Lettera aperta alle donne e agli uomini di buona volontà



Cari amici,
vi invio il testo di una LETTERA APERTA pubblicata oggi nel libro DOV'È LA
PACE SULLA TERRA.
UN SALUTO.
P. OTTAVIO RAIMONDO

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NOVITÀ
Dov’è la pace sulla terra?
Lettera aperta alle donne e agli uomini di buona volontà
pp. 160  Lire 13.550  € 7,00   Disponibile dal 12 dicembre 2001

Dov’è la pace sulla terra? è una lettera aperta che nasce in occasione del Natale 2001 e viene presentata nella Giornata Mondiale di digiuno per la pace del 14 dicembre 2001 e nella Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2002, ma va al di là di questi eventi. La firma di personaggi e responsabili di organismi vari e i numerosi documenti e articoli che la accompagnano danno alla pubblicazione un valore di grande attualità e ne fanno un prezioso strumento di riflessione sulla pace.
I documenti riportati sono:
Le implicazioni etiche della globalizzazione (Giovanni Paolo II);
Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace (Giovanni Paolo II); Ai leader del G8 (il Manifesto dell’associazionismo cattolico, Genova, 7 luglio 2001);
Globalizzazione per l’uomo (card. Dionigi Tettamanzi);
Dopo Genova, quale azione per i cattolici?(Riccardo Moro);
Una convivenza a servizio dell’uomo (card. Carlo Maria Martini);
Giustizia, responsabilità e conversione(Presidenza della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea - COMECE); La globalizzazione dal basso.Il ruolo della società civile mondiale e dell’Europa (Quarta Assemblea dell’Onu dei Popoli);
Le apocalissi dell’11 settembre (Enzo Bianchi);
Ringraziare e condividere (Angelus, 11 novembre 2001);
Digiunare e pregare per la pace (Angelus, 18 novembre 2001);
Obiettori di coscienza alla prova della guerra(Alberto Guariso);
Uno sguardo diverso. La crisi internazionale vista dal Ciad (Fraternità missionaria a N’djamena). I nomi di chi ha sottoscritto la lettera aperta si trovano elencati dopo il testo che riportiamo qui di seguito.


Lettera aperta alle donne e agli uomini di buona volontà
“DOV’È LA PACE SULLA TERRA?”

