pc:reportage di Tiziano Terzani da Peshawar



Corriere della Sera
Mercoledì 31 Ottobre 2001

Il soldato di ventura e il medico afghano

di TIZIANO TERZANI


PESHAWAR - Sono venuto in questa città di frontiera per essere
più vicino alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi,
di farmene una ragione; ma, come fossi saltato nella minestra
per sapere se è salata o meno, ora ho l'impressione di
affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di follia
umana che, con questa guerra, sembra non avere più limiti.
Passano i giorni, ma non mi scrollo di dosso l'angoscia:
l'angoscia di prevedere quel che succederà e di non poterlo
evitare, l'angoscia di essere un rappresentante della più
moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del mondo ora
impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più povero
della Terra; l'angoscia di appartenere alla razza più grassa e
più sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria
al già stracarico fardello di disperazione della gente più
magra e più affamata del pianeta. C'è qualcosa di immorale, di
sacrilego, ma anche di stupido - mi pare - in tutto questo. A
tre settimane dall'inizio dei bombardamenti anglo-americani
dell'Afghanistan la situazione mondiale è molto più tesa ed
esplosiva di quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani
e palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan e India sono
sul punto di rottura; l'intero mondo islamico è in agitazione
e ogni regime moderato di quel mondo, dall'Egitto
all'Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante
pressione dei gruppi fondamentalisti.
Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni
segretissime dei commandos , mostrateci in piccoli spezzoni
del Pentagono, come per farci credere che la guerra è solo un
videogame, i talebani sono ancora saldamente al potere, la
simpatia nei loro confronti cresce all'interno
dell'Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del
mondo il senso della nostra sicurezza.
«Sei musulmano?», mi chiede un giovane quando mi fermo al
bazar a mangiare una focaccia di pane azzimo.
«No».
«Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti».
Attorno tutti ridono. Sorrido anch'io.
Lo chiamano Kissa Qani, il «bazar dei raccontastorie». Ancora
una ventina d'anni fa, era uno degli ultimi, romantici
crocevia dell'Asia pieno delle più varie mercanzie e varie
genti. Ora è una sorta di camera a gas con l'aria
irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre più in mal
arnese a causa dei tantissimi rifugiati e mendicanti. Fra le
vecchie storie che ci si raccontavano c'era quella di
Avitabile, un napoletano soldato di ventura arrivato qui a
metà dell'Ottocento con un amico di Modena e diventato
governatore di questa città. Per tenerla in pugno, ogni
mattina all'ora di colazione faceva impiccare un paio di ladri
dal minareto più alto della moschea e per decenni ai bambini
di Peshawar è stato detto: «Se non sei buono, ti do ad
Avitabile». Oggi le storie che si raccontano al bazar sono
tutte sulla guerra americana.
Alcune, come quella secondo cui l'attacco a New York e
Washington è stato opera dei servizi segreti di Tel Aviv - per
questo nessun israeliano sarebbe andato a lavorare nelle Torri
Gemelle l'11 settembre -, e quella secondo cui l'antrace per
posta è una operazione della Cia per preparare
psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein,
sono già vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a
essere credute. L'ultima è che gli americani si sarebbero resi
conto che con le bombe non riescono a piegare l'Afghanistan e
hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di dollari sulla
gente. «Ogni missile costa due milioni di dollari. Ne hanno
già tirati più di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti
quei soldi, i talebani non sarebbero più al potere», dice un
vecchio rifugiato afghano, ex comandante di un gruppo di
mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me.
L'idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a
essere generosi con chi sia disposto a schierarsi dalla loro
parte è diffusissima. Giorni fa alcune centinaia di capi
religiosi e tribali della comunità afghana in esilio si sono
riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Peshawar per
discutere del futuro dell'Afghanistan «dopo i talebani». Per
ore e ore dei bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi
piani delle televisioni occidentali - si sono avvicendati al
microfono a parlare di «pace e unità», ma nei loro discorsi
non c'era alcuna passione, non c'era alcuna convinzione. «Son
qui solo per registrare il loro nome e cercare di raccogliere
fondi americani», diceva un vecchio amico, un intellettuale
pakistano, di origine pashtun come quella gente. «Ognuno
guarda l'altro chiedendosi "e tu quanto hai già avuto?". Quel
che gli americani dimenticano è un nostro vecchio proverbio:
un afghano si affitta, ma non si compra».
Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo
importante passo per quella che, sulla carta, pareva loro la
ideale soluzione politica del problema afghano: far tornare il
re Zahir Shah, installare a Kabul un governo in cui tutti
fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani moderati
- e mandare l'esercito del nuovo regime a caccia degli uomini
di Al Qaeda, risparmiando così il lavoro e i rischi ai soldati
della coalizione.
Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno,
specie quando questo terreno è l'Afghanistan.
Già l'idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da
trent'anni, possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è
una illusione di chi crede di poter rifare il mondo a
tavolino, è una pretesa di quei diplomatici che non escono
dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta andare fra la
gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di
quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella
italiana - gli attribuiscono e che il suo non essersi mai
fatto vedere, il suo non aver mai visitato un campo di
rifugiati viene preso come una indicazione di indifferenza per
la sofferenza del suo popolo. «Bastava che al tempo
dell'invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un
fucile in mano ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo
rispetterebbero - dice l'amico - ... e poi, poteva almeno
l'anno scorso essere andato in pellegrinaggio alla Mecca, il
che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po' di rilievo
anche dal punto di vista religioso».
A parte il re, l'altro uomo su cui gli americani contavano per
il loro gioco era Abdul Haq, uno dei più prestigiosi
comandanti della resistenza anti-sovietica, tenutosi poi fuori
dalla guerra civile che seguì. «Non è qui. E' andato in
Afghanistan» si diceva durante la conferenza di Peshawar,
alludendo ad una «missione» che sarebbe stata decisiva per il
futuro. L'idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il
suo grande ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi
coi talebani, avrebbe staccato dal regime del Mullah Omar
alcuni comandanti regionali e avrebbe potuto marciare su Kabul
alla testa di gruppi pashtun quando la capitale fosse stata
presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i pakistani
non vogliono assolutamente vedere al potere.
La «missione» di Abdul Haq non è durata a lungo. I talebani lo
hanno seguito appena quello è entrato in Afghanistan, dopo
alcuni giorni lo hanno catturato e nel giro di poche ore lo
hanno giustiziato come un «traditore» assieme a due suoi
seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura
elettronica ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a
salvarlo.
Il presupposto di tutta questa manovra americana per una
soluzione politica era comunque che il regime dei talebani si
sfaldasse, che sotto la pressione delle bombe cominciassero le
defezioni e che nel paese si creasse un vuoto di potere. Ma
tutto questo non è successo. Anzi. Ogni indicazione è che i
talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano
giornalisti occidentali che si avventurano oltre la frontiera
e fanno sapere, per scoraggiare altri tentativi, di non avere
più spazio, né cibo per detenerne altri. «Le varie inchieste
sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo la sharia, la
legge coranica», dicono, come farebbe un qualsiasi stato
sovrano. I talebani passano decreti, fanno comunicati per
smentire notizie false e continuano a sfidare la strapotenza
americana non cedendo terreno e promettendo morte agli afghani
che si schierano con il nemico.
Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli
stranieri, fa sì che anche chi aveva poca o nessuna simpatia
per il loro regime, ora si schiera dalla loro parte. «Quando
un melone vede un altro melone, ne prende il colore», dicono i
pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo come invasori,
gli afghani diventano sempre più dello stesso colore.
Per gli americani, già sotto enorme pressione internazionale
per la stupidità delle loro bombe intelligenti che continuano
a cadere su gente inerme e di nuovo sui magazzini della Croce
Rossa, la guerra aerea s'è rivelata un completo fallimento,
quella politica uno smacco.
Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama
Bin Laden, «vivo o morto», e hanno presto ripiegato sul voler
catturare o uccidere il Mullah Omar, capo dei talebani,
sperando che questo avrebbe fatto vacillare il regime, ma
finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche centinaio
di vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città
già ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe
hanno fatto fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75%
degli abitanti.
Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono
ora senza tetto, si aggirano nelle montagne del paese e si
aggiungono ai sei milioni che, sempre secondo le Nazioni
Unite, erano già «a rischio» per mancanza di cibo e protezione
prima dell'11 settembre.
«Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un
funzionario internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che
fare col terrorismo, quelli che non leggono i giornali, che
non guardano la Cnn. Molti di loro non sanno neppure che cosa
è successo alle Torri Gemelle».
Quel che tutti sanno invece è che bombe, le bombe che giorno e
notte distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un
costante terremoto, le bombe sganciate dagli aerei d'argento
che piroettano nel cielo di lapislazzulo dell'Afghanistan,
sono bombe inglesi e americane e questo coagula l'odio dei
pashtun, degli afghani e più in generale dei musulmani contro
gli stranieri. Ogni giorno di più l'ostilità è ovvia sulla
faccia della gente.
Ero andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero
partecipato alla manifestazione pro-talebani che si tiene di
routine nella vecchia Peshawar dopo la preghiera di mezzo
giorno, ma l'amico pashtun mi aveva avvertito che il numero
dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. «I duri non
marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi», m'aveva detto.
L'ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due
studenti universitari che in quella regione sembrava
conoscessero tutti e tutto, ho gettato uno sguardo su un mondo
la cui distanza dal nostro non è misurabile in chilometri, ma
in secoli: un mondo che dobbiamo capire a fondo se vogliamo
evitare la catastrofe che ci sta davanti.
La regione in cui sono stato è a due ore di macchina da
Peshawar, a mezza strada dal confine afghano-pakistano. Per le
popolazioni di qui la frontiera - anche quella stabilita a
tavolino oltre cento anni fa da un funzionario inglese - non
esiste.
Dall'una e dall'altra parte di quella innaturale divisione
politica fra identiche montagne vive un'identica gente: i
pashtun (detti anche pathan) che in Afghanistan sono la
maggioranza, in Pakistan una minoranza. I pashtun, prima che
afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un
Pashtunstan, uno stato che aggreghi tutti i pashtun non è mai
completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri
dell'Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscirono mai
a sconfiggere. «Un pashtun ama il suo fucile più di suo figlio
- dicevano dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maestà -.
Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come
bambini». I talebani sono pashtun e quasi esclusivamente
pashtun sono le zone in cui ora cadono le bombe americane.
«Mio padre è sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i
bombardamenti anche lui parla come un talebano e sostiene che
non c'è alternativa alla jihad», diceva uno dei miei studenti,
mentre lasciavamo Peshawar.
La strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In
lontananza le prime montagne. Sui muri bianchi che dividono i
campi, spiccavano grandi slogan dipinti di fresco. «La jihad è
il dovere della nazione», «Un amico degli americani è un
traditore», «La jihad durerà fino al giorno del giudizio». Il
più strano era: «Il profeta ha ordinato la jihad contro
l'India e l'America».
Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e
quattrocento anni fa, l'India e l'America esistessero già. Ma
è appunto questa accecante mistura di ignoranza e di fede a
essere esplosiva ed a creare, attraverso la più semplicistica
e fondamentalista versione dell'Islam, quella devozione alla
guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po'
troppo avventatamente, di venirci a confrontare.
«Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da
una bomba, prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di
carne, le ossa rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un
turbante e seppelliamo quel fagotto lì, nella terra. Noi
sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno morire
così?». Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto,
ricordandosi da dove, presentandomi, ho detto di venire, apre
un giornale in Urdu e ad alta voce legge una breve notizia in
cui si dice che anche l'Italia si è offerta di mandare navi e
soldati e il mio interlocutore personalizza la sua sfida:
«...e voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché
anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere
le nostre moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere
le vostre chiese, se venissimo a radere al suolo il vostro
Vaticano?». Siamo in una sorta di rudimentalissimo ambulatorio
in un villaggio a qualche decina di chilometri dal confine
afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose
medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un
sole in cui è scritto «Jihad». Attorno al «dottore» che mi
parla si sono riuniti una decina di giovani: alcuni sono
veterani della guerra, altri ci stanno per andare. Uno è
appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti.
Dice che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo,
scappano e non osano combattere faccia a faccia. Dice che il
Pakistan impedisce ai profughi di entrare nel paese e che
tanti civili, feriti nei bombardamenti di Jalalabad, muoiono
ora dall'altra parte del confine per mancanza delle più
semplici cure.
