il grande imbroglio



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Il Manifesto 20.07.04
BOLIVIA
Il grande imbroglio «democratico»
GIUSEPPE DE MARZO
Il referendum di domenica sugli idrocarburi presentato come un fatto
storico sarà invece ricordato come un grande imbroglio. Nonostante le
minacce e le ammende previste per coloro che non si fossero recati alle
urne, circa il 40% dei boliviani ha deciso di non votare, mentre moltissimi
che lo hanno fatto hanno invalidato le schede con la scritta
«nazionalizzazione». I cinque quesiti sui quali i boliviani sono stati
chiamati ad esprimersi, avevano esclusivamente due obiettivi: legalizzare
la svendita del paese alle grandi corporations e frammentare la sinistra ed
i movimenti sociali in un'area strategica. Basta guardare da chi è stato
sostenuto il referendum per intuirne i veri interessi in gioco, a partire
dalla Banca mondiale che ha investito un milione di dollari per appoggiarlo
e ne ha promessi 120 come prestito per il disastrato bilancio nazionale.
Marc Falcoff, consigliere del vicepresidente Usa Dick Cheney, ha dichiarato
che la Bolivia si «suiciderà» se oserà bloccare le esportazioni di gas.

Non stupisce affatto che la francese Total abbia pagato 56 mila dollari per
i sondaggi con i quali il governo ha preparato le capziose domande del
referendum. Le prime due chiedevano ai boliviani se volessero recuperare la
proprietà degli idrocarburi ed abolire la vecchia legge che ne regolava
l'utilizzo. In realtà vengono fatti salvi gli 84 contratti già firmati tra
governo e multinazionali. Questo significa che i boliviani recupereranno le
loro risorse solo nel 2036 quando saranno scaduti i contratti ed ovviamente
finite le riserve di gas e petrolio, stimate per una durata di circa venti
anni. La terza domanda era relativa alla ricapitalizzazione dell'impresa
statale di idrocarburi, la YPFB. Visto che il referendum non spiega come lo
Stato debba intervenire, ci ha pensato una proposta di legge del presidente
boliviano Carlos Mesa a fare chiarezza: se c'è la disponibilità finanziaria
attraverso il recupero dei titoli di Stato si procede, altrimenti si è
«costretti» ad esportare gas come materia prima in modo da «capitalizzare»
le casse dello stato per procedere, quando si potrà, alla
ricapitalizzazione della YPFB. Peccato che il Fondo di capitalizzazione
collettiva del quale sono parte questi titoli doveva essere di 1.6 miliardi
di dollari mentre raggiiunge appena i 600 milioni, visto che il governo ha
venduto le azioni dei boliviani per ripianare i disastri della corruzione e
che le azioni per 843.4 milioni di dollari acquisite da Chaco e Andina sono
depositate presso la Cititrust Bank nelle isole Bahamas.

Anche la quarta domanda insulta l'intelligenza e la dignità dei boliviani,
dando mandato al presidente boliviano affinché utilizzi il gas come risorsa
strategica per ottenere il tanto agognato sbocco sul mare, perso durante la
guerra col Cile. L'unica conseguenza è quella di consolidare i contratti di
esportazione dal Cile e per il Cile con la scusa del mare: esattamente
quello che la gente non voleva. Talmente ingenuo da essere incredibilmente
in malefede l'ultimo quesito legato all'intenzione o meno di «fomentare
l'industrializzazione del gas sul territorio nazionale». Va da sé che non
ha nessun senso votare sul fatto di essere favorevoli o contrari a che il
governo «fomenti», cioè abbia buone intenzioni e nulla più,
l'industrializzazione del gas.

Il risultato prodotto con la trappola della finta democrazia referendaria è
quello di aver svenduto le ricchezze restanti del paese ed innescato un
processo molto complesso all'interno della sinistra. Evo Morales, a capo
del Mas (il principale partito della sinistra), vede ormai i movimenti come
un ostacolo alla conquista della poltrona presidenziale del 2007 e da tempo
ha abbandonato le rivendicazioni e le strade di quelle mobilitazioni che
hanno riscritto negli ultimi anni il cammino della Bolivia e sono stati un
esempio per tutti quei movimenti che in ogni luogo della terra si stanno
battendo per la giustizia sociale e la pace. Per il fatto di aver
appoggiato il referendum la Cob (il sindacato operaio) lo ha addirittura
espulso con «ignominia» dal sindacato, accusandolo di essere un traditore.
La rottura si è consumata proprio sulla inutilità della consultazione
referendaria, che, secondo i movimenti, i sindacati, i contadini e la
società civile, non risponde all'unico quesito che interessa davvero i
boliviani: nazionalizzare l'industria di idrocarburi per recuperare le
risorse che hanno un valore stimato di 120 miliardi di dollari, per poi
industrializzarle attraverso l'impresa statale YPFB. Questo consentirebbe
finalmente di creare lavoro e generare risorse da investire in educazione,
salute, strade, servizi basici, come sostiene da tempo il «Coordinamento
per la difesa del gas». La nazionalizzazione metterebbe fine al furto delle
multinazionali che oggi trattengono oltre l'82% di quello che estraggono,
lasciando i danni ambientali e sociali a carico dello stato e per di più,
come denuncia il Servizio per le imposte nazionali, evadendo le tasse
statali per oltre 120 milioni di dollari. Ad ottobre del 2003 per impedire
la svendita del gas, i movimenti popolari avevano dato vita a
un'impressionante mobilitazione che costrinse alle dimissioni e alla fuga
il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada. Mesa. Il suo successore, Mesa,
deve stare attento.