Dunque Natale. Natale 2001. Così, è iniziato il terzo millennio. Il secondo, nel suo ultimo, grande e tragico secolo, si era chiuso con grandi speranze: caduta finalmente la contrapposizione tra Oriente e Occidente, sbriciolato il muro di Berlino, dissolto l’e-quilibrio del terrore. C’eravamo lasciati alle spalle la guerra fredda. La pace sembrava iniziare un nuovo, imprevisto cammino. È vero, erano cresciuti i conflitti, a partire dalla guerra del Golfo e poi, via via, insieme agli antichi focolai (Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Israele-Palestina), i nuovi (la Cecenia, il Sudan, il Kosovo, l’Africa dei diamanti e del petro-lio, i mille focolai, vecchi e nuovi, dell’inquieta Asia: Mindanao, Molucche, Kashmir…). Eppure, nonostan-te tutto, sembravamo entrati in un’epoca nuova, fuori della minaccia atomica. Certo bisognava speri-mentare strumenti politici per regolare efficacemente i conflitti, ma si avvertiva comunque un dilatarsi nella coscienza non solo del bisogno di pace, ma di rifiuto della guerra, dei suoi armamentari bellici, una crescita della consapevolezza del valore della scelta non violenta, del suo significato sociale e politico. Basti pensare a quanto è cresciuta nel nostro Paese, ad esempio, la domanda di obiezione di coscienza, che ha espresso una dimensione formativa e di proposta personale e sociale di grande spessore. Era una domanda di pace che aveva le sue radici anche nelle intuizioni della Pacem in Terris (1963) di Giovanni XXIII e nell’itinerario di rinnova-mento proposto dal Concilio. Di fatto negli ultimi venticinque anni migliaia e migliaia di giovani nel nostro Paese hanno reso credibile e possibile la speranza di una pace insediata nella coscienza, nel modo di vivere, alimentando progetti sociali, di impegno civile, per preparare un’alternativa alla guerra, alle spese militari, fino a parlare della pos-sibilità di una difesa non basata sulla potenza e il potere delle armi. Non erano e non sono giovani ai margini della società (molti oggi sono adulti, professionisti qualificati), ma persone desiderose di collocare questa scelta di coscienza a servizio del bene comune e che, insieme a tante donne e uomini di questo Paese, hanno fatto crescere una nuova concezione della politica e del suo rapporto con l’economia e la finanza. Questa scelta, legittima e riconosciuta, non solo non è stata subìta, ma promossa come valore nella società, nelle comunità cristiane, nell’associazionismo di diversa ispirazione ideale. Molte realtà sociali, esperienze vive di impegno anche a livello internazionale, sono maturate dentro questo clima e hanno restituito a tutti una speranza di pace e non violenza possibile e reale, pur in mezzo al conflitto e all’esasperazione della violenza diffusa e strutturale. Il Giubileo del 2000 ha espresso e dilatato questa speranza di un’umanità riconciliata e pacificata, affidata ai giovani, “sentinelle che annunciano il futuro”. Lo stesso movimento articolato e plurale che è cresciuto attorno alla campagna per la remissione del debito ha portato con sé una nuova e vivace consapevolezza dell’urgenza di dare spazio e legittimità culturale e politica alla solidarietà e giustizia nel mondo, così come l’insegnamento sociale della Chiesa ha richiamato con insistenza dalla Populorum Progressio (1967) da Paolo IV in poi. Molti fermenti di riflessione, di orientamento etico, di cultura e proposte politiche, economiche e finanziarie hanno formato un vero e proprio movimento di opinione, sfociato nel documento presentato a Genova il 7 luglio. I vescovi liguri con la loro lettera in vista del G8, che ha trovato valido sostegno e conferma nell’intervento del Papa stesso, hanno consolidato un percorso di proposta e di ispirazione orientato alla pace e alla giustizia come speranza possibile. Va anche detto che tutto questo patrimonio non solo non è stato interrotto o svuotato dai terribili fatti di Genova, dove la violenza ha riconquistato uno spazio egemone, ma, dopo un comprensibile disorientamento, ha dato una risposta precisa prendendo le distanze da qualsiasi legittimazione della violenza, anche quella contenuta nel linguaggio “non disarmato”. Anzi, i fatti di Genova hanno fatto crescere in molti, e senza tentennamenti, la convinzione che la pace attivata dalla non violenza praticata e testimoniata è l’unico itinerario per ridare legittimità e senso alla proposta di forti ed epocali cambiamenti, anche di scelte economiche e politiche a livello mondiale, con la gradualità che l’ostinata e insistente pazienza pacifica, che nasce dalla condivisione con i poveri della Terra, insegna. In fondo l’attiva provocazione della non violenza riconsegnava luce e speranza a quegli obiettivi, a quell’entusiasmo di pace e giustizia che doveva e può lasciare tracce forti anche nei modelli di vita, richiamando ad un consumo responsabile e al rispetto dell’ambiente, facendo respirare il bisogno di un’etica e di una politica capace di dare il gusto della speranza e dell’attesa di un futuro più umano e giusto, a partire dagli ultimi, da coloro che sembrano abitare solo “nei sotterranei della storia”. Poi, all’improvviso, l’11 settembre. L’orrore delle torri trafitte al cuore e accartocciate su migliaia di persone. Una minaccia oscura, mostruosa, imprendibile si era fatta realtà: il terrorismo internazionale, in formato globale. Mai con così tanti morti, tutti in una volta. Il terrorismo non era stato un ospite ignoto al Novecento, ma sempre nel gioco delle grandi potenze: usato, promosso, represso. Non ce ne eravamo accorti in tanti anni: con le sue basi militari, i suoi campi di addestramento, la sua rete informatica, le sue azioni in borsa, i suoi campi di oppio, le sue industrie di morte... È cresciuta una rete parallela che ha sferrato l’attacco. Uno dei suoi rifugi in quella terra da sempre di confine, grumo di tribù eternamente in balìa del primo venuto che è l’Afghanistan. Un nemico per certi aspetti invisibile. Eppure l’abbiamo avuto sotto gli occhi per anni, nutrito dal sogno nostalgico di riunire in una sola cosa, in una nuova grande potenza, i Paesi musulmani sorti dalla disgregazione dell’impero ottomano, umiliando l’Occidente corrotto e i suoi amici. Non solo. Paradossalmente, in questi anni, il terrorismo di Bin Laden è diventato anche “cosa nostra”: i talebani sono stati sostenuti, preparati e finanziati dagli stessi Stati Uniti quando si trattava di abbattere il regime filosovietico di Kabul (così com’era avvenuto con Saddam Hussein quando doveva piegare l’Iran di Khomeini o con la guerriglia di Kabila quando si voleva spazzare via l’ormai impresentabile dittatore zairese Mobutu). A riprova del fatto che la complessità del mondo globalizzato è tale da rendere incontrollabili gli esiti della sua crisi. E il sistema ha tante e tali variabili che anche la sua reazione di fronte al cancro che ha scoperto all’interno del proprio organismo è del tutto imprevedibile.