L'atmosfera è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono
assolutamente convinti che quella in corso è una grande
congiura-crociata dell'Occidente per distruggere l'Islam, che
l'Afghanistan è solo il primo obbiettivo e che l'unico modo di
resistere è per tutto il mondo islamico di rispondere
all'appello per la guerra santa. «Vengano pure gli americani,
così ci potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai
cadaveri - dice uno dei giovani - a voi la guerra costa
tantissimo. A noi nulla. Non sconfiggerete mai l'Islam».
Cerco di spiegare che la guerra in corso è contro il
terrorismo, non l'Islam, cerco di dire che l'obbiettivo della
coalizione internazionale guidata dagli americani non sono gli
afghani, ma Osama Bin Laden ed i talebani che lo proteggono.
Non convinco nessuno. «Io non so chi sia Osama - dice il
«dottore» - non l'ho mai incontrato, ma se Osama è nato a
causa delle ingiustizie commesse in Palestina ed in Iraq,
sappiate che le ingiustizie ora commesse in Afghanistan
faranno nascere tanti, tanti altri Osama».
Di questo sono convinto e la prova è dinanzi ai miei occhi:
l'ambulatorio è un centro di reclutamento per la jihad, il
«dottore» è il capo di un gruppo di venti giovani che domani
partirà per l'Afghanistan. Ognuno porterà con sé un'arma, del
cibo e del danaro. In ogni villaggio ci sono gruppi così. Il
«dottore» parla di alcune migliaia di mujaheddin che da questa
regione, formalmente in Pakistan, stanno per andare a
combattere a fianco dei Talebani.
L'addestramento? Tutti, dice il «dottore», han fatto due mesi
per imparare l'uso delle armi e delle tecniche di guerriglia.
Ma quel che conta è l'istruzione religiosa ricevuta nella
tante piccole scuole coraniche, le madrasse, sparse nella
campagna. Mi han portato a visitarne una. Disperante.
Seduti per terra, davanti a dei tavolinetti di legno, una
cinquantina di bambini - c'erano anche alcune bambine - dai
tre ai dieci anni, tutti pallidi, magri e consunti,
cantilenavano senza interruzione i versetti del Corano. Nella
loro lingua? No, in arabo che nessuno sa. «Sanno però che chi
riesce a imparare tutto il Corano a memoria lui e tutta la sua
famiglia andranno in paradiso per sette generazioni!», mi ha
spiegato il giovane barbuto che faceva da istruttore.
Trentacinque anni, sposato con cinque figli, ammalato di
cuore, fratello del capo della locale moschea, diceva che
nonostante le sue condizioni di salute, anche lui sarebbe
andato a combattere. Aspettava solo che gli americani
scendessero dai loro aerei e si facessero vedere al suolo. «Se
non smettono di bombardare costituiremo piccole squadre di
uomini che andranno a mettere bombe e a piantare la bandiera
dell'Islam in America. Se verranno presi dall'Fbi si
suicideranno», diceva con un sorriso invasato.
A parte la memorizzazione del Corano le madrasse insegnano
poco o nulla, ma per le famiglie povere della regione quella,
pur miserissima, è l'unica educazione possibile. Il risultato
sono i giovani che oggi vanno alla jihad e il crescente potere
che i mullah, ugualmente ignoranti e ottusi, hanno sulla
popolazione delle campagne grazie al loro monopolio sulla
religione e sui fondi dei paesi musulmani come l'Arabia
Saudita.
Dovunque ci siamo fermati in quelle ore non ho sentito che
discorsi carichi di fanatismo, di superstizione, di certezze
fondate sull'ignoranza. Eppure sentendo parlare questa gente,
mi chiedevo quanto anche noi, pur colti e rimpinzati di
conoscenze, siamo pieni di preteso sapere, quanto anche noi
finiamo per credere alle bugie che ci raccontiamo.
A sette settimane degli attacchi in America le prove che ci
erano state promesse sulla colpevolezza di Osama Bin Laden, e
di riflesso dei talebani, non ci sono state ancora date,
eppure quella colpevolezza è ormai data per scontata. Anche
noi ci facciamo illudere dalle parole e abbiamo davvero
creduto che la prima operazione delle forze speciali americane
in Afghanistan era intesa a trovare il centro di comando dei
talebani, senza pensare che, come dice il mio amico pashtun
«quel centro non esiste o è al massimo una capanna di fango
con un tappeto da preghiera e qualche piccione viaggiatore,
ora che i talebani non possono più usare le loro radioline
facilmente intercettabili dagli americani».
