tra gli indios della colombia



Quanti hanno potuto nella loro storia personale entrare in contatto con popoli
poveri hanno sempre dovuto constatare che, malgrado tutte le sciagure che li
colpiscono, sciagure che non hanno mai fine, essi dimostran sempre un'allegria,
un'ospitalita', un'affabilita', una cordialita' che noi abbiamo perduto.
E' lo stesso sentimentoche ho provato leggendoil lungo reportage apparso oggi
30 marzo sul corriere della sera su certi indios della colombia.

BUONA LETTURA, PLG
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In Colombia il governo
ha permesso a un primo gruppo di deportati la costruzione
di nuove case nella giungla. E il viaggio, tra zanzare e
macerie, è stato euforico

Gli indios alla riconquista della selva

Tre anni fa vennero
cacciati a migliaia dai loro villaggi. Ora comincia il
rientro

di ETTORE MO

Ma gli interessi delle società minerarie e la lotta alla
droga rischiano di far aumentare il numero degli indigeni
espulsi










TURBO (Colombia) Tre anni fa li avevano cacciati dai loro
villaggi, dopo avergli bruciato le case, rubato il bestiame
e massacrato 70 contadini inermi; poi i soldati
dell'esercito colombiano li avevano caricati su una
flottiglia di zattere, chiatte e barche e sbarcati a Turbo,
dopo giorni di perigliosa navigazione.è una delle tante
storie di desplazados (intraducibile con un solo aggettivo,
la definizione riguarda le persone che, sradicate dai loro
paesi e deportate, sono costrette a vivere in esilio coatto
in luoghi estranei) che l'anno scorso in Colombia, secondo
un'organizzazione per i diritti umani, avrebbe raggiunto la
bella cifra di 288.127, un primato assoluto tra i Paesi del
Sud America.Il mese scorso, grazie alla magnanimità del
governo di Bogotà, che aveva acconsentito ad un loro
graduale rientro, una sessantina dei 3800 desplazados di
Cuenca Cacarica sono tornati nella selva dove un tempo
sorgevano i loro pueblos: e io sono andato insieme a loro
per fiumi e per canali in un viaggio che pareva non
terminasse mai. è stata una gran fatica, ma anche una gran
festa.Turbo è una cittadina affacciata sul Golfo de
Uraba, dove confluiscono le acque gelide dell'Atlantico. I
deportati di Cuenca Cacarica vivono qui dal febbraio del
'97: sono sistemati in specie di case-accampamenti che
chiamano alberghi, le famiglie (molto spesso numerose)
pigiate in piccole sudicie stanze e baracche. La cucina è
in comune, nel cortile, sotto la tettoia. Benchè
l'organizzazione umanitaria Justicia y Paz si dia molto da
fare, il cibo è scarso, i bambini hanno fame.Quasi ogni
famiglia lamenta un desaparecido e per quest'aggettivo non
c'è bisogno di traduzione. "Le principali organizzazioni
non governative dei diritti umani scrive nel prologo di
un suo libro il giornalista Hernando Salazar Palacio ù
ritengono che il numero dei desaparecidos in questo Paese
s'avvicini ai diecimila. Se ciò fosse vero, saremmo al
livello di Paesi come l'Argentina durante la dittatura
militare Sono tre, a Turbo, gli "alberghi" dei
desplazados: il più grande, il "Coliseum", era un complesso
sportivo, qui dormono tutti (famiglie intere, ragazzi e
ragazze, vecchi e bambini in chiassosa promiscuità) in uno
stanzone vasto come una piazza d'armi. Per gente di
campagna come loro, abituati al duro lavoro quotidiano
della terra, non potrebbe esserci disagio peggiore che
restare indolenti tutto il santo giorno: "Ci hanno
condannato alla disoccupazione permanente dice Pedro
Torres, 74 anniNessuno ci offre lavoro, così abbiamo
perso la nostra dignità. Io son vecchio, mi resta poco da
vivere, ma mi sono già messo in lista per tornare al mio
pueblo. è là che voglio morireE' stato costituito un
comitato-familiari delle vittime, 32 donne che sono madri,
vedove, sorelle dei desaparecidos. Ognuna di loro ha una
tristissima storia da raccontare: la signora Aurora, che ha
perso il figlio di 26 anni, scomparso da casa; Alicia
Mosquera, che non sa più nulla del marito e del fratello;
Mirna Luz, 28 anni e 7 figli, cui hanno assassinato il
