pc: gli americani e il resto del mondo



L'America alla scoperta del mondo
MARCO D'ERAMO - INVIATO A WASHINGTON
brano tratto da "il Manifesto"26 ott.2001

" Il Corano è esaurito", mi dicono nella grande libreria Barnes & Noble a
Georgetown, il quartiere chic di Washington città. Ed è vero che
dall'attacco dell'11 settembre si è risvegliato negli Stati uniti un nuovo
interesse per il grande mondo lì fuori, per quei paesi strani,
incomprensibili, selvaggi e minacciosi che prima non sapevi neanche metterci
il dito sopra sul mappamondo. Non foss'altro che per i presentatori dei talk
shows tv che ora deambulano su un pavimento-carta-geografica con
Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Iran (e i comici mimano di farci
all'amore sopra, con lei che rimane scioccata da una montagna pakistana che
le preme da qualche parte verso le natiche). Otto dei primi 10 best-seller
venduti da Amazon.com dopo l'11 settembre riguardano argomenti collegati con
il Medio oriente. Fino ad agosto aveva venduto pochissime copie un libro sui
Talibani scritto dal giornalista Ahmed Rashid (Taliban: Militant Islam, Oil
and Fundamentalism in Central Asia). Da settembre le vendite sono
decuplicate e c'è una lista d'attesa. Così vanno a ruba libri
sull'Afghanistan, sul Medio oriente. Oltre che sulla guerra batteriologia: è
in testa alle classifiche e campeggia in altissime pile sugli scaffali Germs
(America's Secret War) di Judith Mille, Stephen Engelberger e William Broad.
C'è però una certa stranezza nella ragazza che entra in libreria e chiede
"il libro, quello degli arabi, insomma la loro Bibbia, non si ricorda com'è
il titolo, sì, ecco, quello lì, si chiama Corano?". Perché è falso che gli
americani non conoscano il mondo. Basta fare un semplice calcolo: dalla fine
della seconda guerra mondiale, gli Usa hanno mantenuto all'estero,
costantemente, più di 300.000 militari. Aggiunti agli uomini d'affari,
missionari delle varie denominazioni religiose, diplomatici, studenti,
accademici, oltre ai turisti, il totale assomma a svariate decine di milioni
di statunitensi che hanno visto il grande mondo. Il totale può essere
stimato con una certa precisione, visto che solo il 10% degli americani ha
il passaporto.
Ma è una conoscenza assai bizzarra: conoscono davvero l'Italia il marine di
stanza a Napoli o il pilota che decolla da Aviano? Vivono nelle proprie
basi, vanno nei propri drug stores, mangiano nei McDonalds, vedono i propri
film, guardano il baseball e il football americano, chiusi nella loro
enclave, proprio come fanno a Okinawa, in Giappone - e i nipponici pensano
che è meglio se non ne escono, visti i ripetuti casi di stupro commessi dai
soldati sulle ragazze locali, per cui non riescono a processarli perché, per
una clausola inclusa nei protocolli firmati alla fine della seconda guerra
mondiale, qualunque militare Usa di stanza all'estero viene equiparato a un
diplomatico, gode cioè della sua immunità, come noi abbiamo imparato bene
nel caso della funivia del Cermis.
C'è così il paradosso di un paese che controlla il mondo, lo domina, incerto
se governarlo o no, ma non lo conosce. Un po' come l'altro paradosso: negli
Usa ci sono oggi, secondo il Census 2000, 31 milioni di persone nate
all'estero - una cifra pazzesca, come se negli ultimi 20 anni tutta la
Polonia, o più di mezz'Italia, si fosse trasferita negli Usa. E 7,5 milioni
sono gli illegali, che sembrano non dare nessun fastidio ai repubblicani,
persino i più fascisti tra loro, mentre da noi la Lega la mette giù così
dura per soli 300.000 clandestini. Questi 31 milioni di umani vengono da
tutti i paesi, da tutti i continenti, come hanno mostrato in modo tragico,
commovente, i numeri dei morti nelle Twin Towers. E però arrivano qui come
collettività, sostrato comune, non trasmettono la propria esperienza, la
propria cultura, obbedendo alla prescrizione citata da Steven Steinberg nel
suo bellissimo libro Ethnic Myth: "Non importa da dove vieni, dovrai
diventare come noi" (accoppiata al complementare comandamento rivolto ai
neri e ai nativi americani: "Non importa quel che fai, non riuscirai mai a
essere come noi").