Un nuovo tipo di guerra

Così è iniziato il terzo millennio, con un nuovo tipo di guerra, per tanti versi ignota, terribile. “Guerra globale, nuova guerra”. Siamo dinnanzi ad una innovazione mostruosa, analoga a quella che si produsse con la prima guerra mondiale, la prima guerra industriale di massa. Qui la guerra è atipica, incerta. Non uno scontro classico tra eserciti, tra popoli, tra Stati, ma un’azione tentacolare, imprevedibile, che assomma sofisticazione tecnologica e artigianalità, che si insinua in ogni meandro della convivenza civile: dalle poste ai treni, ai ponti, al tram, alla galleria. La paura arriva ad abitare in casa nostra. Non è solo lo schiantarsi spettacolare contro torri babeliche di aerei civili, ma l’antrace, la polvere bianca, la paura del vaiolo. Gli Stati occidentali si attrezzano a una sicurezza globale: aeroporti, strade, banche, chiese... Tutto può essere obiettivo di un attentato, di una vendetta, di una dimostrazione di forza. Ma qualcosa d’antico è rimasto: il sapore del sangue, sempre uguale, come il colore dell’atrocità. Nei giorni successivi alla presa di Kabul abbiamo assistito a uno spettacolo tristemente noto: massacri di talebani ad opera dell’Alleanza del Nord. Come in Ruanda, in Kosovo: l’oppresso diventa oppressore. Perché la guerra non è una partita a scacchi e anche il più “chirurgico” dei conflitti vede sempre la progressiva disumanizzazione dei contendenti. La reazione alla brutale violenza, l’orrore della tragedia diffusa in modo quasi ossessivo dai mass-media, la solidarietà dovuta e commossa alle vittime è richiesta e quasi pretesa. Ma questa risposta diventa subito e unicamente risposta armata, necessità della guerra, che non solo è invocata e legitti-mata, ma porta con sé, oltre al suo potente armamentario bellico, il suo linguaggio, che addirittura evoca potenza infinita, la sua retorica, sino a pretendere legittimazione etica. Le istanze di pace, di non violenza perdono quasi la voce, vengono irrise o accantonate, la coscienza comune sembra non lasciare spazio a dubbi a interrogativi. Esplodono l’urgenza e la necessità della guerra che viene addirittura propagandata con parate e ritualità continue. Scompare o si riduce al lumicino la voce pacifica della coscienza che rifiuta la guerra, che sceglie la non violenza. Sembra scomparire questo orizzonte culturale, si volta pagina. Anzi sembra non essere più possibile interrogarsi, trovarsi nel dubbio e parlarne, consegnare qualche inquietudine a chi ti sta attorno, come ad esempio le migliaia di giovani che hanno obiettato in questi anni e le realtà e i movimenti che hanno prodotto quell’attenzione critica ai processi di globalizzazione per un diverso equilibrio tra popoli ricchi e poveri, Nord e Sud del mondo. La guerra, con la sua potenza militare, non diventa più solo una risposta richiesta al terrorismo e localizzata, ma viene accolta e condivisa quasi come una “buona” notizia. Vi è una dilatazione cul-turale della legittimità della guerra che riduce all’angolo la scelta della non violenza, additata come strumento da irridere e fuori della realtà storica. Ma questa pagina quasi chiusa e apparentemente fuori della storia viene riaperta ancora nel Natale, dove vi è un bimbo che nasce, povero e deposto nella mangiatoia. Gesù è colui che consegnerà la propria vita alla violenza del male per riportare l’attesa di una vita piena, che vince la morte e insegna a considerare la storia piena di futuro, se si riporta dentro il suo dischiudersi l’amore per tutti, per il nemico che diventa prossimo: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che non ve ne fanno” (cfr. Lc 6,27). Il Vangelo restituisce la buona notizia che sorprende ed entusiasma: il Gesù che “da ricco che era diviene povero” (cfr. 2Cor 8,9), che segna la storia umana del perdono, che fin dalla sua nascita è costretto a fuggire da un editto che ordina una strage degli innocenti, che insegna a mostrare l’altra guancia e a “riporre la spada nel fodero” (cfr. Mt 26,52). Che senso ha tutto questo dopo l’11 settembre? E perché dobbiamo ancora pensare e interrogarci attorno alla buona notizia del Vangelo, della nascita di Gesù con l’annuncio “e pace in terra agli uomini di buona volontà”? Dopo l’11 settembre è nata la più grande coalizione mondiale contro il terrorismo. Tutti sono contro, anche quelli che lo praticano, lo sostengono, lo organizzano. Non si scopre certo nulla di nuovo. Lo si sapeva già. Eppure continuiamo a interrogarci con inquietudine. Se giustamente l’atto terroristico contro gli Stati Uniti ha scatenato tali e tante reazioni, come spiegare però l’assoluta inazione di fronte ad altri apocalittici stermini che sono in atto da decenni nei confronti del Sud del mondo? Due milioni e 700mila morti in Congo ex Zaire, oltre trent’anni di guerra civile in Angola, 24 mila morti per fame ogni giorno, un miliardo di persone che vive sotto il livello immaginabile di dignità umana, milioni di bambini violati o schiavizzati. Seicentomila bambini iracheni uccisi dall’embargo, mentre Saddam Hussein governa ancora da despota. Di fronte a questo scempio della vita