un agenda per il dopo Seattle



From: LUCCHESI FABIO <amfut at tin.it>

Metto in rete la versione integrale dell'articolo
pubblicato domenica dal manifesto

L'articolo riprende le proposte sul dopo Seattle
presentate lo scorso mercoledì come Rete Lilliput
a stampa e parlamentari e prova a ragionare su
alcuni scenari futuri

Il post scriptum, che il manifesto non ha
pubblicato, è dedicato alla proposta formulata dal
Qatar (!!) di ospitare la prossima conferenza
ministeriale dopo Seattle

Chi pensa a preparare il travestimento da
cammelli?


MAURIZIO MELONI

un agenda per il dopo Seattle

A due mesi dagli eventi, la battaglia di Seattle è

ormai divenuta una categoria dello spirito. La
riflessione su quel movimento crea entusiasmo e
alimenta sogni di trasformazione sociale. Evocare
quella vicenda suscita terreni e linguaggi comuni
tra frammenti e sensibilità diverse.
Decine di affollatissimi dibattiti in tutta Italia

("come non si vedeva da anni", commentano molti
degli organizzatori locali), in cui non è raro
sentire affermazioni come: "è la prima vittoria
dopo tanti anni".
Probabilmente non lo è, tuttavia,
inequivocabilmente, la vicenda Seattle sposta
l'agenda internazionale "a sinistra" (parola
quantomai inadeguata, soprattutto su questi temi);

un esempio è la recente ratifica, a Montreal, del
Protocollo sulla biodiversità, impensabile senza
il collasso della Terza Conferenza Ministeriale
della Wto.
Gli opinionisti, la grande stampa, le televisioni,

i Forum ufficiali, volenti o nolenti sono
costretti a fare i conti con le troppe zone
d'ombra della globalizzazione. Esemplare il
discorso di Clinton a Davos. Confrontate le
affermazioni sulla bontà della Wto fatte prima di
Seattle con quelle di
oggi.
Grandi organizzazioni sociali e sindacali che solo

fino a qualche mese
fa consideravano poco più che folkloristici,
comunque politicamente non vendibili, i temi e gli

stili della battaglia di Seattle, oggi si
propongono di ripartire da lì.
Tutto bene, si dirà. Rimane tuttavia che nel
dibattito su Seattle c'è un convitato di pietra,
un'assenza paradossale: la Wto. Ovvero i contenuti

materiali di quella battaglia. Molto è stato
scritto e detto sul movimento di Seattle, ma nulla

o quasi sullo scenario futuro di questo Organismo.

Cosa bisogna farne? Abolirlo? Riformarlo?
Lasciarlo com'è, ma affiancandogli degli organismi

che ne limitino le funzioni e lo strapotere?
E' un tema tecnico, si dirà. Ma i movimenti che
hanno animato la controagenda di Seattle erano lì
per mettere al centro del dibattito pubblico la
grave questione democratica aperta dall'operato
della Wto. Un grande simbolo, certo, della
globalizzazione. Ma pure un'istituzione in carne e

ossa, con le sue regole, i suoi poteri, i suoi
equilibri. Uno dei grandi punti di forza del
movimento di Seattle (evidentissimo negli slogan
della Big march di martedì 30) è stata la grande
capacità di unire una proposta radicale ma anche
dettagliata e articolata sulla Wto alla diffusione

capillare, popolare del tema. Due gambe di una
battaglia che vanno tenute insieme, per evitare di

avere un gran parlare su Seattle senza affrontare
poteri e meccanismi concreti che quel movimento ha

provato a mettere in discussione. Per evitare che
Seattle diventi  una piattaforma girevole su cui
ognuno possa accomodarsi senza coglierne il
rivolgimento interno che esso comporta, il
cambiamento di stili che esige, la radicalità che
richiede. L'ispirazione di Seattle, se così si può

dire, andrà misurata sulle cose concrete.
Rimettere in discussione modelli, poteri, schemi
della globalizzazione deve rimanere il termometro
di quell'onda lunga.

