8 marzo, una poesia di Riccardo Orioles



riccardo orioles <ricc at libero.it>
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Otto marzo

Le dita di Cettina che corrono sulla tastiera
Graziella nuca spavalda
E le ciglia-farfalle di Rosalba
E i capelli di Ester da elfo da ragazzo

Una parlava in piazza contro i Cavalieri
una affrontava le iene
una fra i sassi e i rovi del paesino
una a gettare fili fra Catania e Berlino

E tu, Campanellino, che fra tenerezza e paura
sei rimasta a lottare, con me, quando i più coraggiosi
erano ormai dispersi ai quattro lati del mondo
e il buio sembrava a tutti invincibile
fuori dalla nostra povera stanza

Quanta luce, guerriere mie, quanto passato,
e che povero poeta son diventato
Non più vengono lievi le parole
lo strumento già aguzzo s'è scheggiato

Passa un tram qui nel sole di Milano
e un passero improvviso fugge via.
Qui tutto è lontanissimo. Ho vissuto.
A passo veterano l'ironia
stentatamente arranca  nel deserto.

Cos'altro resta? Avessi qui dei fiori
oggi per voi, o almeno una poesia!
In questa ipocrisia di gente-bene
- l'ottomarzo, le feste, le interviste -
vorrei avere una tromba, una bandiera
una tamburo di latta, una parola
per dire: hanno lottato, per potere
ridere insieme a voi degli arrivisti,
dei signorsì, dei vecchi, dei tromboni.
Hanno imparato infine, a quarant'anni,
a scegliersi telefonini e cravatte
senza sbagliare, ad avere misura,
a non rompere le scatole, ad essere realisti,
a riflettere prima di parlare, a dire e a fare
ciò che tutti fanno e dicono, ad avere un sorriso
quando si parla di ribellarsi, ad essere
- con l'anima ingrassata - pro-fes-sio-na-li.

Voi che siete rimaste come allora,
amiche mie, compagne, sceme-di-guerra,
voi cui i capelli ha segnato, non il cuore,
il grigio della sconfitta, voi che andate
con insolente leggerezza per il mondo dei padroni
voi a nulla rassegnate e di nulla pentite

voi fate finta un attimo che questa sia una poesia

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"A che serve vivere, se non c'è
il coraggio di lottare?"                        (Giuseppe Fava)
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