umana i Paesi ricchi hanno allargato le braccia, invocando la superiorità delle leggi dell’economia, la loro inalterabilità, pena il crollo del nostro sistema. E invece questa forma esasperata di globalizzazione in cui il mercato diventa quasi sacro s’è inceppata, si è scontrata con il fondamentalismo delirante, con l’azione dei kamikaze, pronti a farsi polverizzare in nome della causa. Questa esplosione e questa evidenza dell’ingiustizia colossale che attanaglia la vita delle popolazioni povere non ci permettono di non avere dubbi. Anche chi invoca il diritto alla legittima difesa per sostenere non la necessità doverosa di una risposta, ma l’estensione in termini quan-titativi e qualitativi della guerra e la sua ineluttabile necessità, deve riflettere. Com’è possibile affermare astrattamente questo diritto che per essere tale deve poter essere legittimo per tutti e a disposizione di tutti se non esiste un’autorità sovranazionale che possa orientare le scelte? Lo si legittima solo per alcuni in modo quasi automatico? Se lo lasciamo al libero esercizio di chi è colpito, il mondo sarà travolto da questo ricorso alla guerra: bisogna imparare a convivere con la guerriglia e la rappresaglia? Il conflitto israeliano-palestinese con la sua escalation drammatica non insegna niente? Ecco perché ritorna doveroso riaprire la pagina della pace, ridare razionalità politica all’urgenza della pace e alle alternative che porta con sé e che interpellano anche la politica, la cultura, la dimensione religiosa, l’esigenza del dialogo. Ma per questo occorre ancora interrogarsi, dialogare anche nella nostra coscienza. Ogni giorno scopriamo qualcosa di nuovo. Tutto ciò ci sconcerta. Ci rende vulnerabili, incapaci di reagire e di ragionare. Di capire. I kamikaze non venivano dagli slum di qualche infernale metropoli africana, erano laureati nelle università occidentali, colti e capaci di perfetta integrazione nel nostro sistema. E la struttura finanziaria di Al Qaeda? È cresciuta e si è fortificata nelle “serre” del nostro sistema bancario, protetta dai nostri paradisi fiscali. Fra quei 1800 miliardi di dollari di operazioni finanziarie che ogni giorno circolano nel nostro pianeta, c’erano anche i soldi di Bin Laden, e per anni li abbiamo tollerati. Poi è venuto l’antrace. Portato da buste assassine che non arrivano solo da uffici postali lontani. Arrivano da Denver e da Los Angeles. Da casa nostra. Per George W. Bush l’11 settembre è stato un dramma ma anche una inquietudine cui non basta la predica sulla sicurezza. Così come lo è per i leader dei paesi occidentali che parlano agli americani e al mondo di guerra giusta, della necessità di estirpare il terribile, vigliacco nemico terrorismo e con lui “cancellare” i regimi canaglia che lo proteggono. Oggi c’è l’Afghanistan. Domani l’Iraq. Dopodomani chissà. Ci potrà essere un altro Stato complice da combattere: se ne avvertono già i segnali premonitori.
Eppure gli Stati Uniti, unica potenza rimasta, mai sono stati così fragili.
Questa fragilità è l’altro aspetto, latente finora, della caduta del muro di Berlino. Nessuno lo aveva previsto, come nessuno aveva previsto il crollo stesso del muro. A crollare è stato un sistema, a vincere nessuno. Il mondo islamico, nelle sue masse sconfinate, non può essere ostaggio del fondamentalismo. Bin Laden s’è presentato a legioni di poveri musulmani come guida e mito, sia in vita che in morte. Come può un rampollo della ricca e corrotta borghesia araba, diciassettesimo di cinquantasette figlidi un ricco mercante e del suo harem, educato dall’America all’uso delle armi e della Borsa, diven-tare la speranza di riscatto di migliaia di disperati? L’Islam moderato sembrerebbe in difficoltà, trema. Il terrorismo più crudo viene proprio da quell’Arabia Saudita alleata da sempre al fratello americano. Affari e mano tesa ai portatori di morte. Ed ecco la grande semplificazione: identificare Islam e terrorismo, parlare di una guerra dell’Occi-dente contro l’Islam, di una lotta dell’islamismo contro il cristianesimo. Il Papa ha lanciato un allarme accorato di fronte a questa trappola mortale. Eppure dopo i massacri di cristiani in Sudan e poi in Pakistan questa semplificazione prende corpo, entra nella vita di tutti, quasi si legittima. Il clima si fa pesante: il musulmano viene visto come il potenziale terrorista, il nemico che ci siamo cresciuti in casa, pronto a colpire… Si vanno erodendo gli spazi di accoglienza. Per la prima volta il nemico esprime una convergenza con interessi che sono interni allo stesso sistema globalizzato: pezzi di nazioni, lobbies di potere, multinazionali. Si tratta però di un nemico che si avvale di un’arma subdola e vile, che sfrutta la rabbia, l’i-gnoranza, l’assenza di speranza che regna nelle baraccopoli, nei campi profughi, negli slum, nelle favelas e che in questi luoghi, spesso, trova la sua manovalanza. La minaccia del terrorismo va bloccata al più presto, con tutte le forze occorre isolare e mettere in condizione di non nuocere chi semina morte e domani (come l’11 settembre) potrebbe mettere a repentaglio altre migliaia di vite innocenti.

