beni comuni contro merci



da Eddyburg
 
Il nostro pianeta > Invertire la rotta

Una questione cruciale
Data di pubblicazione: 05.06.2011

Intervista a Giovanna Ricoveri a proposito del suo libro “Beni comuni vs. Merci”, dalla rivista quadrimestrale Slow Food, marzo 2011

Ci sono argomenti talmente vasti e che pervadono tutta una serie di meditazioni, riflessioni, problemi e risoluzioni dei medesimi che può succedere di dimenticarsene, di non dar loro il dovuto peso e di non considerarli centrali nel dibattito economico, politico, sociologico e giuridico. I beni comuni sono l’esempio perfetto. È vero, si parla del problema dell’acqua, della tutela della biodiversità, del diritto alla conoscenza, ma di solito, quando affrontiamo questi temi, consideriamo sempre un esempio concreto: la raccolta firme per il referendum sull’acqua o le discussioni che negli anni passati hanno riguardato l’utilizzo di sistemi operativi open source come Linux, ad esempio. Il discorso cambia quando si cerca di fare un passo in più e si vuole riflettere in generale sui beni comuni e sui problemi di gestione, accesso e utilizzo legati a questi.

Intanto, ci pare utile dare una definizione concisa di ciò che intendiamo per beni comuni, e cioè «beni che sono proprietà di una comunità e dei quali la comunità può disporre liberamente» (i commons della tradizione anglosassone). Negli ultimi anni, inoltre, si sono precisate due categorie che aiutano a delineare le problematiche legate ai beni comuni e al loro utilizzo: l’escludibilità (non si può escludere un individuo dalla fruizione del bene), e la sottraibilità (il consumo da parte di un attore può ridurre le possibilità di consumo degli altri). Quindi, le risorse naturali avranno un’elevata sottraibilità, mentre la conoscenza come bene comune è dotata di bassa sottraibilità.

Consideriamo l’acqua, ma anche la conoscenza quale bene immateriale, e l’accesso alla medesima. Wikipedia, ad esempio, è un agglomerato democratico di conoscenza, perché partecipativo e gratuito, e la consultazione da parte di un soggetto non limita le possibilità di un altro. Il problema sorge nel momento in cui una persona non abbia accesso alla rete per cause fisiche (ad esempio se non è raggiunto dalla adsl) o per cause politiche (in Cina la censura non permette una libera consultazione di internet). Basta alzare di poco il tiro per intravedere all’orizzonte spinose questioni giuridico-economiche.

Inoltre, analizzando le pubblicazioni dedicate a questo problema si fa una scoperta interessante: sono pochi i testi di riferimento che fino a una ventina di anni fa si sono occupati della questione. Si può citare l’articolo del 1911 di Katherine Coman,Some Unsettled Problems of Irrigation, pubblicato sull’American Economic Review, a cui si fa risalire l’origine del dibattito sui beni comuni; lo seguì, a più di cinquant’anni di distanza (1968), l’articolo The Tragedy of Commons del biologo Garrett Hardin, che ebbe un’enorme eco (e grandi responsabilità ideologiche), in cui per la prima volta emerse il dilemma tra l’interesse personale e l’utilità collettiva. Interessante, poi, che nel 2009 il Nobel per l’economia sia andato alla statunitense Elinor Ostrom, proprio per il lavoro svolto sui beni comuni. Il suo Governing the Commons (Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006) del 1990 affronta i due approcci che negli ultimi anni hanno maggiormente influenzato il dibattito: la privatizzazione contro la gestione statale delle risorse, evidenziando una terza via legata all’autogoverno.

Di queste tematiche si è parlato durante una conferenza tenutasi all’ultimo Salone del Gusto, che ha visto tra i relatori Stefano Zamagni (economista), Franco Cassano (sociologo) e Stefano Rodotà (giurista, ex Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali); di questo argomento si è anche occupata Giovanna Ricoveri, (economista di formazione, si interessa di ecologia politica da più di vent’anni), autrice di un agile e appassionante libro dal titolo Beni Comuni vs merci, uscito per Jaca Book lo scorso settembre. Con lei abbiamo cercato di farci un’idea un po’ più chiara di questo vastissimo argomento.

Dottoressa Ricoveri, innanzitutto, proviamo a dare un inquadramento giuridico ai beni comuni? L’articolo 42 della nostra Costituzione considera unicamente la proprietà pubblica e quella privata. Servirebbe, forse, un articolo 42 e mezzo dedicato ai beni comuni.

