il pianeta delle periferie bidonvillizzate



da Contropiano Anno 14 N° 4(2006)


Il pianeta degli slums
Una conversazione con Mike Davis *

Per la prima volta nella storia, tra breve la maggioranza della popolazione mondiale vivrà nelle città. Ma grandi porzioni di questa popolazione urbana vivono in condizioni di assoluta povertà. Mike Davis, scrittore e attivista sociale, descrive questa tendenza nel suo nuovo libro Planet of Slums. Ha parlato con Lee Sustar delle conseguenze economiche, sociali, politiche ed ambientali della marea crescente della povertà urbana. È una nuova composizione di classe che non somiglia affatto alla moltitudine ma, piuttosto, ad proletariato metropolitano

La questione della crescita delle megaslum è stato escluso dal panorama del dibattito politico corrente. Perché?
Devo confessare di essere stato sorpreso dal pressoché totale silenzio da cui è stata salutata la pubblicazione di uno studio fondamentale delle Nazioni Unite – “La sfida degli slum” – tre anni fa. Oltre ad un panorama della povertà urbana su scala globale, i ricercatori dell’Onu ci hanno fornito un bilancio complessivo dei danni prodotti da trent’anni di aggiustamenti strutturali, politica del debito e privatizzazioni. Immagino che questo sia proprio il genere di notizie che i tifosi della Banca mondiale e, più in generale, del “Washington consensus” non vogliono sentire.
L’eccezione, ovviamente, è rappresentata dal Pentagono. Il disinteresse degli esperti del National Security Council verso i ghetti urbani contrasta con l’avido interesse mostrato dai più pragmatici strateghi militari dell’Army War College e del Warfighting Laboratory dei Marines.
Gli strateghi militari sono ben coscienti del fatto che, mentre le loro bombe intelligenti sono estremamente efficienti contro le città gerarchiche quali Belgrado, con le loro infrastrutture centralizzate e i distretti economici, le armi super-tecnologiche americane possono poco per il controllo degli agglomerati di povertà sottosviluppati, come a Mogadiscio in Somalia e Sadr City a Bagdad.
Le grandi baraccopoli in crescita caotica nei sobborghi delle città del terzo mondo neutralizzano buona parte dell’arsenale barocco di Washington…
L’analisi attenta di questo problema ha condotto gli strateghi militari ad una visione geopolitica del mondo diversa da quella del resto dell’amministrazione Bush. Invece che su una cospirazione terrorista mondiale o su un asse del male, gli strateghi militari si focalizzano sulla supremazia del territorio, le baraccopoli stesse. Il nemico, che il Pentagono concepisce come un insieme eclettico di potenziali oppositori, dalle gang di strada ai gruppi radicali alle milizie etniche, è meno importante che il labirinto in cui si nasconde.
Nel tuo libro tracci una distinzione tra l’urbanizzazione “d’attrazione” prodotta dall’industrializzazione del XIX e XX sec., e quella “di espulsione” portata dai programmi di aggiustamento strutturale nel terzo mondo odierno.
Nel XIX sec., ovviamente, la teoria sociale classica ha messo l’accento sulle città industriali come Manchester, Berlino e Chicago per individuarvi un modello del futuro. Invece, le città cinesi, prodotto della maggiore rivoluzione urbano-industriale della storia, rientra ancora nello schema immaginato da Marx e Weber. Molte città del terzo mondo hanno più in comune con la Dublino vittoriana o con Napoli, con le loro gigantesche concentrazioni di povertà e deindustrializzazione. La crescita urbana si è sganciata dall’industrializzazione, finanche dallo sviluppo economico per se.
I fattori di “espulsione” allontanano la popolazione dalle campagne in maniera indipendente dai fattori di “attrazione” quali l’offerta di lavoro nelle città assicurando la continuità dell’esplosione della popolazione urbana. Al di fuori della Cina, inoltre, le ex metropoli industriali del Sud, tra cui Mombai, Johannesburg, Sao Paolo e Buenos Aires, hanno sofferto massicce deindustrializzazioni nel corso degli ultimi venti anni.