Riequilibrare il sistema

Ma il terrorismo non si vince semplicemente con la cattura di Bin Laden, né solo col rovesciamento del regime dei talebani, né erigendo alte barriere tutt’intorno al mondo occidentale, per difenderci da nemici visibili o invisibili. Non si vince innalzando scudi, spaziali o culturali, per custodire gelosamente i nostri tesori. Questa guerra può essere vinta solo se, per estirpare il cancro, si affronta ciò che lo alimenta, cioè ancora una volta, come sempre, cominciando a capire in radice problemi troppo a lungo dimenticati, culture a lungo ignorate. Occorre cominciare a riequilibrare il pianeta, a migliorare le condizioni di vita di quattro quinti dell’umanità. A riscattare dalla schiavitù. Seriamente. Invece al terrorismo si sta rispondendo solo con la guerra, che suscita odio, il quale alimenta nuovo terrorismo, che provoca ancora guerra. Una spirale perversa che non sembra avere fine. Davvero oggi questa è la paura più grande: questo non avere fine. Si dice: una guerra lunga e difficile, durerà mesi, anzi, anni. Poi Kabul cade improvvisamente, ma il terrorismo non è eliminato, si rifugia tra i monti, in altri paesi, in altre comunità, nelle nostre città. Questo terrorismo fluido senza volto, ramificato in Oriente e in Occidente, ha generato paura, incertezza, bisogno di sicurezza, odio verso lo straniero e il diverso. E la pace dov’è? Dove riprendiamo il filo e la tessitura di quell’orizzonte di pace che è cresciuto in questi anni?

Tutto ciò accade in un mondo globale. Un mondo dove la globalizzazione ha assunto caratterizzazioni estreme. Da una parte vista come inarrestabile e dovuta. Dall’altra come demone perverso, luogo geometrico dei mali del mondo. Preferiamo una visione più articolata, critica, che guardi con realismo e sollecitudine alla storia. La caratterizzano mille sfaccettature cui sottostanno alcune grandi e urgenti questioni: lo scandalo drammatico della povertà e dei diritti di cittadinanza negati, la tutela dell’ambiente e i sentieri per uno sviluppo sostenibile, il ruolo della finanza e lo strapotere delle multinazionali, il ruolo del mercato, della politica e una democrazia mondiale ancora negata. Questioni critiche cui occorre dare un unico fondamento, un’unica priorità: la centralità della persona, il valore della vita di ogni uomo. La dignità dell’uomo e di ogni uomo è sopra e dentro l’economia, la produzione, il profitto. È sopra e dentro il mercato. Il mercato può permettere comportamenti liberi. Ma è libertà reale o apparente a seconda che il mercato venga usato, e regolato, al servizio della comunità o viceversa. Senza regole non c’è più comunità, non ci sono più diritti, non c’è più libertà. Il profitto serve per costruire il futuro, ma non lo genera automaticamente, né lo garantisce. Se vogliamo futuro, per noi e per i nostri figli, dobbiamo definire le priorità. Dobbiamo concertarle insieme. Abbiamo bisogno di una politica giusta. Per indicare gli obiettivi e concordare le regole per ottenerli. Senza politica giusta c’è solo la giungla. E nella giungla l’uomo non sopravvive. La globalizzazione è un fiume che corre. Di per sé, come dice Giovanni Paolo II, non è un bene né un male. Non possiamo fuggire la responsabilità di indicarne la direzione accettando il rischio di affrontare le contraddizioni. La cancellazione totale del debito e gli aiuti, a favore dei quali tutti lavoriamo, non risolvono da soli il problema, altrettanto grave, della democrazia e delle leadership di tanti Paesi del Sud del mondo. Come potremo evitare l’avvento del prossimo Mobutu che affama il suo Paese accumulando fortu-ne nelle banche svizzere? Rivendichiamo il diritto a non dover mangiare cibi transgenici, ma dove poniamo il limite alla ricerca e alla sperimentazione perché siano al servizio dell’uomo? Battiamoci per evitare la riduzione in schiavitù di tanti bambini che finiscono in prima linea nelle guerriglie, a cucire palloni o a raccogliere il cacao o il caffè delle multinazionali. Ma quale soluzione offriamo alla famiglia africana o asiatica che vede nei propri ragazzini l’unica risorsa in grado di integrare gli introiti insufficienti? Non basta la semplice e necessaria estensione delle avanzate norme sociali e ambientali del Nord del mondo, e dell’Europa in particolare, alle realtà del Sud per risolvere il problema del lavoro minorile, dell’equilibrio ecologico e dell’uscita dalla povertà. Battiamoci per colmare il divario tecnologico, per estendere l’accesso alla rete, ma non dimentichiamo che nel suo utilizzo si pone il problema delle regole e di chi le deve stabilire, senza le quali vi sono, come è noto, gravissimi abusi. Pensiamo alla mafia, alla pedofilia, al riciclaggio di denaro, al terrorismo appunto. Occorre fare chiarezza: se è vero che scandalizzano gli spropositati profitti di poche centinaia di società e la ricchezza di un manipolo di individui, è altrettanto vero che per ribaltare questa situazione si richiede una conversione culturale profonda e diffusa, un movimento di opinione che rivaluti le scelte collettive di giustizia e solidarietà, anche distributiva, che faccia crescere consenso a scelte di sviluppo sostenibile, di sobrietà e rinuncia per una ridistribuzione di equilibri. Ma questo richiede una coscienza praticata e testimoniata, una visibilità che è richiesta, proprio oggi, a partire da questo Natale. È in fondo il grande itinerario ideale tracciato dal Papa nella Novo Millennio Ineunte (Lettera apostolica di Giovanni Paolo II, 2001). La globalizzazione trionfante dei mercati, delle merci, delle immagini, le “magnifiche sorti e progressive” di una storia senza Stato, che si era da tempo accinta a smantellare ogni idea di responsabilità sociale dell’economia e delle istituzioni, ebbene, tutto ciò è tra le macerie delle torri americane. Un’oligarchia di felici è impossibile, impraticabile in un mondo di poveri. La globalizzazione generalizza questa consapevolezza.