Dunque, che fare della Wto? Mai come oggi questa
domanda suona urgente. Fino a ieri le Campagne e i

movimenti emersi a Seattle hanno potuto
strutturare la propria strategia intorno alla
piattaforma comune che chiedeva di bloccare il
nuovo Round negoziale ("Stop Millennium Round"),
rivedere gli accordi esistenti, escludere nuovi
temi dall'Organizzazione (come gli investimenti e
la spesa pubblica). Ma ora è necessario un passo
in avanti. La Wto sta rimettendo in piedi il
negoziato su temi già in agenda prima di Seattle
(agricoltura e servizi) con la prospettiva non
remota che questi facciano da volàno ad un nuovo
Round onnicomprensivo (è la posizione del
Commissario europeo).
La volontà di cooptazione dei movimenti di Seattle

costituisce inoltre un elemento ulteriore che
spinge nella direzione di dover far chiarezza sul
cosa vogliamo. Se non si ha una bussola precisa si

rischia di finire a fare tappezzeria dentro le
istituzioni globali. Le quali non aspettano altro,

nella profonda crisi di legittimità che
attraversano. Non sarebbe un esito felice. Il
Forum di Davos non diventa più democratico se vi
partecipa José Bovè. Questo vale per la Wto. Come
sempre, il problema è di struttura, non di
persone.

Partiamo da un elemento che ha contraddistinto
l'identità profonda dei movimenti di Seattle:
garantire un quadro multilaterale dove scrivere
regole globali, rimane un obiettivo di gran parte
dei soggetti anti-Wto.
Lo ha ribadito in una recente intervista Saskia
Sassen, docente alla New York University, autrice
di riferimento a Seattle: «Fino ad un anno fa, ha
dichiarato la Sassen in un recente numero di
Alias, ripetevo che bisognava porre fine
all'operato della Wto. Ma dopo la rivolta ho
maturato un altro punto di vista. La Wto è
un'organizzazione sovranazionale che può essere
sottoposta al controllo pubblico. Nel quadro di
un'economia globale, sono necessarie
organizzazioni sovranazionali sicuramente più
rappresentative e trasparenti di quanto lo sia
oggi la Wto». Può sembrare un atteggiamento
paradossale, ma occorre riflettere.
La battaglia di Seattle ha riportato in una
dimensione pubblica l'arco di temi su cui questa
Organizzazione aveva messo le mani. Non c'è un
modo migliore di rappresentare il vero conflitto
della globalizzazione, la dialettica a cui dà
vita: non protezionismo contro libero scambio,
bensì controllo dei cittadini versus dominio di un

sistema di attori privati socialmente non
responsabili. Un nodo che si chiama
"privatizzazione (espropriazione) dei processi
decisionali".

Come Rete di Lilliput abbiamo presentato
recentemente alcune iniziali indicazioni di fondo
circa una radicale ridiscussione sul funzionamento

della Wto. Queste richieste, certamente
migliorabili, vanno nel senso dell'aumento del
controllo democratico sull'operato dei negoziatori

(scandalosa a Seattle la pratica della "green
room" che escludeva i Paesi poveri e il ruolo del
Comitato 133, zona grigia aperta ad influenze
imprenditoriali, per ciò che concerne l'Europa);
della diminuzione del potere dei micro-tribunali
interni (panels) dell'Organizzazione; del
ripristino del ruolo delle Nazioni Unite (di cui
la Wto, come noto, non fa parte) e del ruolo
dell'Unctad, rilanciando una proposta elaborata da

Walden Bello di Focus on the Global South;
dell'istituzione di una World Environmental
Organization che limiti le competenze della Wto.
Soprattutto del vero grande tema occultato a
Seattle: l'avvio di un nuovo contratto con il Sud
del mondo. Il ritorno della politica nelle
relazioni Nord-Sud (vent'anni fa il Piano Brandt,
l'ultimo tentativo prima del neoliberismo e della
speculare deriva di tipo umanitario). Si potrebbe
partire da una piccola proposta: l'abolizione dei
dazi per i 48 paesi più poveri, in considerazione
anche di quanto è stato richiamato in questi
giorni alla X Conferenza dell'Unctad a Bangkok e
cioè che questa fascia di Paesi ha perduto negli
ultimi anni oltre il 40% della già misera quota di

