tra l'altro di rappresentanza politica comune. Coniugare così l'unità politica europea alla solidarietà globale.
Tra una settimana cominceranno nuovi negoziati sul commercio mondiale a Doha in Qatar. Nelle peggiori condizioni possibili. Un accordo minimo è possibile, indispensabile e inutile al tempo stesso. Questo è il momento per dare un senso positivo alla globalizzazione dei commerci. Spetta all'Europa dare un segnale di svolta e all'Italia, così ansiosa di cercare un proprio ruolo europeo, più che ad altri.
Nessun altro Paese può contare su un ministro degli Esteri già capo dell'Organizzazione mondiale del commercio, due italiani ai massimi vertici della Commissione europea, il presidente della Repubblica più europeista, un premier esperto imprenditore in grado di far leva su un'intera legislatura e un'opposizione sensibile ai temi globali. Perché dovrebbe essere più facile scegliere di bombardare un popolo disgraziato che non prendere decisioni coraggiose per migliorare il futuro di tutti?


Il ponte spezzato
VALENTINO PARLATO (Il Manifesto 2/11/01)

(...) Quel che è sicuro, e che ormai viene sottolineato dalla stampa internazionale e anche Usa, è la crescente sfiducia nella conduzione di questa guerra anche da parte di chi l'ha approvata ed esaltata e si prepara a sfilare con le bandiere americane. Tutto questo non conforta affatto, ma anzi accresce la preoccupazione perché c'è una guerra niente affatto pacioccona e non si capisce come se ne potrà uscire. I bombardamenti sulle montagne e sulle cittadine già semidistrutte dell'Afghanistan (e che il Pentagono non vuole o non può interrompere neppure per il mese di ramadan) hanno rafforzato i taleban e ridotto pressoché a zero la disponibilità degli altri signori della guerra a liquidare i taleban. La cosiddetta Alleanza del nord è sempre più isolata e anche gli Usa non pensano che sia una buona carta. I paesi arabi, che si definiscono moderati, ma che sono sotto la pressione del fondamentalismo, non sono più tanto sicuri e chiedono la sospensione dei bombardamenti. Kofi Annan si associa, Mubarak deve alzare la voce, in Pakistan il governo attuale è sempre più in bilico e non è escluso che il viaggio del suo presidente negli Usa possa incoraggiare colpi di stato. E in Pakistan (dove i due padri dell'atomica sono agli arresti) secondo i servizi Usa ci sono circa trenta bombe atomiche distribuite su tutto il territorio. L'Arabia saudita è del tutto infida, ma gli esperti ci dicono che è più controllabile.
Il punto drammatico è che una guerra, della quale il protagonista non riesce a individuare un esito, né politico, né militare, è massimamente pericolosa: si può estendere e provocare, per uscire dall'impaludamento, il ricorso ad armi più risolutive. (...)