marito; Anna Faria e Nubia Valencia, ambedue giovanissime e
ambedue già "vedove Sono tutte rassegnate al loro
destino: perchè non è mai successo che un desaparecido
torni a casa. Questo può accadere coi sequestrati, se i
familiari pagano il riscatto. Ma chi scompare non lascia
traccia: scompare per sempre.Al "Coliseum" c'è anche il
comitato dei patriarchi e il comitato delle matriarche, che
hanno la saggezza degli anni e possono quindi esercitare
una certa autorità. Mi mostrano un piccolo monumento e,
accanto, un grafico naif che illustra la loro tragedia.
"Noi eravamo degli onesti lavoratori, dei campesinos
qualunque comincia a raccontare uno dei più anziani, il
volto di cuoio stagionato ma, si sa, ci hanno sempre
accusati di sostenere i guerriglieri della Farc, le Forze
armate rivoluzionarie. Ed ecco che il 22 febbraio 1997
arrivano i militari nei nostri villaggi, con gli
elicotteri: circa duecento uomini. Prima, però, ci avevano
bombardato con l'aviazione. Scendono e sparano. Ci fanno
uscire di casa e sparano, siamo nelle loro mani per tre
giorni. Alla fine lasciano sul terreno una settantina di
cadaveri. Si prendono le nostre bestie ed appiccano il
fuoco. Tutto è in fiamme: le case, il bosco, i raccolti. Ci
spingono fuori, verso il fiume... Neanche il tempo di
guardarti indietro. Ce ne andiamo con gli occhi pieni di
lacrime e di fumoL'obbiettivo non dichiarato
dell'assalto a quella manciata di villaggi sul fiume
Cacarica era di militarizzare l'intera area per ripulirla
dei guerriglieri Farc che ne infestavano le foreste sino ai
confini con il Panama. Ma questo era solo un primo passo,
dietro cui si celava sono in molti a sostenerlo un
piano molto più ambizioso: la realizzazione d'un progetto
(contemplato nel Colombian Plan Pacific) che prevede la
costruzione di un mega-canale, capace di unire l'Oceano
Atlantico al Pacifico, sulla sponda colombiana. Un'impresa
che potrebbe essere portata a termine soltanto con grandi
finanziamenti internazionali (leggi americani) e che
relegherebbe il Canale di Panama ad un ruolo di
comprimario.Gli ecologisti sono in allarme: perchè si
tratterebbe di fare esplodere la terra e di aprire una
ferita lunga e profonda nel cuore dello Stato di Choco,
sfruttando la sua immensa riserva idrica e con un danno
incalcolabile per la natura e per l'ambiente. Se questo
avverrà, la gente del luogo sarà costretta a migrazioni di
massa ed il Paese dovrà far fronte ad una nuova valanga di
desplazados. Si tratta di un dramma in continua
espansione, alimentato sia dalla guerriglia sia da
megaprogetti industriali per lo sfruttamento del sottosuolo
(spaventosamente ricco) che, se attuati, comporterebbero
come inevitabile conseguenza lo sradicamento di piccole e
grandi comunità dai luoghi d'origine. Paradossalmente, il
fenomeno dei desplazados subirà un ulteriore incremento
grazie anche agli aiuti economici (i 1600 milioni di
dollari del Plan Colombia) che gli Stati Uniti hanno
promesso al Paese per distruggere le coltivazioni della
coca e combattere il narcotraffico.Lo afferma senza
esitazione proprio il dipartimento dei Diritti umani che si
occupa direttamente dei desplazamientos (Codhes),
avvertendo che l'aiuto Usa provocherà un inasprimento del
conflitto armato e, quindi, la fuga di tanta gente: "Le
stesse autorità statunitensi si legge nel rapporto ù
calcolano che almeno 150 mila persone saranno desplazados
nel Sud del Paese, moltiplicando la crisi umanitaria che si
vive in Colombia Una crisi che si sta
internazionalizzando, come dimostra il fatto che non meno
di 12mila campesinos colombiani hanno trovato rifugio in
Venezuela, Panama, Ecuador. Ma verranno quasi certamente
rimpatriati, perchè nessuno di quei governi sembra disposto
a considerarli rifugiati politici. "Insomma sbotta il
vecchio Pedro Torres è una situazione senza via d'uscita.
Per noi non c'è scampoEd è proprio nel mezzo di
questo clima esasperato che i desplazados di Turbo hanno
deciso di profittare del timido consenso del governo (in
conflitto coi militari) a un parziale, limitato rientro dei
