intervista mini a peacereporter afghanistan



Afghanistan - 24.3.2007
La soglia della capitolazione
Il generale Fabio Mini sulla situazione in
Afghanistan: "Parliamo con i Talebani, con il Nemico,
con i Terroristi?"
		
		
		
Scritto per noi da
Gen. Fabio Mini
 
Parliamo con i Talebani, con il Nemico, con i
Terroristi? Ammetto di non essere il più indicato a
rispondere a queste domande. Ho imparato ad onorare i
padri della patria che, per i regimi politici del loro
tempo, erano terroristi e ribelli. Da militare, ho
dovuto salutare e presentare le armi a vari personaggi
 compresi quelli che  in periodi della loro vita erano
stati fuorilegge o terroristi. Da comandante di
operazione internazionale nei Balcani ho dovuto
stringere mani che grondavano ancora sangue e
dialogare con responsabili di crimini che il mutato
clima politico considerava eroi. Oggi non abbiamo,
come nel passato, neppure una definizione condivisa di
terrorismo e mai come in questo periodo è difficile
separare il terrorismo come strumento dal terrorismo
come ideologia, il terrorismo dalla lotta di
liberazione, i ribelli dai criminali e gli insorti dai
terroristi. Inoltre, ogni militare sa che conoscere il
nemico è fondamentale per il successo delle operazioni
e che non esiste mezzo migliore della conoscenza
personale per capire gli avversari. Quando il rapporto
diretto non è possibile, come spesso succede nei
conflitti, si chiede all’intelligence di fare da
intermediario, di fornire informazioni dettagliate e
di tracciare i profili professionali e personali degli
avversari. Se è raro e difficile incontrare i propri
nemici prima della battaglia per parlare di guerra, è
invece naturale per un militare pensare e perfino
sperare d’incontrare l’avversario durante il conflitto
per discutere di tregua o al termine dei combattimenti
per discutere di pace.
 
combattentui talebani in Afghanistan Oggi, come ieri,
è evidente che il nemico in Afghanistan è
rappresentato dai talebani, o da quelli che noi stessi
occidentali vogliamo dipingere come talebani. Non
sappiamo se sono gli stessi con i quali mezzo mondo ha
trattato prima dell’11 settembre; quelli che mentre
abbattevano con furia iconoclasta le grandi statue dei
budda, mentre imponevano feroci restrizioni alle
donne, ai bambini e agli oppositori politici venivano
corteggiati dalle diplomazie e dalle intelligence di
mezzo mondo comprese quelle statunitensi. Non sappiamo
se sono gli stessi con i quali si è trattato per mesi
dopo l’11 settembre prima che gli Stati Uniti
iniziassero la guerra globale contro il terrore. Non
sappiamo se sono gli stessi ai quali vengono elargiti
milioni di dollari in presunte taglie perchè denuncino
il vicino di casa o soltanto il nemico di faida. Non
sappiamo neppure se quelli stessi rinchiusi a
Guantanamo sono i veri talebani e finchè non ci
saranno processi aperti e seri non lo sapremo mai. Non
sappiamo chi sono questi “talebani” del 2007, cosa
vogliono e fino a che punto possono sperare di
assumere il controllo dell’Afghanistan. Non sappiamo
se sono collegati con Al Qaeda, come sono collegati
con il Pakistan, l’Arabia Saudita, l’Iran e la
ribellione irachena. Non sappiamo dove prendono i
finanziamenti e le armi. “Non sappiamo”, ed è questo
il vero problema. Oppure ciò che sappiamo è
insufficiente e deviante perché superficiale e perfino
banale.
 
