25 aprile



Da "Lettere dei condannati a morte della resistenza europea" (Giulio Einaudi Editore)

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Giacomo Ulivi

Studente in legge, nato e vissuto a Parma. La sua vicenda si svolge nel giro di dieci mesi: dal febbraio al novembre 1944. Dapprima tiene il collegamento tra il comitato di liberazione di Parma e quello di Carrara nonche' con ufficiali inglesi alla macchia. In seguito organizza i giovani che si rifiutano di essere arruolati nell'esercito fascista, aiutandoli perche' possano raggiungere le formazioni partigiane sull'Appennino. Tre volte e' catturato, le prime due volte riesce a fuggire. L'ultima cattura, operata da militi delle Brigate Nere, lo conduce nelle carceri dell'Accademia militare di Modena. Di li' viene prelevato come ostaggio per essere fucilato nella Piazza Grande di Modena, da un plotone di militi fascisti, insieme ad altri due patrioti.

Aveva 19 anni.

- Lettera scritta agli amici fra il secondo e l'ultimo arresto.

Cari Amici,

vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L'avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo all'argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire "falso", di inzuccherare con un preambolo patetico una pillola propagandistica. E questa parola temo come un'offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.

Dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsablita' che abbiamo nei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si e' fatto per giungere dove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami al flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dal'industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: e' la premessa per tutto il resto. Mi chiederete, perche' rifare noi stessi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro ? Benissimo: e' un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non bastera': nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa, e' il segno dell'errore. Perche' in questo bisogno di quiete e' il tentativo di allontanarsi il piu' possibile da ogni manifestazione politica. E' il tremendo, il piu' terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato, e' riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della "sporcizia" della politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi puo' e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora che nella vita politica - se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri - ci siamo scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualita' uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a se stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola ? Che cosa abbiamo creduto ? Creduto, grazie al cielo, niente, ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.

Questa ci ha depredato, buttato in un'avventura senza fine; e questo e' il lato piu' "roseo" io credo. Il brutto e' che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale, la mentalita' di molti di noi. Credetemi, la "cosa pubblica" e' noi stessi; cio' che ci lega ad essa non e' un luogo comune, una parola grossa o vuota, come "patriottismo" o amore per la madre che in lacrime e catene ci chiama, vsioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Al di la' di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura e' sciagura nostra, come ora soffriamo per l'estrema miseria in cui il nostro paese e' caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo?

Se ragioniamo, il nostro interesse e quello della "cosa pubblica", insomma, finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro piu' delicato e importante. Perche' da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sara' impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Puo' anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di esere scoraggiati, di non volerne piu' sapere. Pensate che tutto e' successo perche' non ne avete piu' voluto sapere!

Avete mai pensato che nei prossimi mesi si decidera' il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avra' la nostra volonta' se sapremo farla valere: che nostra sara' la responsabilita', se andremo incontro ad un pericolo negativo ? Bisognera' fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato, per l'idea che avete di voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare. Oggi bisogna combattere contro l'oppressore. Questo e' il primo dovere per noi tutti. Ma e' bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi e il ripetersi di tutto quanto si e' abbattuto su di noi.

Termino questa lunga lettera un po' confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

Giacomo

2 -> lettera scritta il giorno della fucilazione.

Carissima mamma,

ti chiedo scusa di averti fatto soffrire.
Io sto benissimo e sono molto tranquillo come ti diranno questi cari Bassi [amici di Ulivi, NDR]. Sono molto buoni. Non mi rincresce quanto succede: e' quanto ho rischiato e mi e' andata male. Io spero che tempi migliori giungeranno e spero ... Sono interrotto dai Bassi che piangono. Io non ne sento il bisogno, riesco a non pensare al vostro dolore e sono molto tranquillo. Ringrazia tutti quelli che hanno fatto qualche cosa per me. Soprattutto tu sai chi. E penso al caro lontano: [il padre, NDR] non riesco a scrivere molte cose. Perdonatemi. Ti abbraccio con tutta l'anima

Giacomo.

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Adolphe Claude

Operaio siderurgico lussemburghese. Quando i tedeschi, invaso il Lussemburgo, tentano di "germanizzarlo", Adolphe Claude rifiuta di entrare nell'organizzazione giovanile nazista. Svolge anzi propaganda antinazista e si unisce ai Combattenti lussemburghesi della liberta'. Arrestato all'uscita dello stabilimento in cui lavorava, mandato in campo di concentramento, riportato in Lussemburgo, egli viene infine trasferito in Germania, da dove scrive questa lettera-testamento.

Colonia, Carceri, 9 febbraio 1942

Ho tenuto fede alla mia promessa e al mio ideale di Esploratore. Ho voluto dimostrare che so mantenere la mia parola. Che eseguano pure quella condanna. Una domanda che mi sono posto in Lussemburgo e che ancora mi pongo in Germania: con quale diritto ci hanno condannato a morte per alto tradimento ? Con il pretesto che io abbia proceduto con le armi contro la Germania ? Durante il processo non e' risultata prova alcuna che sia stato cosi'. Insistero' nell'affermare che non e' stato e non e' cosi'. ma ci sono dei programmi, ci vogliono distruggere in ogni modo.

O tu grande Reich Tedesco, che tanto parli di onore e di giustizia, perche' mantieni cosi' poco la tua parola nei confronti di un Paese tanto piccolo come il Lussemburgo che non ti fece nulla di male = E anche voi che avete pronunciato la sentenza, cosa ne sara' di voi ? Non crediate che tutto finira' cosi'. Sarete chiamati a rendere i conti. Quel giorno non e' piu' lontato, e allora, guai a voi. Ma non voglio essere io il vostro giudice. Vi persono con le parole del Divin Maestro: "Signore perdona loro perche' non sanno quello che si fanno".

Credo che dietro di noi si trova il popolo del Lussemburgo che sa, o piu' tardi sapra', quale gioco sia stato giocato qui. Ma non voglio giudicare. Che Dio conceda la giusta ricompensa a coloro che si sono cosi' benevolmente e con tanta simpatia occupati di me. Forse non poro' piu' darla io stesso, ma che siano certi della mia gratitudine.

Queste sono le mie ultime volonta', scritte l'11 febbraio 1942, forse alcuni giorni prima della mia esecuzione.

Colonia, 11 febbraio 1942

Adolphe Claude

(e' stato decapitato con la scure, l'indomani mattina, all'eta' di 28 anni).