È per questo che la teoria della “modernizzazione” è crollata…
Ciò ha conseguenze importanti sia per la teoria sia per l’azione sociale rivoluzionaria. In nessuna parte del canone marxista, neppure nelle pagine visionarie dei Grundisse, si può trovare l’anticipazione del proletariato informale odierno: una classe sociale globale costituita da almeno due miliardi di abitanti delle città, sconnessi radicalmente e permanentemente dall’economia formale mondiale.
Quali sono le caratteristiche comuni a quanto sta accadendo in Cina e, all’altro estremo in Africa, con l’urbanizzazione?
Prima di tutto, è importante sconfessare la credenza che le città siano cresciute in maniera lineare o unidirezionale. Le megabaraccopoli di oggi in molti casi sono il risultato non della lenta e incrementale accumulazione di povertà, ma del “big bang” prodotto dalle politiche del debito e degli aggiustamenti strutturali della fine degli anni 70 e degli anni 80. Imponenti fenomeni di esodo dalle campagne si sono trovati di fronte ad una riduzione degli investimenti sociali nelle infrastrutture urbane e nei servizi pubblici.
I nuovi poveri urbani sono stati lasciati da soli ad improvvisarsi un rifugio e delle strategie di sopravvivenza. La loro ingegnosità è di fatto riuscita a spostare le montagne, ma solo per un periodo di tempo limitato.
Oggi, in tutto il mondo, è del tutto chiaro che la famosa frontiera tra la terra che può essere liberamente o quasi liberamente occupata si è chiusa, e lo spazio dell’economia informale è tragicamente sovrappopolato, con troppi poveri che competono in nicchie di sopravvivenza. Soprattutto in Africa questo “miracolo” di urbanizzazione autosostenuta rassomiglia oggi più alla lotta per la sopravvivenza in uno squallido campo di concentramento che a qualunque visione romanticizzata di eroici occupanti e micro-imprenditori.
La Cina, ovviamente, è una parziale eccezione, giacché lo Stato continua a costruire milioni di alloggi decenti. Eppure l’offerta è in grande ritardo sulla domanda e la disuguaglianza è cresciuta di più nelle aree urbane cinesi che in qualunque altro luogo nell’ultimo decennio.
Le baraccopoli, per esempio, hanno fatto la loro ricomparsa in grande stile. La popolazione tradizionale della città è stata espulsa dai suoi vecchi quartieri, soprattutto a Pechino, per fare spazio a megaprogetti con finanziamenti stranieri e ad alloggi di lusso. Nel frattempo, i migranti rurali – una gigantesca classe peri-metropolitana di almeno cento milioni di persone – si ammassa in sobborghi squallidi alla periferia delle città. Sono, assieme alle povere famiglie contadine, le maggiori vittime della trasformazione capitalistica della Cina.
Hai scritto a proposito degli immensi costi ambientali di queste tendenze.
In astratto, le città sono la soluzione alla crisi ambientale mondiale. Da Patrick Geddes a Jane Jacobs, i teorici urbanistici hanno correttamente sottolineato che la città, e non l’idealizzata piccola fattoria, è la nostra salvezza: il sistema potenzialmente più efficiente per riciclare l’energia e la materia tra noi e Gaia. Inoltre, solo la città – attraverso la creazione di una ricchezza democratica di spazio pubblico e lussi in comune – può far quadrare il cerchio della sostenibilità ambientale e un alto standard di vita globale.
Però l’urbanizzazione contemporanea, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri, sta paradossalmente distruggendo le precondizioni stesse di ciò che è propriamente urbano.
Negli Usa, l’impronta ecologica sempre più grande dei quartieri benestanti – quelli dedicati allo stile di vita a base di McMansion1 e di Hummer2 – fa apparire le Levittowns3 degli anni ‘50 delle vere e proprie utopie verdi.