«La Costituzione italiana del 1948 è molto avanzata, ma la consapevolezza che la proprietà comune può in certi casi essere più adeguata di quella pubblica e di quella privata perché è “liquida” o flessibile non era ancora emersa con la forza che ha assunto con la globalizzazione. Ciononostante, la nostra Costituzione ne riconosce in parte il fondamento all’art. 43, dove afferma: «A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale». Il limite della nostra Costituzione, da questo punto di vista, non è tanto il mancato riconoscimento della proprietà comune, ma il mancato riconoscimento della natura come soggetto di diritti. Per dare un inquadramento giuridico ai beni comuni legati alle risorse naturali (acqua, aria, terra e fuoco-energia) serve infatti recuperare il concetto di “sacralità” della natura e il rispetto dell’ecosistema che si sono persi con la Rivoluzione industriale e che resistono invece in alcune aree del Sud del mondo».

A ben guardare, il tema dei beni comuni e della loro gestione si intreccia con la storia dell’umanità e ha a che fare da sempre con il potere, dal “dispotismo idraulico” dei regni dell’Asia e ddel Medio Oriente, alle enclosures messe in atto in Inghilterra a partire dal XV secolo...

«Si, è vero. La storia dell’umanità è fortemente segnata dall’uso del potere per espropriare le masse e appropriarsi delle risorse naturali, in tutte le parti del mondo e in tutte le epoche. La particolare attenzione che nel mio libro dedico alla enclosure delle terre comuni inglesi nel Cinquecento e Seicento è dovuta al fatto che la Rivoluzione industriale ha segnato la storia e il destino del mondo intero. Mi pare utile sottolineare che lo sfruttamento delle persone e della natura viene normalmente considerato “compatibile” con la democrazia parlamentare, un sistema in cui le persone non contano, perché non possono decidere della loro vita né controllare il proprio tempo e lavoro. Tutto è deciso dal mercato e dalle sue condizioni, che pretende offrano a tutti le stesse opportunità, quando in realtà il confronto non è mai alla pari. I beni comuni sono invece autogestiti dalle comunità, e questo dà alle persone maggiori opportunità di decidere di sé e di costruire un proprio progetto autonomo di vita. Forse è davvero il caso di rivalutare e di ripensare strutture e istituti del passato, considerati arretrati e visti come un ostacolo alla “modernità”».

L’Onu, il 28 luglio del 2010, ha dichiarato «diritto umano l’accesso all’acqua potabile e all’igiene». Siamo di fronte a una decisione che potrebbe fare storia?

«La decisione delle Nazioni Unite secondo cui l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico sanitari è un diritto universale e non un bisogno è sicuramente un fatto storico, perché sancisce che l’acqua non è una merce da mettere sul mercato e perché premia la mobilitazione portata avanti dai movimenti di tutto il mondo da almeno due decenni. Ma è solo un inizio, e molto resta da fare. Gli ostacoli sono enormi, perché l’accesso all’acqua è minacciato dalla sua penuria, che ha già dato luogo a una serie di conflitti armati. L’acqua è una risorsa teoricamente illimitata perché rinnovabile, ma è resa scarsa sia dai cambiamenti climatici sia dagli usi impropri cui essa è destinata dal mercato capitalistico. Un’altra causa di spreco va ricercata nelle moderne tecniche di captazione, conservazione e utilizzo, che non prevedono più la raccolta dell’acqua piovana nei pozzi, praticano l’irrigazione agricola a pioggia anziché a goccia e non curano più la manutenzione degli impianti di distribuzione, con perdite che raggiungono la metà dell’acqua trasportata. Il problema dell’accesso all’acqua e ai servizi igienici riguarda soprattutto i due miliardi di persone di paesi del Sud, dove la carenza di acqua potabile e di servizi igienici è causa di mortalità infantile elevata. Ma riguarda anche il Nord e l’Italia stessa, perché l’acqua del rubinetto è sempre più inquinata e dove nelle aree interne e nelle regioni meridionali essa arriva in modo discontinuo. C’è poi un altro problema, quello della privatizzazione con l’ingresso delle multinazionali e l’aumento di prezzo del servizio idrico: in questo modo l’accesso all’acqua smette di essere un diritto e dipende invece dal livello di reddito dei cittadini. Contro la privatizzazione dell’acqua decisa dal governo Berlusconi, i movimenti italiani hanno proposto un referendum popolare che si voterà a giugno» .