Sappiamo che tra le centinaia di bande private, di
criminali comuni, di milizie della droga, di polizie
più o meno ufficiali e di mercenari che combattono
indifferentemente l’uno contro l’altro o ciascuno
contro gli occupanti di turno ci sono anche gruppi di
fanatici islamici, agguerriti e “giovani”, che
semplicisticamente chiamiamo “talebani”. Non è molto,
perché essere fanatici non è una prerogativa degli
islamici e nemmeno dei talebani. Essere agguerriti non
è una novità per i popoli dell’Afghanistan che hanno
sempre dovuto lottare contro le invasioni ed essere
“giovani” in quella terra è una condanna piuttosto che
una benedizione: l’aspettativa di vita in Afghanistan
è di 43 anni. Se non si combatte tra i 15 e i 35 anni
vuol dire che si è già morti. E ogni “vecchio” dai 43
anni in su che sopravvive fa statisticamente abbassare
l’età di quelli che muoiono. Questo si sa, e non è
molto per fare la guerra in Afghanistan ed è
addirittura niente per fare la pace. Per questo, in
termini prettamente tecnico-militari, la domanda
sull’opportunità di incontrare i talebani, i ribelli,
gli avversari o gli stessi terroristi mi sembra un
falso problema un po’ strumentale e un po’ ipocrita.
Da militare, non solo dovrei incontrarli, ma li dovrei
conoscere perfettamente, dovrei avere qualcuno dei
miei infiltrato nelle loro file, dovrei conoscere vizi
e virtù di tutti i capi e dovrei avere ben chiaro il
loro modo di pensare e di agire. Dovrei avere patti
segreti con loro, come li avevano gli inglesi del
“Grande gioco” (e mi meraviglierei se non li avessero
ora), come li avevano i sovietici con il ribelle
Massoud, e come li avevano gli americani con i
mujaheddin prima e con i signori della guerra e della
droga poi (e mi meraviglierei se non li avessero ora).
Sempre nell’ottica di chi ammette di avere un
avversaro da comprendere prima ancora che da
combattere e da piegare mi sembra surreale anche
l’obiezione che il dialogo sia una legittimazione
dell’avversario.
 
La legittimazione fra avversari avviene nel momento in
cui si combattono e non nel momento in cui si parlano.
Il ruolo di avversario non comporta nessuna
accettazione diretta o indiretta dei rispettivi scopi
e metodi . Anzi proprio nel riconoscimento delle
reciproche posizioni sta sia la possibilità di trovare
un punto di accordo sia la definitiva chiarificazione
del disaccordo.
Ma, come dicevo, ammetto che l’ottica militare, che
implica sempre l’individuazione, la conoscenza e il
rispetto dell’avversario, può non essere la più idonea
ad interpretare le sensibilità politiche. E’
impossibile per un militare combattere contro i
fantasmi ed è insensato materializzare gli avversari
con semplici etichette, attribuendo ad essi volontà,
capacità e vulnerabilità oniriche o ipotetiche. Ma
forse la politica vuole proprio questo e allora ai
tavoli della cosiddetta “pace” non è necessario
chiamare la realtà, ma è sufficiente l’immaginazione,
la fantasia, la creatività.  Tuttavia la fantasia di
chi vuole dialogare con i Talebani deve spingersi
oltre la semplice ipotesi di realizzare un’agape
fraterna. E’ sicuro che essi vogliano sedersi ad un
tavolo di pace? E quelli che aderissero quale
rappresentatività avrebbero? Quali garanzie
offrirebbero? Quale regime appoggerebbero e quali
prerogative vorrebbero? E quali delle controparti
sarebbero disposte ad ascoltarli? A condividerne le
opinioni e ad accettarne i ragionamenti? Sedere ad un
tavolo con i Talebani o con chiunque si opponga oggi
all’occupazione straniera e al governo di Karzai senza
essere pronti ad accettare alcune delle loro
motivazioni può essere devastante. D’altro canto la
fantasia di chi non vuole dialogare con i Talebani o
con nessuno dei cosiddetti terroristi deve porsi
domande analoghe. Chi è il vero detentore della
violenza? Chi potrebbe controllarla? Karzai ha
sufficiente potere per stabilizzare il paese?
L’opzione esclusivamente militare ha prospettive di
successo a medio e lungo termine? O si deve
programmare lo sterminio di undici milioni di afgani
(la popolazione in grado di combattere) per avere
venticinque anni di stabilità? E’ evidente che una
soluzione può essere soltanto di compromesso e quasi
di azzardo. Occorre da un lato ragionare con freddezza
e pragmatismo e dall’altro tentare la sorte. Il
pragmatismo dovrebbe indurre a chiedere agli stessi
afgani e a Karzai chi invitare ad un eventuale tavolo
negoziale. L’azzardo dovrebbe indurre a dare credito
anche a chi oggi si presenta come “intrattabile” a
cominciare dai signori della droga.

