drappo giallorosso per Carlo Giuliani



Magliette a strisce, drappi giallorossi

Al funerale di Carlo Giuliani, ragazzo ucciso a Genova, non c'erano
bandiere rosse, bandiere nere, bandiere rosso-nere, niente falci,
martelli e simboli dell'anarchia, ma il giallo-rosso della Roma, la
squadra del suo cuore. I suoi amici hanno voluto così, forse lui stesso
avrebbe voluto così se mai avesse pensato alla morte. E' la prima volta
che a coprire la bara di un giovane morto durante degli scontri con la
polizia in una manifestazione politica viene usato il drappo di una
squadra di calcio. E'  accaduto altre volte, semmai, che per un giovane
ultrà morto in qualche scontro con ultrà rivali, una bandiera politica
sia apparsa ai suoi funerali, a ricordare il suo impegno sociale.
Chissà, se la linea della vita di Carlo fosse stata più lunga, e se
avesse raggranellato i soldi necessari, forse, oltre lo pterodattilo,
sul suo corpo ci avrebbe tatuato un gladiatore, come quello di Totti.
Forse sta tutta qui, in quel drappo giallo-rosso, la distanza, acclarata
d'altronde, ma più volte conclamata, richiesta, troppo esagerata, tra il
Genoa social forum, le Tute bianche, i Lilliput, quant'altro e la furia
della piazza, Carlo Giuliani vivo. La distanza anche con il Black Bloc,
gli scontri pensati a tavolino, le incursioni: la distanza tra la
"politica", la "militanza", la "rappresentazione", il "simbolico", la
"mediazione", la "guerriglia" persino, e l'immediatezza di un corpo
gettato nella mischia. Un corpo qualunque, un corpo della moltitudine.
Si è fatto un gran dire della moltitudine nei giorni di Genova, evocata
prima, materializzatasi poi nell'enorme corteo di sabato 21. Ma essere
moltitudine non è un corteo, una manifestazione, una rappresentazione
forte di un disagio, di una protesta, di una proposta: essere
moltitudine è una condizione della vita, prima di tutto, della vita di
ogni giorno, della propria impotenza, disperazione, solitudine, assenza
di voce, impazienza, rabbia, dolore. Della percezione di una vita di
merda e di un'altra vita possibile. Dell'incapacità di trovare la
mediazione necessaria, il linguaggio che permetta a questa condizione di
ritrovarsi, di diventare fare sociale. La moltitudine è immediatezza. Si
può partecipare in tanti a un enorme corteo ma questo non lo trasforma
in una moltitudine; e non trasforma se stessi nell'appartenenza a quella
moltitudine. Per alcuni, per molti, l'appartenere a un progetto, a una
struttura, a un fare, rallenta la propria ansia, la incanala nella
cooperazione, la modella. Per altri, altrettanto molti, non rimane nulla
oltre l'occasionalità del ritrovarsi: resta un percorrere la vita a
tentoni, un perdersi e disperdersi.
Carlo era stato a Roma al grande raduno romanista per la festa dello
scudetto con la Ferilli e Venditti. Un milione di persone, di bandiere,
sciarpe, gagliardetti, distintivi, magliette, cappellini giallo-rossi.
Bambini coi padri sudati da fare schifo, ragazzine cresciute a troppi
maritozzi con la panna a esibire ombelichi ingrassati, shampiste
ossigenate, cocomerari coi semini ancora tra i denti, ragazzi coi
capelli a nidi d'uccello sulla testa, nanetti con le scarpe con la zeppa
per sembrare più alti, quelli delle lampade con il petto inanellato da
tre, quattro, cinque giri di collane d'oro, tatuati dei carceri
minorili, madri dalle diecimila amatriciane in una vita, quelli che
passano le giornate con il culo su tutti i muretti, gente qualunque,
Carlo Giuliani. Ne aveva portato indietro una bandiera donata poi a un
suo amico. Quella festa, spettacolare per molti versi, è stata citata in
questi giorni, per dire quanto poco oggi la politica riesca comunque a
mobilitare, nonostante enormi manifestazioni, rispetto agli oppi dei
popoli, il calcio di sicuro, ma perché no?, anche le giornate dei
papa-boys. E quanto incolmabile sia la distanza fra chi ha "coscienza" e
le "masse" instupidite. Eppure un filo sottile sottile quanto la vita di
Carlo ci dice che le cose non stanno proprio così. Qualcuno, almeno uno
deve averlo pensato, deve saperlo di suo, se alla manifestazione nella
capitale tenutasi il 24 come in altre piazze d'Italia, accanto
striscioni e bandiere di gruppo e partito ha portato una bandiera
giallo-rossa. Anche questo si vede per la prima volta.
Il gruppo di giovani, tra cui Carlo Giuliani, che aveva accerchiato la