E non è il fanatismo di questi fondamentalisti, simile al
nostro arrogante credere che abbiamo una soluzione per tutto?
Non è la loro cieca fede in Allah, pari alla nostra fede nella
scienza, nella tecnica, nella abilità di mettere la natura al
nostro servizio? E' con queste certezze che andiamo oggi a
combattere in Afghanistan con i mezzi più sofisticati, gli
aerei più invisibili, i missili più lungimiranti e le bombe
più «ammazzauomo» per rifarci di un atto di guerra commesso da
qualcuno armato solo di tagliacarte e di una ferma
determinazione a morire.
Come non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo
venuti a uccidere innanzitutto degli innocenti e con ciò ad
aizzare ancor più un cane che giaceva? Come non vedere che
abbiamo fatto un passo nella direzione sbagliata, che siamo
entrati in una palude di sabbie mobili e che con ogni altro
passo finiremo solo per allontanarci sempre di più dalla via
di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della jihad,
quella fra me e me è continuata per il resto della notte,
passata insonne a tenermi lontano le zanzare. Certo che non è
invidiabile una società come quella che produce dei ragazzi
così ottusi e disposti a morire. Ma lo è forse la nostra? Lo è
quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di
Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma
City, gli attentatori alle cliniche abortiste e forse anche
quelli che - il sospetto cresce - mettono l'antrace nelle
buste spedite a mezzo mondo? Quella su cui avevo appena
gettato uno sguardo era una società carica d'odio. Ma è da
meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per
mettere le mani sulle riserve naturali dell'Asia Centrale,
bombarda un paese che vent'anni di guerra han già ridotto ad
una immensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro
modo di vivere, si debbano fare milioni di rifugiati, si
debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole
spiegarmi qualcuno esperto in definizioni, che differenza c'è
fra l'innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e
quella di uno morto sotto le bombe a Kabul? La verità è che
quelli di New York, sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul
invece, come gli altri centomila bambini afgani che, secondo
l'Unicef, moriranno quest'inverno se non arrivano subito dei
rifornimenti, sono i bambini «loro». E quei bambini loro non
ci interessano più. Non si può ogni sera, all'ora di cena,
vedere sullo schermo della tv di casa un piccolo moccioso
afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già visto
tante volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci
siamo già abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano
i loro corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff,
tagliano sui collegamenti via satellite dai tetti degli
alberghi a cinque stelle di Islamabad. Il circo va altrove,
cerca altre storie, l'attenzione è già stata anche troppa.
Eppure l'Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di
tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di
civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza
genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la
forza della armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi.

«Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella
mente degli uomini che bisogna costruire la difesa della
pace», dice il preambolo della costituzione dell'Unesco.
Perché non provare a cercare nelle nostre menti una soluzione
che non sia quella brutale e banale di altre bombe e di altri
morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non
appunto quella della nostra mente, e ancor meno quella della
nostra coscienza, mi dicevo insonne tentando sempre di
scacciare le zanzare.
La notte è fortunatamente breve. Alle quattro la voce
metallica di un altoparlante comincia a salmodiare dall'alto
di un minareto vicino; altre rispondono in lontananza.
Partiamo.
Nella hall dell'albergo dove arrivo a fare colazione è già
accesa la televisione. La prima notizia, all'alba, non è più
la guerra in Afghanistan, ma l'annuncio fatto a Washington del
«più grande contratto di forniture belliche nella storia del
mondo».
Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la
costruzione della nuova generazione di sofisticatissimi aerei
da caccia: 3.000 pezzi per un valore iniziale di 200 miliardi
di dollari. Gli aerei entreranno in funzione nel 2012.
Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della
madrassa che nel 2012 avranno giusto vent'anni e mi torna in
mente una frase dell'invasato «dottore»: «Se gli americani
vogliono combatterci per quattro anni, noi siamo pronti, se
vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo
pronti».
E noi ? Questo è davvero il momento di capire che la storia si
ripete e che ogni volta il prezzo sale.

© Corriere della Sera

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