partecipazione al commercio mondiale. Non è in
questo senso un bel sapere il fatto che l'Unione
Europea abbia appena approvato nuovi dazi, anche
verso Paesi africani. Da questo primo passo
occorre risalire all'articolazione di un quadro
che intervenga sui nodi di fondo degli squilibri
tra centro e periferia. La battaglia sul debito,
sulla riconversione ecologica dei consumi nel
Nord, sul commercio equo, la triplice tassazione
sulle transazioni speculative (Tobin tax), sugli
Investimenti Diretti Esteri, sugli utili.
Senza timore di quello che molti autori hanno
prospettato nei termini di un protezionismo
"ragionevole", universalista, capace di sfuggire
all'ordine globalitario che la Wto mira ad
imporre.
Per fare questo, serve come il pane un Forum per
le regole globali. Per una politica globale come
lo è l'economia: capace tuttavia di prevenirne i
movimenti e di tramutare la corsa verso il fondo
in livellamento verso l'alto. Esimendosi
dall'intervenire laddove il ruolo degli stati
nazionali è tale da garantire una mligliore
applicazione degli standard sociali e ambientali
(ad esempio la Wto probisce ad uno stato di avere
standard ambientali più alti di quelli ricnosciuti

internazionalmente: è il caso della controversia
Canada vs. Ue sull'amianto che si risolverà nei
prossimi mesi).
Tuttavia, provando a disegnare questo faticoso
scenario alternativo, fatto di tessere di un
puzzle che si compongono, si ha la sensazione di
non raccogliere fino in fondo l'ispirazione dei
giorni di Seattle. Bisogna avventurarsi in questi
tecnicismi, ma non basta.
Il disagio sta nel fatto che sarebbe illusorio
credere che con le regole e con un bel Forum
globale si risolva tutto. Che ad una Wto cattiva
se ne possa contrapporre una buona, costruita nel
rispetto delle norme di trasparenza e democrazia.

Questo livello della battaglia rimane necessario
ma non  sufficiente. Nei linguaggi e nei volti di
Seattle c'era anche un altra ispirazione:
depotenziare l'economia, sottrarre terreno
all'ambito globale, ricondurre il più possibile
beni, prodotti, ambiti di vita ad un livello il
meno dipendente possibile dalla logica del macro,
fino a stemperare la forza pervasiva
dell'Economico in altri ambiti del rapportarsi
reciproco.
Occorre dunque lavorare in direzione di uno spazio

pubblico globale che sia democratico, trasparente
e sotto controllo. Questo spazio dovrebbe tuttavia

contare in maniera sempre più limitata nella vita
di ciascuno di noi. Dovrebbe costituire un
ambiente istituzionale non sfavorevole - di più da

questo livello non dobbiamo aspettarci - ad una
trasformazione sociale che vada in direzione
dell'autogoverno dei processi da parte dei
cittadini. Sia attraverso poli regionali forti
(Europa,
Africa ...) che partoriscano nuovi istituti di
partecipazione e controllo, sia mediante un
arcipelago di reti locali radicate nel territorio,

ma aperte l'una con le altre e progressivamente
indipendenti dai circuiti dell'economia globale.
Il dibattito internazionale sul dopo Seattle
oscilla oggi tra questi due poli. Priorità del
livello locale e riforma radicale delle
istituzioni. Questi sono due dei punti di merito
che vanno affrontati per non lasciar cadere
l'ispirazione di quel movimento.

p.s. Dopo la rinuncia di molte città già candidate

ad ospitare la Conferenza Ministeriale del dopo
Seattle, presumibilmente nel 2001, si è fatto
avanti un coraggioso Paese. Il Qatar. Yousef
Hassaini Kamal, ministro del commercio del Paese
del Golfo, ha espresso sabato scorso il desiderio
di ospitare la Quarta Conferenza Ministeriale
nella città di Doha. Il giorno del collasso di
Seattle, Greenpeace international aveva suggerito
alla Wto, ironicamente, di riunirsi di nuovo a
Piongyang, Corea del Nord. A quanto pare, stanno
studiando qualcosa di meglio.



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