camionetta dei carabinieri stava scatenando la propria furia:  travi,
bastoni, estintori, mani, piedi, ogni cosa veniva usata contro quella
camionetta che, per il panico, per errore o che, era rimasta nella
trappola. Le immagini lo dicono con evidenza. Una violenza
impressionante. Un gruppo, un bloc di giovani scaricava la rabbia
accumulata per altri pestaggi, per vigliacche aggressioni, per una
violenza cieca che loro stessi o loro amici avevano poco prima o poco
più in là subìto da una qualche carica della polizia o dei carabinieri:
anche questo è rimasto evidente nelle immagini. E quanto accaduto la
notte di sabato alla sede del Centro media è solo l'espressione
concentrata nel tempo e nello spazio di un comportamento tenuto dalla
polizia in tutti i luoghi e le occasioni a Genova: giovani donne,
persone inermi che scappavano o cercavano rifugio venivano massacrate a
calci, con i manganelli, con gli scudi, in cinque, in dieci, a cerchio,
non appena restavano soli, non appena incappavano in un nugolo di
poliziotti: anche questo è rimasto evidente nelle immagini. Il bloc è
l'unica salvezza che hai nella guerra di strada, come allo stadio: se
sei isolato sei perduto, se rimani vicino ai tuoi amici non sarai preda
dei tuoi nemici, della polizia, delle "guardie". E' una legge della
natura, non della politica. La camionetta era rimasta isolata: dovevano
pagare. E' una legge della natura, non della politica. Ma il livello di
quella violenza non può spiegarsi nella natura di Carlo, nella natura
dei suoi compagni del bloc, nella natura del comportamento del branco,
nella natura della guerra di strada: il livello di quella violenza può
spiegarsi solo con l'efferata ferocia dimostrata dalle forze
dell'ordine, con la gratuita disponibilità al massacro, con la
predeterminata volontà a intimidire, a spaventare, a impaurire, con la
sensazione di impunità che da troppo tempo caratterizza le forze di
polizia. Che siano state le bestie della polizia penitenziaria a fare il
lavoro sporco "a freddo" ci fa solo ricordare le botte che giorno dopo
giorno le squadrette somministrano ai detenuti qualunque. Usare la
pistola per uccidere è stato, in questo senso, solo un gradino della
scala dell'imposizione della forza comunque.
Non c'è nulla da questo punto di vista che possa avvicinare i due
giovani, e che ci ricordino la loro stessa età è solo maldestra
retorica: l'uno, il carabiniere è l'arroganza del potere: persino nel
panico può ricorrere ad essa e in maniera micidiale; l'altro è solo la
furia di chi non ha mai alcun potere, di chi per una volta vorrebbe
fargliela pagare, vorrebbe vederli scappare.
Non c'è nulla da compiacere in questo, in quello scontro così
ravvicinato, così crudo, così essenziale, così esemplare, anzi: c'è da
averne paura, orrore. Chi in questi giorni ha gridato, ha allarmato
contro una situazione da Stato sudamericano, da polizia di un golpe, ha
diecimila volte ragione. Chi chiama alla mobilitazione democratica
magistrati, amministratori, giornalisti, legislatori, persino
poliziotti, ha diecimila volte ragione. La strada è questa, quella della
mobilitazione democratica, dell'opposizione puntuale, precisa, aperta,
pacifica. Abbandonati a noi stessi, alla guerra di strada, siamo preda
della loro violenza cieca e della nostra stessa furia. Preda della
logica del bloc, della natura.
Ma in quella vita gettata contro l'arroganza del potere e della forza,
in quel corpo martoriato per terra, devono essersi riconosciuti in tanti
se così forte è stato il sostegno alle mobilitazioni di questi giorni,
quei tanti, questa sì una moltitudine, che giorno dopo giorno, privi dei
movimenti, privi delle mediazioni, sperimentano sulla propria pelle
l'arroganza delle "guardie", i soldati del Male.
Il luglio del '60 di Genova fu la rivolta delle magliette a strisce - la
divisa della gente qualunque di quegli anni - contro i caroselli
assassini delle camionette di Tambroni, il ministro degli Interni che a
tutti i costi voleva far tenere il raduno fascista; mi piacerebbe che
tra i colori dei popoli di Seattle e di Porto Alegre, le mani bianche,
le bandiere arcobaleno, il verde ecologista, le tute bianche, le facce
variopinte di indigeni del Sud America o dell'Africa, le bandiere rosse,
le tute nere, si ricordasse anche il colore di Carlo: quel drappo
giallo-rosso.

lanfranco caminiti
27 luglio 2001