Una storia (purtroppo) vera




Cari amici,

Vi prego di leggere con calma e attenzione l’incredibile avventura che purtroppo ho vissuto per 25 ore a Roma.

Diffondete la notizia il più possibile. Che si sensibilizzi l’opinione pubblica su un caso di incomprensibile indifferenza, ingiustizia, cattiveria gratuita.

Grazie a tutti per l’aiuto



La storia.

Mi chiamo Amilcare Astone,

ho 25 anni, napoletano.



Quest’anno dopo la mia laurea in Giurisprudenza ho intrapreso un viaggio di tre mesi (zaino in spalla) attraverso gran parte del continente sudamericano (Ecuador, Perù, Bolivia, Cile e Argentina) che è risultato essere una delle esperienze più istruttive ed emozionanti da me mai vissute: 15 mila chilometri di strade e campi che mi hanno portato a conoscere e a vivere con parte di quel 20% più povero della popolazione mondiale che si nutre di appena l’1% delle risorse disponibili (solo in Sudamerica su 416 milioni di abitanti 216 sono poveri, esseri umani che vivono con un reddito giornaliero al massimo di 2 dollari al giorno).

In Ecuador conobbi un gruppo di contadini indios che per due dollari suonavano nei ristoranti della località in cui mi trovavo. Diventammo subito amici, anche perché a causa della scarsissima presenza di turisti spesso suonavano in bar deserti dove io ero l’unico ospite.

Una sera due fratelli del gruppo mi invitarono a conoscere il loro pueblo. Colsi l’occasione al volo e così ho trascorso dieci giorni come unico ospite “bianco” in un villaggio di contadini e artigiani indios tra le ande ecuadoriane. Dieci giorni “indimenticabili” in mezzo ai “dimenticati” del mondo che mi hanno fatto capire per davvero cosa vuol dire la parola dignità. Ho vissuto insieme a persone che non hanno nulla se non una storia di miseria e i n g i u s t i z i e vergognose, inaccettabili.

Gente che non ha nulla e che lo ha diviso con me.



Tornato qui in Italia ho deciso insieme con la mia famiglia e amici di dare la possibilità a Juan e Josè (questi i loro nomi) di realizzare un gruzzolo di soldi per costruirsi una casa diversa dalla baracca senza bagno né pavimento in cui vivono con il resto della famiglia (la doccia la facevamo con i secchi d’acqua fredda all’aria aperta, in mezzo alla loro terra, e il papà e la mamma non hanno neanche le scarpe ai piedi). Decidiamo quindi di farli venire in Italia.



Contatto la Questura di Napoli e nonostante formalmente inutile mi preoccupo di mandare ai ragazzi e all’ambasciata ecuadoriana in Italia una carta di invito con la quale mi assumevo tutte le responsabilità del caso. Tramite questura sempre mi dicono che i due non hanno problemi e che con il mio appoggio economico tutto sarebbe andato liscio. Raccolgo gran parte dei soldi necessari per il biglietto aereo (il resto lo hanno avuto tramite una colletta a cui tutti –dico tutti- gli abitanti del villaggio hanno partecipato) e dunque fisso la data di arrivo dei due.



       Il fatto.

Il 10 aprile 2001 i due ragazzi ecuadoriani dopo circa diciotto ore di viaggio finalmente arrivano alle 8 e 10 del mattino a Roma. Io e Eugenio (un compagno di Napoli) siamo lì ad aspettarli. Il sogno è quasi realtà.

Un’ ora di attesa e finalmente vedo uscire uno dei due fratelli indios accompagnato da un poliziotto. Entro dentro con loro e qui c’è un primo controllo. Devono compilare una carta, ma poiché hanno difficoltà a capire scrivo io per loro. In un clima di felicità glisso alla voce “Quanti soldi ha con se?” perché ridendo con loro dico “ma non hanno capito che li ho io i soldi per voi adesso?”.