Non possiamo più fingere di non vedere

Emergeva col fumo delle torri un disincanto disperato, il dolore della memoria che ripete i suoi lutti. Tutto come prima, tutto come è sempre stato, pur nelle forme più diverse, “fin dalla fondazione del mondo”. Possiamo rassegnarci a questo disperato disincanto? Accontentarci di una prossima consolante ripresa dei consumi? Dobbiamo avere il coraggio di dare una spallata alla rassegnazione.
Ci siamo dimenticati della speranza?
Ci siamo dimenticati, forse, che la forza della politica sta nella elaborazione culturale che si rap-porta alla realtà, nella produzione di idee e del confronto serrato fra chi propone progetti diversi? Ci siamo dimenticati, forse, che la politica può governare il cambiamento, riequilibrare le risorse, perseguire il bene comune?
Ci siamo dimenticati che ci riguarda? Che tocca a noi?
Se ce ne siamo dimenticati, l’11 settembre 2001, drammaticamente, ce l’ha ricordato. L’emotività legata agli avvenimenti rischia di non farci cogliere una questione importante: il 12 settembre c’erano sul tappeto gli stessi problemi del 10 settembre. Gli stessi, con la stessa urgenza e la stessa tragicità. Non possiamo più fingere di non vedere. Allora proprio per il desiderio di pace rinnoviamo il bisogno della politica. La guerra ne sancisce o ne limita l’orizzonte: la costruzione della pace, senza fare ricorso alla guerra come necessità, esalta il compito della politica. Non si può perdere questa occasione. Gli scenari che si stanno disegnando con la guerra definiscono l’urgenza di ripensare la global governance. Bisogna, è urgente, è improcrastinabile percorrere questa strada, pena l’inizio di un caos non più governabile, coniugando gli obiettivi sociali con gli strumenti e i vincoli economici e finanziari.
Ma ancora.
Promuovere l’Europa. L’Europa deve assumere un ruolo politico internazionale più forte. Il nuovo ordine mondiale, con gli Stati Uniti alleati dei nemici di sempre, Russia e Cina, ha bisogno di un’Europa dei diritti che non sia monca e non sia afona. La speranza passa anche di qui. La forza del pensiero europeo è sempre stata la capacità di fare autocritica, di fare delle proprie debolezze, tante debolezze, un laboratorio di idee. Nella sua tradizione ogni grande crisi ha sempre provocato una profonda riflessione autocritica. L’Europa può e deve alzare la testa perché la crisi che stiamo vivendo non diventi lunga, tragica e forse fatale. Istituzioni internazionali forti e democratiche. Il ventunesimo secolo si apre presentandoci la crisi dello Stato-nazione. Stanno nascendo realtà di fatto extranazionali e sovranazionali. Il passaggio dalla comunità nazionale alla società globale è già in atto. La globalizzazione taglia trasversalmente Paesi, società e popoli. Fino ad oggi ha incluso alcuni ed escluso la gran parte. Ma questa trasformazione, tra le più radicali che abbiamo conosciuto, non esige forse che si ripensino i rapporti internazionali, il concetto di democrazia, il ruolo e i criteri di rappresentanza, l’idea di maggioranza e minoranza? Occorrono strumenti adeguati, occorrono istituzioni internazionali. Ripensare e rafforzare le Nazioni Unite perché diventino reale luogo di governo democratico e trasparente, luogo di costruzione e tutela della pace, anche con operazioni di polizia internazionale. Nazioni Unite che non abbiano bisogno di ricevere premi Nobel. Cittadinanza universale. La società di massa sinora si è inquadrata in uno Stato, il quale era più o meno in grado di soddisfare i bisogni, di controllare le degenerazioni, di armonizzare i contrasti sociali che si potevano verificare al suo interno. La società planetaria, invece, non ha ancora una fisionomia, è priva di strutture e di rappresentanza. È lo Stato-nazione che continua a svolgere il ruolo di cardine e di organizzazione fondamentale. Ma il suo motore è inadeguato. Ben altra capacità di adattamento ha mostrato l’economia, o meglio i centri di potere economico. La regola di non imporre regole è fallimentare. Gli squilibri aumentano fino all’implosione o alla frammentazione in schegge incontrollabili. Il punto d’appoggio della società planetaria non può essere un’economia che si autoregoli e si autodetermini. Il punto d’appoggio è il primato della persona e dei suoi diritti inalienabili. Tocca dunque alla politica determinare le regole dell’economia. Tocca alla società civile, ai cittadini, partecipare a questa responsabilità. Tocca a tutti i cittadini del pianeta, anche a quelli che non sanno leggere e scrivere, a quelli che non hanno speranza di vivere oltre i quarant’anni, a quelli che muoiono indossando divise cucite da altre mani e da altre menti, anche a quelli che si prostituiscono per nutrire i figli…

La pace, un sogno?

