reportage Thailandia su Altreconomia



Spero farvi cosa gradita inviandovi il reportage di

Ersilia Monti del Coordinamento Nord Sud del Mondo  che ha partecipato,   per la  campagna Abiti puliti,    ad un congresso internazionale in Thailandia sul fenomeno dello sfruttamento dei profughi e del loro impegno  per il riconoscimento di un salario dignitoso.

L’interessante articolo di Ersilia,  che vi allego  e che metto in calce,  è stato pubblicato sulla rivista  Altreconomia di febbraio.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Per per il CNSM

Amalia Navoni

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a mae sot, lungo il confine, sono 300mila i profughi impiegati nei laboratori tessili

diritti cuciti addosso

In Thailandia associazioni di migranti birmani in fuga dalla dittatura

lavorano per il riconoscimento di un salario dignitoso --- eRSILIA MONTI

MAE SOT, THAILANDI A - Il fiume

Moei nella luce del tramonto ,

a poche centinaia di metri dal Ponte dell’Amicizia che a   Mae Sot unisce la Thailandia  alla Birmania, è uno scorcio

d’Asia di struggente bellezza. Le case, cresciute in poetico disordine a filo d’acqua sulla sponda birmana, sembrano

rimandare a un altrove dello spirito. Ma la realtà deve esersilia    sere ben diversa se ogni anno centinaia di birmani passano

quel confine a guado o su imbarcazioni in spola incessante fra una riva e l’altra. Nessun immigrato descriverà mai il

fiume come un ostacolo, la traversata dura pochi minuti e procede senza impedimenti.

Il pericolo è ciò che si è lasciato alle spalle, e il peggio deve ancora venire. “Ho camminato per un giorno e una notte intera, seguendo la

guida e badando a dove mettevo i piedi sul terreno minato -racconta Ying Horm, di etnia shan, oggi conduttrice

radiofonica per la comunità birmana a Chiang Mai-. Rimanere al villaggio non era possibile: hanno aperto due

voragini per estrarre pietre preziose, scavano per un gasdotto e da anni ci tagliano le foreste”. Ying Horm è una

dei 3 milioni di birmani che dal 1988, anno delle sollevazioni popolari soffocate nel sangue dal regime militare,

hanno varcato i confini in cerca di protezione dal lavoro forzato, dai conflitti armati, e dalla devastazione delle loro

terre, per finire dalla padella nella brace dei voraci vicini, Thailandia e Cina in testa, affamati di manodopera a basso

costo, ancor minore della propria. A Ruili, città cinese di confine cresciuta a dismisura sul commercio di gemme e

legname birmano, 100mila sfollati sono impegnati nella lavorazione dei preziosi, della pietra arenaria e del legno

fossile, materie prime estratte in Birmania contro la volontà delle popolazioni locali.

In Thailandia, Paese che ospita un milione e mezzo di birmani, i lavoratori migranti sono occupati senza diritti

prevalentemente nell’edilizia (donne comprese), nei lavori agricoli e domestici, nella lavorazione del pesce,

nei ristoranti, e nella prostituzione (40mila donne con punte nelle città di frontiera).

Ma è il settore delle confezioni di abbigliamento per l’esportazione ad avere tratto il massimo vantaggio da

una manodopera numerosa e derelitta. A Mae Sot, lungo un confine punteggiato da campi profughi che ospitano

170mila rifugiati, è sorto un polo industriale tessile, favorito nei primi anni Novanta da incentivi alle imprese, che

occupa in 300 fabbriche e 200 laboratori fino a 300mila immigrati birmani irregolari, in stragrande maggioranza

donne, su un milione di addetti che il settore conta nel Paese.

I racconti dei migranti birmani che abbiamo incontrato a Chiang Mai e a Mae Sot dipingono un quadro

di sofferenze e di speranze infrante. “Abbiamo vissuto a lungo nella foresta, al confine, senza cibo -racconta Sai

Sark, assistente alle cause le-

 

3 euro al giorno, è il salario massimo corrisposto in thailandia agl i

immigrat i birmani impiegat i nel settore tessile: è inferiore a quello minimo

 

gali della Migrant assistance programme (Map) Foundation di Chiang Mai-: pensavamo solo a fuggire, non sapevamo

che servissero i documenti per spostarsi in un altro Paese”.