Dopo pochi minuti un agente esce e dice che uno dei due fratelli non è ammissibile in tutto il circuito Scenghen fino al 2003. Perché? Perché nel 1997 suonava per strada in Germania senza autorizzazione. Espulso. Doccia fredda. “Non è possibile…, a Napoli mi è stato detto che era tutto ok, che quella faccenda della Germania -cosa di cui ero già stato avvertito dai ragazzi- non rappresentava pregiudiziale alcuna” dico stupito.

“Mi dispiace ma io già le ho detto troppo” risponde secco l’agente. “Vada sopra e si rivolga al capoturno. E’ lui a decidere” e chiude la porta.

Corro sopra per chiedere spiegazioni. Due ore di attesa. Intanto tramite compagni ed amici parlo con l’On. Siniscalchi il quale mi dice che avrebbe contattato il sottosegretario agli interni. Parlo con un primo ispettore capoturno (quello della mattina), il quale dice che non può nulla: la legge è legge. Ancora attesa e telefonate.

Alle ore 17 ritorniamo all’attacco con il secondo ispettore capoturno (quello del pomeriggio). E’ meno disponibile del primo.

Intanto mi permettono di vedere gli amici ecuadoriani chiusi in un’auletta dell’aeroporto: hanno gli occhi rossi, non capiscono cosa succede. Sono sconvolti, mi abbracciano impauriti “Non ci lasciare qui! Portaci via con te, vogliamo abbracciare la tua famiglia!”

Sempre tramite compagni ed amici espongo il caso all’On. Walter de Cesaris, il quale riesce a parlare con l’ispettore al telefono.



Alle ore 19 l’ispettore mi chiama e dice che per il primo non è possibile fare niente, che per il secondo dovrei firmare un’assunzione di responsabilità intimorendomi circa i rischi di una condanna per favoreggiamento della immigrazione clandestina ecc…

…ma all’improvviso… colpo di scena:

Lo stesso ispettore esce dalla saletta del dirigente (il capo) annunciando seccamente che neanche per il secondo è possibile l’ammissione. Con il sangue gelato ne apprendo le motivazioni:

“Perché n o n h a s o l d i per mantenersi, ha rilasciato una dichiarazione e la legge parla chiaro: chi non ha soldi non entra!”.

“Non è possibile!” rispondo trasalito “Lui li ha i soldi, gliel’ ho detto io di dire che non ha nulla perché volevo che i ragazzi sapessero sin dal primo momento che potevano disporre dei miei soldi e che non avrebbero mai avuto bisogno di utilizzare i loro” e insisto “Allora accendo subito un conto corrente. Ecco qua, i soldi ci sono” e metto fuori una carta di credito e alcune banconote da centomila.

“Purtroppo non c’è più niente da fare” aggiunge asettico l’ispettore “La prima dichiarazione è quella che vale. I suoi amici se ne devono andare!!”

L’imploro di capire che si tratta di un caso umano.

Il mio interlocutore allora mi suggerisce di fare interferire all’indomani la segreteria di un politico “Può darsi che il capo si ammorbidisce”.

“Ma non è giusto! Il ragazzo deve uscire senza che nessuno interferisca per lui!” “Non potete trattarli così questi ragazzi, sono persone, non animali. Sono lì dentro da 12 ore. Dateci il ragazzo, per piacere” incalza Eugenio.

“Ora basta!” urla l’ispettore “Mi avete indisposto, andate fuori e non si discuta più! Fuori!” Alcuni giovani poliziotti intervengono in gruppo e frapponendosi tra noi e l’ispettore sentenziano: “Fuori. Dovete andare fuori. Via!Via!” “Ma…ispettore…!” “Ho detto fuori! Fuori!”

Richiamo De Cesaris: “Siamo alla beffa! Non è possibile!”

Ore 20. L’ufficio chiude. Accompagno Eugenio alla stazione, lui torna a Napoli in treno. Io nottata d’attesa. Morale a picco.

All’indomani risento l’On. De Cesaris.