Nei paesi poveri, nel frattempo, la crescita dell’urbanizzazione informale supera di gran lunga le possibilità dei consorzi idrici e degli spazi aperti che costituiscono le città, infrastrutture ambientali fondamentali. I bacini vengono prosciugati o compromessi, concimi e sostanze tossiche contaminano ogni aspetto della vita quotidiana, e i poveri, alla ricerca continua di un rifugio, scommettono con i disastri nel costruire lungo versanti instabili o le rive in disfacimento di fiumi inquinati (in India centinaia di migliaia di persone dormono a pochi metri dai binari delle ferrovie).
La povertà amplifica continuamente i rischi urbani e, in combinazione con i cambiamenti climatici, promette un mondo in cui il progresso incrementale verso gli obiettivi dello sviluppo e della salute pubblica saranno spazzati via dai costi sempre maggiori delle inondazioni, dei terremoti, delle frane e delle epidemie.

In che modo le baraccopoli dei paesi occidentali – compresi gli Usa – rientrano in questo quadro?
Il terzo mondo urbano è tra noi. Oltre alla fatiscenza crescente dei quartieri centrali e delle vecchie periferie, negli USA sud-occidentali stanno spuntando come funghi insediamenti informali che sono praticamente indistinguibili da quelli attorno ad una qualunque città dell’America Latina.
Ad un palmo dalle case da milioni di dollari di Palm Springs, in California, per esempio, sul territorio della riserva indiana, si trovano slum che ospitano migliaia di agricoltori locali. Le colonie povere di Juarez si rispecchiano oggi nei loro doppioni al confine tra Texas ed il Rio Bravo.
Anche l’Europa ha i suoi slum da terzo mondo, soprattutto nei dintorni di città come Lisbona e Napoli. Il peggior slum europeo è probabilmente la “Cambogia”, a Sofia in Bulgaria, dove 35 mila rom vivono come i Dalit [gli intoccabili, ndt] in India.
Ma il quadro più scioccante è fornito dalla ex Unione Sovietica, dove le baraccopoli hanno proliferato più velocemente dei milionari. Dal 1989 molti dei servizi urbani indispensabili (come il riscaldamento a livello cittadino), così come di quelli ricreativi e culturali (tutti legati alle fabbriche) sono crollati, lasciando gli anziani a morire di freddo in inverno.
A Mosca, inoltre, immense popolazioni di squatter [occupatori abusivi di costruzioni in disuso, ndt], soprattutto immigrati privi dei documenti o minoranze nazionali, occupano le fabbriche abbandonate e costruzioni residenziali, ammazzandosi di lavoro nell’economia degli sweatshop che è l’orgoglio del nuovo ordine. Gorky deve star rigirandosi nella tomba.
Alcuni considerano i tuoi libri come la prova di una nuova classe – descritta da Michael Hardt e Toni Negri come la moltitudine – che ha superato, se non sussunto la classe operaia.

Non sono affatto d’accordo. Rivisitiamo per un attimo il Manifesto Comunista. Marx ed Engels sostenevano che il proletariato industriale fosse una classe rivoluzionaria per due ragioni fondamentali. Primo perché aveva una natura radicale – non aveva cioè interesse alcuno al mantenimento della proprietà privata su larga scale. E secondo perché la sua collocazione nella produzione industriale moderna le conferiva capacità straordinarie – che mai un gruppo subalterno aveva posseduto in precedenza – per l’auto-organizzazione, in campo scientifico e in campo culturale.
Anche il proletariato informale di oggi possiede questa natura radicale, ma è stato espulso dalla produzione sociale (almeno, in senso marxistico) e, in molti casi, dalla cultura tradizione e dalla solidarietà delle città. Costretto nei sobborghi fatiscenti, tagliati dal lavoro formale ed esiliati dal tradizionale spazio pubblico, questo proletariato va alla ricerca della fonte dell’unità e del potere sociale.