Trovare un lavoro, anche da irregolari, non è difficile; tenere saldo il timone della propria vita in un mare fatto di debiti crescenti che il salario

non ripaga, di minacce ed estorsioni, è un’esigenza, e si impara strada facendo: “Quando si esce dalla fabbrica per fare la spesa -racconta una

delle operaie tessili incontrate al Centro di aggregazione di Map a Mae Sot, nel loro unico giorno libero del mese bisogna sempre avere con sé

almeno 230 baht, 30 per il biglietto dell’autobus e le spese, 100 per pagare il poliziotto che forse ti fermerà al mercato e 100 per pagare quello

che troverai al ritorno. Non conviene reagire, perché se ti mettono in stato di fermo, anche se hai i documenti ma li ha trattenuti il padrone, alla

fine ne pagherai 3mila”. Non è strano che il giorno libero coincida sempre con quello di paga. Sì, ma quale paga? Il salario e le ore che ci

vogliono per racimolarlo sono in testa alle preoccupazione dei lavoratori. A Mae Sot il salario minimo è di 226 baht al giorno (5 euro e mezzo), e

per quanto il governo abbia annunciato un innalzamento per tutto il Paese a 300 baht (ancora ben lungi da un livello dignitoso) nessun datore di

lavoro corrisponde il minimo.

I lavoratori che abbiamo intervistato parlano di retribuzioni pari a 50-120 baht e straordinari obbligatori, a un terzo della tariffa dovuta, con

turni di 13-16 ore, e sempre corrisposti con 15-20 giorni di ritardo. Se a ciò si aggiunge che ai migranti è vietato costituire sindacati, conseguire

una licenza di guida e, in alcune province, formare assembramenti pacifici o possedere un cellulare, ce n’è quanto basta per disperarsi.

La comunità birmana ha saputo resistere tessendo una formidabile rete di mutua assistenza, grazie al lavoro di organizzazioni dal basso come

Map, Yaung Chi Oo Workers’ Association (Ycowa) e Burmese Women’s Union (Bwu), che provvedono incessantemente all’assistenza legale, sanitaria

e formativa.

Il fiore all’occhiello è la radio comunitaria che dal 2009 trasmette su due frequenze nelle lingue più parlate dai migranti birmani, con programmi

a microfono aperto, diffondendo informazioni utili per migliorare la loro vita. “Quando scatta una ‘sanatoria’ -racconta Naw Kham,

responsabile delle frequenze di Mae Sot- l’annuncio viene dato attraverso i canali radiotelevisivi nazionali, ma molti nostri connazionali non

conoscono il thailandese. Il compito della radio è informarli nella loro lingua e in modo preciso, e non solo attraverso l’etere, ma con opuscoli

multilingue distribuiti fra le comunità con l’aiuto di volontari”. Ogni mese la radio promuove incontri di discussione fuori dai luoghi

di lavoro, nelle aree industriali, agricole o nei cantieri, per sondare il gradimento dei programmi e raccogliere suggerimenti o richieste. “Per lavorare

in questa radio, occorre sapere molte cose -osserva la giovane dj War War Naing- e non solo in tema di lavoro e di salute, ma anche sui cantanti

e le canzoni più in voga in Birmania”.         Si crea consapevolezza anche attraverso la lettura, è ciò che fanno le veterane del Bwu, organizzazione

nata dalle donne fuoriuscite nel 1988 e impegnate in un processo lento ma implacabile di emancipazione femminile in città e nei campi profughi sul confine.

Ci accolgono con aria dimessa: “Quest’anno abbiamo dovuto chiudere il centro di accoglienza per mancanza di fondi -dicono Naw Mu Naw

e Zar Zar-: abbiamo ospitato fino a cento donne alla volta, maltrattate, disoccupate o in attesa di partorire; offrivamo corsi di cucito, ma anche

luoghi di sosta per le operaie esauste dai lunghi turni di lavoro”.

Continuano a organizzare la biblioteca mobile, con 14 punti di prestito itineranti gestiti da volontari in motorino fuori dalle fabbriche o nei luoghi di aggregazione.

Le medicine e le iniezioni che praticavano al centro ora le portano a domicilio, per il resto c’è il Centro medico della dottoressa Cynthia Maung, celebre medico scalzo

e lei stessa rifugiata politica di etnia karen, che dal 1989 cura ogni anno gratuitamente 140mila persone escluse dall’assistenza sanitaria, con l’aiuto di 700 persone fra medici,

infermieri e volontari.

L’impegno ultradecennale di Map e Ycowa -profuso nel sostegno legale e organizzativo dei lavoratori di Mae Sotha portato nel 2012 a un esito

quasi insperato: la M-Apparel è la prima fabbrica della città ad avere riconosciuto il salario minimo ai migranti. “Il nostro lavoro non è facile –dice Jackie Pollock, direttrice di Map-: in Birmania formare sindacati era vietato dal 1964 e il lavoro forzato sistematico; i rifugiati arrivano con nessuna esperienza sindacale e con la convinzione che esporsi

per i propri diritti avrà conseguenze gravissime”.       Negli ultimi anni, tuttavia, le proteste dei lavoratori e le vertenze, specie per salari non pagati e

licenziamenti, sono aumentate in modo considerevole: dal 2001 al 2012 Ycowa e Map hanno assistito 2.083 lavoratori in 157 casi legali riuscendo

a ottenere indennizzi per decine di milioni di baht.

FEBBRAIO 2013       WWW.ALTRECONOMIA.IT

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Allegato Rimosso