deportati in alcune zone e mandare avanti, nella selva di
Cacarica, il drappello dei pionieri. Raramente m'è capitato
di vedere tanta allegria come la mattina dell'imbarco.
Manca un'ora a mezzogiorno quando la Negrita Linda un
panciuto barcone verde preso all'arrembaggio da una
sessantina di persone, uomini e donne, giovani e meno
giovani, ma anche qualche anziano salpa verso il golfo.
Sulla banchina c'è tutta la folla dei tre "alberghi" venuta
a salutare. Centinaia di mani accompagnano uno stonatissimo
coro di voci che canta "vamos a cruzar el mar... Ma siamo
già lontani. Le donne hanno cominciato a cucinare il pranzo
ù riso, spaghetti, pesce in marmitte enormi. Accanto alla
Negrita Linda sfrecciano tre velocissime lance che ci
accompagneranno per tutto il viaggio: ci precedono, ci
inseguono, giocano nell'acqua come delfini. Il golfo è
molto ampio e ci vuole qualche ora prima di raggiungere la
"bocca" del grande fiume Atrato che serpeggia fino al
Cacarica dentro un paesaggio incontaminato e sonoro con
grappoli di scimmie che ti salutano dalle cime degli
alberi. C'è solo un momento di panico, a bordo: ed è quando
una motovedetta accosta il barcone e ci blocca. Sulla
Negrita Linda nessuno osa fiatare. è comprensibile.
Dall'altra imbarcazione, una dozzina di paramilitari, il
mitra puntato in alto, scrutano con un sorriso di sfida la
ciurma dei desplazados. Sono stati loro, insieme
all'esercito, a cacciarli dalla terra dei padri: e adesso
digrignano i denti al pensiero che vi possano tornare
legalmente. Ma la presenza, sul barcone, di rappresentanti
del governo li dissuade da ogni possibile bravata e se ne
vanno via, ingrugniti e scazzati. La Negrita Linda
arriva fino a un certo punto, poi si deve arrendere: la sua
chiglia non è compatibile col canale Parancho, che
imbocchiamo per arrivare a destinazione. è un tortuoso
budello colmo di fango dove finisce per incagliarsi anche
la sottile lancia La Resistenza che dovrà accompagnarci
per l'ultimo tratto. Armati di pertiche, i ragazzi spingono
avanti la barca con gran fatica, metro per metro,
stimolandosi a vicenda con imprecazioni e grida, come
dovessero strapparla a una colata di cemento: ma tutto ciò
non gli impedisce di divertirsi come una scolaresca in
gita-premio e decine di pesci che guizzano nell'acqua
torbida sono tramortiti da tremende perticate e
scaraventati a bordo. Finalmente la lancia attracca, al
buio. La ciurma scende a terra, stremata e felice: e col
pescado fresco per la cena. Nell'oscurità s'intravede la
sagoma di una casa, ma per raggiungerla bisogna aprirsi la
strada col machete tra erbacce alte due metri, barricate di
tronchi d'albero crollati a terra, intrecci di liane
resistenti come reti metalliche. è la sola costruzione
risparmiata dai "banditi in uniforme" nel febbraio del '97,
dice Edwin, 27 anni, che fu cacciato di casa insieme al
padre (desaparecido), la madre e 8 fratelli: "Le bestie
uscivano urlando dalle stalle e dai fienili in fiamme",
racconta. La mano degli scatenati piromani si è fermata
davanti a quest'unico edificio (un residuo di rispetto?
Paura del castigo divino per un gesto sacrilego?) perchè si
trattava della chiesa. Sopra la porta che non c'è più ù
sta scritto: "Jesus sis la luz y la verdad Le pareti sono
di legno, il tetto di lamiera. Sul fondo, un blocco di
cemento che doveva essere l'altare. Portano fuori le panche
per avere tutto lo spazio possibile sul pavimento. è la
nostra camerata. Ognuno si sistema come può, un rettangolo
dove adagiarsi, per dritto o per traverso, sotto il
baldacchino della zanzariera, indispensabile alla
sopravvivenza: perchè i mosquitos, digiuni per tanto tempo
di sangue umano, ci si avventano addosso famelici e altro
non resta, per difendersi, che spiaccicarli sulla pelle con
una manata. Chi può dormire? Per tutta la notte la santa
dimora risuona di schiaffi. E di risate. Niente più mi
sorprende. I reduci dall'esilio di Turbo affrontano l'alba
del nuovo giorno con lo stesso buonumore. La cucina da
campo è già stata approntata sullo spiazzo di fronte alla