Inoltre, ciò che si vede in tutto il mondo, oggi, è un vasto processo di sperimentazione, in cui i giovani che vivono negli slum – a volte in alleanza con la classe lavoratrice tradizionale, ma spesso no – cercano soluzioni radicali alla loro perifericità.
Dove esiste una qualche trasmissione o ereditarietà della tradizione della classe lavoratrice – come, diciamo, a El Alto, la versione slum di La Paz, a maggioranza Quechua, dove gli ex minatori si mettono spesso alla testa delle mobilitazioni – il risultato può essere la reinvenzione della sinistra.
La popolazione urbana cittadini sta scoprendo che gli dei del caos stanno dalla loro parte: che possono bloccare, spegnere ed assediare l’economia della città della classe media formale. La mobilitazione creativa e il sabotaggio con tecniche di guerriglia delle varie reti di servizi e forniture possono compensare la perdita di forza nel processo produttivo.
Ma troppo spesso l’economia informale va mano nella mano della lotta darwiniana che conduce alla divisione dei poveri e al controllo delle slum da parte dei boss e dagli suprematisti etnici…
Un esempio tragicamente famoso è Bombay. Un quarto di secolo fa, quando l’industria tessile era ancora molto forte, Bombay era celebrata per la sua forte sinistra e per i movimenti sindacali. Le differenze di setta (hindù contro musulmani o maratha contro tamil) erano in gran parte subordinate alla solidarietà sindacale. Ma dopo la chiusura delle fabbriche, le slum sono state colonizzate dalla politica di setta – in particolare dal fanatico Shiv Sena, il partito maratha e hindù. Il risultato sono stati scontri, massacri e una divisione all’apparenza insanabile.
Credo, perciò, che le forze centrifughe all’interno della classe dei lavoratori informali sono nel complesso maggiori di quelle della competizione sul mercato del lavoro all’interno della classe tradizionale dei lavoratori industriali.
Ma l’intera storia del movimento dei lavoratori nel corso degli ultimi due secoli non è stata altro che il superamento di divisioni ipoteticamente insuperabili. Nel frattempo non serve a molto – come fanno Hardt e Negri – giocare a fare i prestigiatori con i concetti metafisici.
Il metodo di Marx consisteva nel cominciare con lo studio di un caso concreto prima di giungere ad un qualunque concetto generale, e chiaramente, ciò che occorre oggi è lo studio di casi concreti di politica urbana nella sua grande diversità – dai nuovi movimenti sociali rivoluzionari di Caracas agli inferni della concorrenza settaria a Karachi o Bagdad.
Ma sarebbe errato intraprendere questa ricerca comparativa senza riconoscere che molti conflitti apparentemente intrecciati e molte identità sono probabilmente solo transitori.
La “guerra di civiltà”, che i neoimperialisti credono rappresenti la missione dell’uomo bianco oggigiorno, è ovviamente solo una illusione autoconsolatoria. Il vero nocciolo della storia contemporanea restano le contraddizioni strutturali di un capitalismo globale che non sa creare lavoro, alloggi o il futuro per la popolazione urbana terrestre in espansione.
NOTE:
* (da Socialist Workers del 9 Maggio 2006, postato su Indymedia)
1 McMansion è un’espressione del gergo architettonico che è entrata in uso negli Usa negli anni 80. È un termine peggiorativo che descrive uno specifico stile di costruzioni che, come il nome suggerisce, sono a metà strada tra una magione e i McDonald ormai presenti ovunque. Da Wikipedia. [NdT]
2 Nota marca di veicoli speciali, produttrice di uno dei SUV di maggior successo. [NdT]
3 Levittown è una zona di Long Island, il quartiere più ricco di New York, che prende il nome dal suo architetto, William Levitt, che la realizzò come una comunità suburbana pianificata tra il 1947 ed il 1951, il primo quartiere residenziale prodotto in serie che è diventato un archetipo per tutto il paese. Da WikipediA. [NdT]