Di certo bisogna uscire dall’ambiguità e rinunciare
alla sottile ipocrisia che caratterizza le polemiche
su questo argomento: si rifiuta “a priori e a
prescindere” di conoscere, incontrare e capire in un
quadro di legalità qualcuno con il quale si è poi
disposti a trattare in condizioni di ricatto.  Si
raggiunge il paradosso che, chiudendo i canali di
conoscenza e comunicazione già prima dello scontro o
dell’atto terroristico, si lasciano aperti soltanto
quelli del ricatto e si tratta concedendo esplicito
riconoscimento giuridico proprio nel momento in cui la
nefandezza degli atti ostili dovrebbe suggerire la
chiusura totale. In questi frangenti non è importante
l’oggetto del compromesso o l’ammontare del compenso.
Non importa che sia soltanto denaro (che viene poi
usato per alimentare altre nefandezze e lotte
politiche) o che sia scambio di prigionieri. Diventa
essenziale chi tratta e come. Diventa fondamentale
individuare la soglia della capitolazione: il limite
oltre il quale si è disposti a cedere tutto, persino
la dignità.
 
L’Italia di questi ultimi anni ha adottato una linea
politica schizofrenica: si è affiancata con grande
lealtà, disinteresse e generosità agli alleati nelle
guerre ma si è accontentata di conoscere
dell’avversario soltanto ciò che faceva loro comodo.
Si è poi allontanata dalla loro linea nel momento in
cui veniva sottoposta a pressioni e ricatti. La
politica interna e gli equilibri fra i poli e le
molteplici anime che compongono ciascuno di essi hanno
determinato la scelta del coinvolgimento diretto e
immediato delle massime istituzioni di governo nei
compromessi e la scelta di una soglia della
capitolazione estremamente bassa. In contrasto con
l’apparente motivazione umanitaria di voler salvare
vite umane – che avrebbe dovuto ispirare una strategia
di contatto con i ricattatori e i terroristi affidato
alle sole organizzazioni umanitarie- si è
istituzionalizzato il compromesso coinvolgendo in
maniera plateale sia i massimi organi di governo sia
le istituzioni più sensibili e riservate.
 
La soglia della capitolazione è stata abbassata a
limiti impensabili sia nei tempi sia nelle modalità
sia nella quantità e qualità del prezzo del riscatto.
La stessa spettacolarizzazione è diventata una parte
del prezzo da pagare dando così incredibile e
inaspettata visibilità agli stessi terroristi. Sono
stati mobilitati i vertici dei servizi per azioni che
avrebbero richiesto un semplice intermediario
affidabile e discreto. Alti funzionari dello Stato
sono stati trasformati in spalloni frontalieri per
consegnare nelle mani e nei conti numerati di non si
sa chi del denaro proveniente da conti pubblici o da
quelli di non si sa chi. Sono state seguite procedure
e modalità in contrasto con la semplice logica della
sicurezza, ma soprattutto in contrasto con le norme
imposte dagli stessi alleati, facendo correre rischi
tanto alti quanto ingiustificati. E’ questa
combinazione d’innalzamento del livello di
coinvolgimento istituzionale e abbassamento della
soglia di capitolazione ad averci fatto perdere la
credibilità politica internazionale che avevamo
guadagnato anche con le nostre missioni militari.
 