chiesa, dove una dozzina di donne, acceso il fuoco, sta
armeggiando attorno a fumiganti pentoloni per preparare il
desayuno, la colazione. Ma al clima euforico del rientro
sta ora subentrando dice uno dei capi la fase dei
"piedi per terra": è infatti venuto il momento di stabilire
il programma, già tracciato sulla carta, con scadenze
precise, giorno dopo giorno, e di formare le squadre, cui
verranno affidate mansioni diverse. Le decisioni saranno
prese in assemblea e nessuno vi si potrà sottrarre o agire
per conto proprio. Ciò che dovrebbe emergere, sulla base di
queste poche indicazioni, è una comunità autonoma e
autosufficiente, nella quale vengano equamente spartiti le
fatiche e gli utili, un po' come avviene nei kibbutz
israeliani. Ma prima che si cominci a discutere il
programma nei dettagli, uno degli uomini che potrebbe
essere un sacerdote legge un brano della Bibbia e intona
il "Padre nostro", coinvolgendo un po' tutti nelle
preghiere: e il versetto con cui conclude il suo breve
intervento ("verrà il giorno che la terra darà i suoi
frutti") sembra riguardare direttamente questo sperduto
angolo del mondo, ora che la sua gente è appena tornata e
ricomincerà a zappare, seminare, mietere. L'obiettivo
immediato, frattanto, è la costruzione di 430 abitazioni
per altrettante famiglie, che non saranno però assembrate
in un solo villaggio, ma sparse tutt'intorno, vicino ai
coltivi, sia pure entro un raggio limitato (per questioni
di sicurezza). L'ingegnere Don Ramon è venuto fin quassù
col suo modellino in plastica, che tiene in braccio come un
neonato, saranno case tutte uguali, di legno, che lui già
vede far capolino tra il fitto dei boschi. Il nuovo pueblo
di Cuenca Cacarica, rinato per volontà dei reduci di Turbo,
si chiamerà "Nueva Vida La terra qui è ricca, fertile e
darà i suoi frutti, come dice la Bibbia: ma occorreranno
tempo, pazienza e fatica per liberarla dall'eccesso di
vegetazione selvaggia che l'opprime, dissodarla e
addolcirne le viscere; poi s'apriranno i pascoli e arriverà
il ganado, il bestiame; in quanto al pesce, nessun
problema: il canale ne è strapieno: i ragazzi che si sono
appena tuffati in acqua, tendendo la rete dall'una
all'altra sponda, ne riemergono subito dopo con un bottino
impressionante. Ma bisogna calarsi a fondo nella realtà
colombiana per capire cos'abbia spinto questa gente a
tornare sui propri passi, in una terra che non promette
rose, e ad affrontare lo stesso calvario. Dice il ragazzo
che mi offre la noce di cocco dopo averla "aperta" col
machete: "Da Turbo si poteva andare a Bogotà come ha fatto
qualche mio amico. Non ho notizie di loro. Ma la cosa più
facile, per quanto ne so, è finire al Cartucho, tra i
drogati, o entrare nel giro della piccola criminalità.
Meglio qui, anche se dura L'entusiasmo ha avuto il
sopravvento su tutto, in questa fase iniziale del ritorno.
Ma c'è un timore che continua a serpeggiare nell'animo di
molti; c'è una domanda che certamente alcuni si pongono: e
se tornassero i paramilitari? Ho sentito uno dei capi
(Fernando) raccomandare agli uomini di non allontanarsi dal
campo oltre il limite di sicurezza consentito: e,
soprattutto, di non avventurarsi mai da soli nella selva.
"Siamo in piena zona di guerra ha detto ù: spero ve ne
rendiate conto Per i militari come per la guerriglia,
questa è "terra di frontiera", quindi strategicamente molto
importante; è anche ricca di alberi e legno pregiato, un
"genere" che garantisce vasti profitti. è il momento del
commiato. Stanno tutti allineati sulla sponda del
canale e fanno un gran casino: "Raccontate la nostra
storia", raccomandano. Poi, sempre agitando festosamente le
mani mentre la lancia scivola via dolcemente sull'acqua,
"ricordatevi gridano noi desplazados siamo gente che nŠ
si vende nŠ si compra.
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FONTE: CORRIERE DELLA SERA - 30/3/2000




 



PIER LUIGI GIACOMONI
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Net-Tamer V 1.11.2 - In Prova

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