Comincia quindi un giro di estenuanti telefonate tra me,l’On De Cesaris, mia madre implorante e il posto di frontiera di Fiumicino. L’On. chiama e richiama ma loro (i poliziotti in servizio) non rispondono. Il tempo passa. De Cesaris riesce a parlare.

Una poliziotta esce dalla saletta dei bottoni e dice ai colleghi “Chi sono questi Masaquiza?” “Ah si”, fa uno di loro “sono già partiti” “Ah cazzo, e mo’ che dico all’ Onorevole? Io gli ho detto che sono ancora qui!” “Digli che… niente, che te frega dell’Onorevole!”

Io sento tutto, sconvolto.

“C’è un errore!” urlo disperato. “Uno dei due non deve partire” “C’è un errore!”

“Ma chi è questo?” fa uno di loro appena arrivato rivolgendosi verso me “Aoh, ma chi sei tu che decidi? Stai zitto e facce lavorà. Vai fuori!”



Dopo 25 ore di attesa apprendo incredulo, con il volto rigato dalle lacrime, che i due amici indios sono stati rispediti al loro paese. A casa. Respinti.

Ultima telefonata a De Cesaris “Ci hanno preso in giro, avevano già deciso tutto!”

Ultima telefonata a Siniscalchi “Non finisce qua!”

Ultima telefonata a casa “Vieni a casa amore, non ti sentire in colpa, ce l’hai messa tutta”.

E’ finita.

Mi metto in macchina e torno a Napoli da solo.

Preso in giro. Distrutto. Sconfitto.





Breve riflessione.

Le nostre speranze e soprattutto le loro, quelle di due contadini musicisti, miei fraterni amici si sono infrante.

Nel momento in cui scrivo sono passate altre 24 ore dalla loro partenza. La mia mente non riesce a staccarsi dall’immagine di quei due ragazzi dagli occhi di cervo, buttati là in un’auletta come due animali braccati. Il mio pensiero va anche a quella povera gente del loro villaggio che ha rinunciato forse all’unico umile pasto per aiutarli e a tutte le persone che come loro vedono infranto il sogno di una vita migliore solo perché sono nati lì (certo non per scelta), nel mondo degli spogliati della vita.



Questi sentimenti di struggente dolcezza si tramutano in rabbia quando penso a quei poliziotti che sembravano quasi divertirsi di fronte a quel dramma, alle loro frasi che ne dimostravano l’insensibilità, la totale indifferenza: “Ma perché non se ne stanno al loro paese questi ecuadoriani?”

E poi ancora “Mi tolga una curiosità: ma che ve frega a voi di sti ecuadoriani? Sta gente è meglio rimandarla a casa, se no si piazzano qua e non se ne vanno più”.



Il senso di disfatta che si è impadronito di me in seguito alle vicende suesposte non mi impedisce di continuare a lottare: non posso ora più che mai abbandonare i miei amici.



CHIEDO PERTANTO

Che la società civile si unisca a me e alla mia famiglia in questa lotta a favore dei diritti delle minoranze.

Che giustizia venga assicurata affinché:

1) per Juan Masaquiza possa essere cancellata l’inammissibilità Scenghen data l’assoluta irrilevanza della motivazione (suonava per strada senza autorizzazione)

2) Josè Masaquiza possa essere libero di venire in Italia ospite presso quelle persone che si sono mostrate nei fatti disposte ad accoglierlo e ad aiutarlo.



Resto in attesa di un riscontro e mi dichiaro pronto a compiere ogni passo necessario ad un epilogo positivo di questa che rischia altrimenti di restare una pagina di grande sconfitta e indifferenza per una qualsiasi società che si voglia dichiarare civile, multietnica, solidale con i più deboli.



Appoggiatemi in questa battaglia

Che la mia lotta sia la lotta di tutti!

Che il sogno di questi ragazzi (e -permettetemi- di tutti i poveri del mondo) sia il sogno di tutti!





Grazie per l’attenzione prestata

Amilcare Astone


Per info e suggerimenti scrivetemi a:

amilcareastone at libero.it








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