In una conferenza tenutasi al Salone del Gusto, i relatori facevano notare che una visione dei beni comuni legata unicamente alla prossimità locale e temporale potrebbe essere foriera di rischi. Hanno diritti sull’acqua di un lago solo coloro che vivono nelle sue immediate vicinanze? Se l’Amazzonia è il polmone del pianeta, quali sono i diritti e i doveri del Brasile da una parte e del mondo intero dall’altra?

«Non capisco bene la domanda: che vuol dire avere “una visione dei beni comuni”? Come se la realtà dei beni comuni non esistesse e dovessimo deciderla a tavolino, con operazioni di ingegneria istituzionale decise dall’alto? I beni comuni operano secondo una logica molto diversa da quella che regola il mondo del mercato: sono flessibili e adattabili al variare delle situazioni, ma i conflitti ci saranno sicuramente e i tribunali dovranno dirimerli. Se invece la domanda si riferisce al fatto che i territori non hanno tutti la stessa dotazione di risorse naturali e che alcune risorse naturali, come la foresta amazzonica, sono ecosistemi di valenza mondiale, allora il problema diventa quello del coordinamento tra le comunità locali, che a mio parere non dovrebbe essere demandato ad autorità esterne, ma realizzato a tavoli di trattativa dove le comunità locali siedono, insieme ai rappresentanti dello stato e del mercato, avendo eguale potere decisionale. Non ho una proposta articolata sul coordinamento delle comunità di cui vedo la necessità, ma diffido di organismi esterni che decidono dall’alto e così facendo espropriano le comunità».

Rodotà ha scritto: «I beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite». Crede che saremo in grado, noi occidentali, di renderci conto di questa verità? Riusciremo a farci insegnare qualcosa dai popoli del Sud del mondo, oggi all’avanguardia nel dibattito sui beni comuni? Anche queste sono questioni cruciali.

«Intanto bisogna precisare chi siamo “noi”. Se si tratta della classe dirigente, credo che non sarà in grado perché così facendo perderebbe i privilegi di cui oggi essa gode. Se, invece, ci si riferisce ai giovani disoccupati, ai pensionati, ai lavoratori in cassa integrazione, alle donne in genere, agli immigrati, allora la risposa è sì, tutti questi soggetti vedono quel limite con estrema chiarezza. Poi, penso che sia utile conoscere e confrontarsi con le altre culture, dove la natura è ancora rispettata ed è quindi possibile riconoscere i sui diritti come costituzionali. Ma è altresì auspicabile che si riesca a recuperare la memoria della nostra esperienza sui beni comuni, smettendola di credere alla favola che le cose buone sono solo quelle più recenti, che le nuove tecnologie sono sempre utili, che il passato è da buttare. Il futuro non si costruisce nel vuoto ma facendo tesoro del passato, tenendo conto del passare del tempo e dei cambiamenti che esso, inevitabilmente e fortunatamente, porta con sé..»

Giovanna Ricoveri, Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano, 2010

L’autrice traccia un ritratto delle differenti tipologie di beni comuni, prendendo in esame il riduzionismo scientifico del Sei-Settecento e il peso che filosofi ed economisti del passato (Bacone, Hobbes e Mill, tra gli altri) hanno avuto sulla delegittimazione dei beni comuni e facendo un excursus storico che dalle enclosures del XV secolo (le recinzioni, attuate dai proprietari terrieri inglesi, di quelli che fino ad allora erano stati terreni pubblici) arriva fino al colonialismo. Affronta poi il tema del neocolonialismo che, a partire dalla metà del secolo scorso, non ha fatto altro che perpetrare le metodologie di sfruttamento delle risorse naturali, e non solo, a favore dei “civilizzati” popoli occidentali e a discapito delle popolazioni del Sud del mondo. L’autrice le definisce «nuove recinzioni» e noi crediamo che il termine sia assolutamente adatto. Basti pensare alla brevettazione dei semi e dei saperi tradizionali da parte delle multinazionali oppure alla privatizzazione dell’acqua. Ricoveri avanza anche delle proposte, legate al recupero dei diritti delle comunità sui beni comuni, che potrebbero dare luogo a un nuovo paradigma di società organizzata a livello locale, a partecipazione democratica ed ecologicamente sostenibile.