Come può tutto ciò generare pace? Guardandoci intorno vediamo sprazzi di luce, come quelli colorati, sonori e festosi, tra Perugia e Assisi. Non si può dunque banalizzare, ridicolizzare la domanda di pace, quelle pagine aperte scritte e riscritte in questi anni. “Un sogno, essa può sembrare. Un sogno, diciamo, perché l’esperienza di questi ultimi anni e l’insorgenza di recenti torbide correnti di cattivi pensieri (sulla contestazione radicale ed anarchica, sulla violenza lecita e necessaria in ogni caso, sulla politica di potenza e di dominazione, sulla gara degli armamenti e la fiducia nei metodi dell’insidia e dell’inganno, sull’ineluttabilità delle prove di forza) sembrano soffocare la speranza nell’ordinamento pacifico del mondo”. A scrivere di pace, scuotendo la testa e dicendo che no, la pace non è, non può essere un sogno, non è l’uomo triste e confuso di quest’ultimo scampolo del 2001, dopo i tumulti di Genova, il sanguinoso attacco all’America e la guerra che ne è scaturita. Non è inchiostro fresco. Ad offrire queste sue riflessioni è un Papa forte e fragile al tempo stesso, Paolo VI, che così pensò e scrisse nel Messaggio per la Giornata della pace del primo gennaio 1969, 32 anni fa. Aggiunse anche: “Questa speranza [la speranza della pace, Ndr] rimane, perché deve rimanere. È la luce del progresso e della civiltà. Il mondo non può rinunciare al suo sogno di Pace universale. E proprio perché la Pace è sempre in divenire, perché è sempre incompleta, perché è sempre fragile, perché è sempre insidiata, perché è sempre difficile, noi la proclamiamo. Come un dovere. Un dovere inderogabile. Un dovere dei responsabili della sorte dei popoli. Un dovere d’ogni cittadino del mondo: perché tutti devono amare la Pace; tutti devono concorrere a produrre quella mentalità pubblica, quella coscienza comune che la rende auspicabile e possibile. La Pace dev’essere dapprima negli animi, affinché poi sia negli avvenimenti”. La pace però sembra avere lasciato la scena del mondo, proprio quando sembrava esservi entrata. Beati i pacifici… Quante volte si è ripetuta nel mondo questa disperata beatitudine? Ripetuta, ripetuta, ripetuta… Questo è ciò che può uccidere la speranza: il ripetersi dell’orrore della storia, degli uomini. Anche delle religioni quando degenerano in fondamentalismi che armano guerre “sante” e “crociate”. Ma la pace ha radici più profonde. Per noi credenti la pace parla il linguaggio di Dio, ci provoca ad incontrarlo e ospitarlo nella nostra storia, proprio perché si fa uno di noi.