Ma c’è un altro elemento di schizofrenia: alla
capitolazione totale sul fronte della sorte dei civili
e dei giornalisti  (che nessuno ha obbligato a
mettersi nei guai) hanno fatto riscontro una fermezza
ed una freddezza inconsuete per le sorti e i rischi
delle forze militari inviate per motivi istituzionali.
Non ci si è fatto alcuno scrupolo di mandarle in
condizioni inadeguate ai compiti e in situazioni di
rischio sottovalutato. E quando abbiamo subito perdite
militari il cordoglio è stato composto anche da parte
della popolazione che proprio in quei momenti ha
dimostrato una eccezionale maturità non facendosi
trascinare nè dalla pubblicità nè dalle pulsioni dello
spettacolo. Alla maturità ha anche corrisposto,
purtroppo, l’indifferenza. Una vita civile sembra che
valga più di una militare. Oggi abbiamo ancora Caduti
che aspettano un riconoscimento ufficiale, abbiamo
responsabilità ancora da accertare e, per azioni nei
teatri di guerra, abbiamo più militari sotto processo
che terroristi. Abbiamo soldati che guardano a queste
vicende degli ostaggi, dei ricatti e dei riscatti con
grande partecipazione umana e immenso scetticismo
politico. E continuiamo ad avere dibattiti sulle
missioni falsati da faide interne o da agende
personali. Sono pochi a sollevare le vere questioni e
ad individuare i veri rischi che militari e civili
corrono nei teatri operativi e le conseguenze delle
politiche schizofreniche. 
 
Contrariamente a quanto affermato da molti e blasonati
osservatori, non è vero che la capitolazione nel
ricatto riguardante giornalisti o civili ha innalzato
i rischi per le forze militari. Fino a quando la vita
dei militari non avrà considerazione, ma solo
rassegnazione, e quella dei civili varrà milioni di
dollari e scambi pregiati saranno questi ultimi ad
essere gli obiettivi “remunerativi”. Oggi in
Afghanistan, a causa dello spettacolo offerto dalla
nostra capitolazione, dalla disunione e dal
protagonismo, abbiamo creato le basi per una ulteriore
perdita di credibilità internazionale ed abbiamo
innalzato i costi politici della missione e i rischi
personali dei civili. Abbiamo contratto debiti con il
presidente Karzai, ma ci siamo alienati molti settori
del suo governo, quasi non ci fossimo ancora accorti
che il presidente ha difficoltà nel controllo del suo
stesso gabinetto. Ci siamo alienati una parte del
dipartimento di stato americano e buoni settori degli
alleati, fingendo di sorprenderci delle reazioni che
avremmo dovuto considerare scontate ed essere pronti a
controbattere.
 
Ma un danno lo hanno subito anche Emergency e Gino
Strada che nelle ultime due vicende hanno speso molti
dei crediti accumulati in anni di servizio umanitario.
Oggi rischiano più di ieri e la capitolazione politica
di cui si sono fatti intermediari potrebbe contribuire
a delegittimarli nei confronti del governo afgano
attuale e degli stessi talebani, che potrebbero
considerarli non più utili o addirittura “spendibili”.
Il rischio per i nostri militari non è più elevato di
quello di ieri. Si era già alzato da tempo: da quando
il nostro paese ha rinunciato a far sentire la propria
voce in seno alle coalizioni e alle alleanze, da
quando ha preannunciato ritiri unilaterali, da quando
le nostre forze in Iraq e in Afghanistan sono state
sottoalimentate e dimenticate, da quando non sono
apparse più in sintonia con gli alleati, da quando
hanno adottato procedimenti diversi e soprattutto da
quando hanno rinunciato a conoscere e capire il
proprio “nemico”. 


	
	
		

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