Guarda in cucina
Succede come nelle cucine "etniche": negli Usa ce n'è da tutto il mondo,
cinese, italiana, greca, cambogiana, coreana, indiana e così via, e però
ciascuna è "reinventata", americanizzata, diventa un'altra forma di
"invenzione della tradizione", per riprendere il fondamentale libro dei
primi anni '80 di Hobsbawm e Trevor Roper. Basta andare in un ristorante
italiano negli Usa per capire che la "cucina italiana" è lì esagerata, a
connotare l'italianità, quella immaginata delle donne vestite di nero in
groppa al ciuco, e perciò con una esasperata dose di aglio, di olio: la
professoressa di Harvard Donna Gabaccia racconta benissimo questa
reinvenzione della cucina etnica in We Are What We Eat. Così da due secoli
fiumi di stranieri sono entrati a fiotti negli Usa, ma in un certo senso il
mondo ne è restato fuori, come sul pianerottolo.
Però la distruzione delle Twin Towers può aver costituito una svolta: da un
secolo gli Stati uniti erano entrati nel mondo (è del 1899 la guerra contro
la Spagna per Cuba e Filippine), ma solo l'11 settembre 2001 il mondo è
penetrato negli Stati uniti, che sono diventati un po' più simili a tutti
gli altri paesi al mondo, più vulnerabili, come diceva Studs Terkel.
Al Monterey Institute sono quintuplicate le iscrizioni ai corsi di arabo,
secondo il Los Angeles Times. C'è, qui a Washington, il Middle East
Institute: di solito le sue classi di arabo hanno circa 90 studenti a
trimestre, adesso ne ha 130. Sono raddoppiati anche gli studenti in
persiano, turco ed ebraico. Il suo sito Web riceveva in media 8.000
collegamenti al giorno. Da settembre ne riceve 50.000. I motori di ricerca
di Internet sono inondati da richieste sull'argomento: a settembre nove
delle dieci ricerche più gettonate su Google riguardavano temi relativi
all'attacco: Afghanistan, Talibani, Osama Bin Laden e ... Nostradamus.
C'è anche un aspetto economico, i "verdi" - come dicono qui (non i verdoni,
come sono tradotti nei gialli in italiano). E' schizzata alle stelle la
richiesta di traduttori da queste lingue esotiche. Con i commandos impegnati
in Afghanistan e con la prospettiva di una più massiccia guerra di terra, il
governo degli Usa scopre di essere del tutto scoperto sul piano linguistico.
Il New York Times riporta che la ditta Ad-Ex Translation Worldwide ha
ricevuto la commessa di tradurre migliaia di parole ordinarie inglesi in
dari, pashtun, urdu e uzbeko, tutte lingue parlate in Afganistan. Tra le
parole richieste non compaiono termini né scientifici, né finanziari, né
legali: "Secondo me, sono frasi di sopravvivenza e vocabolario per le
truppe", ha detto il direttore. Un'altra ditta, Lionbridge Technologies, ha
ricevuto una commessa da molti milioni di dollari per tradurre dall'inglese
in arabo il software per le comunicazioni militari e manuali di
addestramento per equipaggiamenti tecnici.
L'American Translator Association ha sede ad Alexandria, il sobborgo più
elegante di Washington. Circa 500 dei suoi 8.300 membri sono ditte di
traduzioni o reparti di traduzione di grandi corporations. Gli altri 7.800
sono singoli traduttori. E' interessante la tabella pubblicata dal
quotidiano newyorkese, delle lingue in cui sono specializzati i traduttori
americani: solo 120 i traduttori dall'arabo, 50 dal coreano, 21 dal farsi, 7
dall'albanese, e poi 6 dal dari e dall'hazeri, e uno solo dal cambogiano e
dal pashtun! A paragone, spagnolo: 2.217; francese: 1.189; tedesco: 903;
russo: 481; giapponese: 384; cinese: 154. Fa impressione soprattutto il
rapporto tra francese (parlato da meno di 100 milioni di persone al mondo) e
cinese (1,3 miliardi).

Passioni effimere?
Un altro problema per le agenzie governative è che pagano poco, molto meno
dei privati (informazione che farà forse arrabbiare i malpagati traduttori
delle case editrici e testate italiane): per un'ora di traduzione dall'arabo
l'Fbi paga tra i 27 e i 38 dollari (60-80.000 lire), mentre il settore
privato sborsa tra i 150 e i 220 dollari (320-450.000 lire) per la
traduzione di 6.000 battute, cioè tra le 110 e le 150.000 lire a cartella.
Può darsi che sia transitoria quest'infatuazione per il grande mondo là
fuori. Che sia come l'improvvisa passione per le matematiche e le scienze
che colse gli studenti americani dopo il 1956, quando l'Urss lanciò nello
spazio la cagnetta Laika e, nel '60, l'umano Gagarin. O come l'interesse per
l'Estremo oriente che colse l'America dopo Pearl Harbour. O la brama di
informazioni sull'Indocina durante la guerra del Vietnam:
nell'autobiografica introduzione al volume Spectre of Comparisions, Benedict
Anderson (l'autore del libro sulla nascita dei nazionalismi, Comunità
immaginate) racconta come mai è diventato uno specialista del Sudest
asiatico, anzi come è nata questa categoria, "Sudest asiatico", come è
diventata poi una disciplina accademica, infine un dipartimento
universitario con biblioteche, riviste, conventions annuali...
Può darsi che tutto questo improvviso interesse sia transitorio. E la guerra
che gli Usa stanno conducendo in Afghanistan è un pessimo segnale. Il solito
ricorso alle solite bombe dalla solita alta quota. La solita equazione (che
sciaguratamente ha contagiato per tanti anni la sinistra e il movimento
operaio): il nemico del mio nemico è mio amico. Il che non è affatto vero, e
ha effetti catasatrofici. Uno può essere contro gli Usa, e nello stesso
tempo deve essere contro i talibani che imprigionano le donne in casa, e
contro bin Laden che uccide migliaia di innocenti in un colpo. Comunque
vada, godiamoci questa breve "estate indiana" (come è chiamata qui l'estate
di San Martino), di apertura verso il mondo. Anche se somiglia un po' troppo
alla circospetta sospettosità con cui i turisti americani esaminano quegli
sconosciuti manufatti che sono i bidet europei.