Il Natale speranza della pace

Si avvicina Natale. Anzi è qui. Ma che senso ha questo Natale? Perché questo Natale? E ci si chiede: perché “quel Natale”, il primo, se la storia si è ripetuta, fino all’11 settembre, fino alle torri trafitte, se la storia uccide ogni giorno per fame? Sembra essersi ingigantito solo il dolore. La ragione, l’evidenza sembrano dire altro rispetto alla speranza, dicono di questa abitudine alla sofferenza, alla strage. Non ci sarà pace, ma altre guerre, altri scempi di corpi e di anime. Così è già stato. Nonostante quel Natale. Forse occorre aprire di più gli occhi, cambiare le lenti e la luce. Guardare più oltre. Ma soprattutto chinarsi ad ascoltare e a celebrare questo evento. Il profeta Isaia l’aveva annunciato: “Ebbene il Signore vi darà lui stesso un segno. Avverrà che la giovane incinta darà alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele [Dio con noi]” (Is 7,14); “Spunterà un nuovo germoglio: nascerà nella famiglia di Jesse, dalle sue radici, germoglierà dal suo tronco… Renderà giustizia ai poveri e difenderà i diritti degli oppressi... Lupi e agnelli vivranno insieme e in pace…” (Is 11,1.4.6). Ebbene, questo bimbo irrompe ancora nella storia, la fa sua. E allora guardare nel volto questo bimbo significa avvertire che nella storia scorre questa inquietudine e speranza di pace, affidata agli uomini che egli ama, a tutta l’umanità. Ecco perché a Natale dobbiamo riscrivere l’alfabeto della speranza, inscriverlo nel nostro cuore. È in fondo la vita che nasce, che dà il suo primo vagito, che convoca a sé, alla periferia del mondo, in quel piccolo villaggio di Betlemme tutta la pienezza della vita. Affidarsi alla speranza significa viverla e portarla con sé, nel cuore, nella vita, con gli altri, celebrarla, destinarla. Non possiamo non farci il dono, in questo Natale, di affidarci la gioia umile e nascosta che Maria e Giuseppe trovarono. Pur nella fatica e nella solitudine della ricerca dell’alloggio. Forse avvertendo già che Erode, con la sua violenza, minacciava quella vita. Si misero in fretta in cammino e in fuga verso l’Egitto con quel bimbo adorato e amato. Anche noi forse celebriamo il Natale 2001 quasi pronti “a fuggire e ripararci”, ma quel bimbo tra le braccia ci consola e ci invita a continuare a vivere nell’oggi con il cuore colmo di desideri di pace e di perdono. “Senza perdono non c’è pace”. È il messaggio di Giovanni Paolo II per la giornata della Pace del 1° gennaio 2002. Il perdono rivoluziona, scompagina, spiazza, cambia le carte. Trasforma. Il perdono è fra noi proprio grazie a quel Natale, che è Amore. Siamo chiamati al perdono, siamo chiamati all’amore, a quell’amore che genera incontro, conoscenza e scambio, sorriso, vita. Siamo chiamati alla responsabilità di orientare il nostro futuro, declinando giustizia e solidarietà. Per questo siamo chiamati alla testimonianza dentro la storia, alla politica vera. Nelle grandi istituzioni e nelle piccole cose del quotidiano. La pace si costruisce ogni giorno. Dipende anche da noi. Costretti a sperare? Noi crediamo alle Sue parole: “Beati i costruttori di pace, beati i pacifici, perché erediteranno la terra” (cfr. Mt 5,3-12). Certo, oggi il canto degli angeli nella notte di Natale sembra un grido: pace in terra agli uomini di buona volontà. È il nostro grido, tanto più vero, quanto più operoso, concreto, capace di grandi e piccoli gesti perché nel mondo un desiderio di pace attraversi nel profondo gli uomini, le donne, i popoli, le nazioni. La pace è, infatti, levatrice della giustizia. Shalom è la pienezza della vita, del ben stare, del ben amare, della libertà dal bisogno e dall’oppressione. Non un altro nome della pace quello della giustizia, ma lo stesso nome, il suo cono d’ombra. Testimoniare la novità e il paradosso della pace. Nonostante la difficoltà e l’apparente chiusura di questa pagina nella storia dei nostri giorni. Vivere il Natale così, questo Natale, riaprendo la pagina della pace e riprendendo a scriverla ogni giorno con tutti coloro che sono inquieti e ne sono assetati, sulle nostre strade, nel mondo intero. “Non avere paura, città di Sion, non ti scoraggiare! Il Signore tuo Dio è con te, è forte e ti salva! Esulta di gioia per te, nel suo amore ti dà nuova vita. Egli si rallegra per te, con canti di gioia, come nei giorni di festa” (cfr. Sof 3,16-18).
Milano, 3 dicembre 2001
GIOVANNI BIANCHI, parlamentare
PAOLA BRAMBILLA, presidente WWF Lombardia
MICHELE CANDOTTI, segretario WWF Lombardia
FRANCESCO CAVALLI, assessore comunale Riccione
GIANFRANCO CENCI, consigliere provinciale Rimini
26 ALBERTO CHIARA, inviato di “Famiglia Cristiana”
DON VIRGINIO COLMEGNA, sacerdote
GIOVANNI COLOMBO, presidente Associazione Rosa Bianca
PASQUALE D’ALESSIO, Comunità Aperta - Premio Ilaria Alpi
PAOLO DANUVOLA, consigliere regionale Lombardia
BEPPE DEL COLLE, direttore de “Il Nostro Tempo”, editorialista di
“Famiglia Cristiana”
DAVIDE DEMICHELIS, giornalista
GEROLAMO FAZZINI, condirettore di “Mondo e missione”
ANGELO FERRARI, giornalista dell’Agenzia Giornalistica Italia
P. PAOLO FOGLIZZO SJ, di “Aggiornamenti Sociali”
GUIDO FORMIGONI, presidente Associazione Città dell’Uomo
GIUSEPPE FRANGI, direttore di “Vita”
EFREM FUMAGALLI, responsabile Comunicazione COOPI
FLAVIO GIACOSA, presidente Centro Turistico Giovanile Torino
MIRIAM GIOVANZANA, giornalista
LUCIANO GUALZETTI, presidente Fondazione S. Carlo Torino
ALBERTO GUARISO, avvocato
PAOLO LAMBRUSCHI, giornalista
EUGENIA MONTAGNINI, direttrice Centro Sociale Ambrosiano
RICCARDO MORO, economista
P. OTTAVIO RAIMONDO, direttore Editrice Missionaria Italiana
LUCIANO SCALETTARI, inviato di “Famiglia cristiana”
GUIDO TALLONE, operatore sociale e giornalista
MARIA GRAZIA TANARA, pubblicista
BENEDETTA VITETTA, giornalista
SABRINA ZANETTI, presidente ACLI Rimini