la città come bene comune



da Eddyburg
 
La città come bene comune. Un obiettivo che richiede oggi la pianificazione d’area vasta
Data di pubblicazione: 19.05.2009

Autore: Salzano, Edoardo

Relazione al convegno  “Percorsi di pianificazione territoriale per il futuro degli enti locali”, Lodi, 16 maggio 2009

L’obiettivo

Parlare di città come bene comune significa riferirsi a un obiettivo molto ambizioso – se lo confrontiamo non alla letteratura e alla tradizione della nostra civiltà, ma alla realtà italiana di oggi.

Significa, in parole povere, porsi l’obiettivo di una città che risolva in tutti gli aspetti spaziali il rapporto tra l’uomo (anzi, la società) e l’ambiente (anzi, il territorio).

E che li risolva tenendo conto del modo in cui oggi si vive sul territorio, dell modo in cui oggi attribuiamo valore (valor d’uso) alle sue risorse naturali e storiche, in cui oggi siamo in grado di affrontare e risolvere i problemi nuovi e antichi che si pongono.

I problemi

Vediamo allora alcuni di questi problemi. Anzi, enunciamoli soltanto: la loro consistenza e il loro spessore sono certamente presenti all’attenzione di tutti i prersenti in questa sala.

Il problema dell’accesso a un alloggio collocato là dove la storia e il presente di ciascuno la richiede, a un prezzo commisurato alla sua capacità di spesa.

Il problema dell’accesso a tutti i servizi che è necessario, possibile ed economico soddisfare fuori dall’abitazione: l’apprendimento nelle varie fasi della vita, la salute, l’approvvigionamento, la ricreazione, lo sport, la soddisfazione dei bisogni appartenenti alla cultura personale di ciascuno.

Il problema dell’accesso al lavoro, a questa dimensione ineliminabile dell’uomo, ragione fondamentale della coesione sociale e strumento decisivo per la partecipazione alla conoscenza e alla trasformazione del mondo.

Il problema della mobilità, della possibilità di raggiungere da ogni luogo tutti i luoghi nei quali è stato conveniente ed economico disporre le sedi delle attività che rendono città un territorio.

Il problema della conservazione e ricostituzione delle risorse naturali necessarie alla vita delle generazioni presenti e di quelle future, e quello della tutela e della fruizione delle risorse storiche, che costituiscono la base dell’identità di un territorio e la testimonianza della sua storia.

Il problema del governo della produzione, della riutilizzazione e dello smaltimento dei rifiuti inevitabilmente prodotti dalla vita sociale.

Mi sembra evidente che, posti in tal modo l’obiettivo e i problemi sia facile comprendere quali debbano essere sia il metodo da adoperare sia il livello al quale esso deve porsi.

Il metodo

Il metodo è quello della pianificazione territoriale e urbanistica. Essa ha infatti due caratteristiche che la rendono particolarmente idonea a questo scopo.

É sistemica, abbraccia in un unico sistema di conoscenze, di scelte, di azioni e di politiche i diversi aspetti della vita del territorio, cogliendo le connessioni e relazioni tra i diversi aspetti, settori, elementi del territorio e della sua organizzazione. Garntisce quindi coerenza alle decisioni di trasformazione del territorio, pur potendo essere strutturata in modo da garantire una notevole flessibilità.

É democratica, poiché (e finchè) garantisce la partecipazione dei cittadini alla formazione delle scelte e l’attribuzione di queste alle decisioni degli organi che esprimono la volontà popolare e la rappresentano.

Mi limito ad accennare che nell’ultima, orribile fase della nostra storia abbiamo assistito, e stiamo ancora assistendo, a un fortissimo degrado sia dell’una che dell’altra caratteristica della pianificazione.

Lo spezzettamento delle decisioni sul territorio in una miriade di decisioni settoriali, locali, legati al soggetto che volta per volta si vuole premiare o all’emergenza più o meno inventata. E il trasferimento delle decisioni a sedi sempre più ristrette (il sindaco o il presidente invece del consiglio).

Lo sguardo miope del breve periodo ha prevalso sulla visione di prospettiva, la governabilità ha prevalso sulla democrazia

Il livello

I problemi che ho elencato poc’anzi indicano tutti qual è il livello decisivo – assolutamente non trascurabile – della pianificazione che è necessario.

Ho parlato di problema della casa, dei servizi, della mobilità, del lavoro, delle riusorse naturali, dei beni culturali, dei rifiuti. É evidente che questi problemi, che cent’anni fa potevano essere grosso modo racchiusi entro i confini della città, oggi sono comprensibili e gestibili solo a livelli più ampi.

Più precisamente, a più livelli. Dobbiamo abituarci a ragionare in un’ottica multiscalare, la cui esigenza mi sembra oggi particolarmente accentuata. Il territorio è governabile se si tiene conto dei diversi livelli ai quali i problemi e le possibili soluzioni. In questo quadro il ruolo del livello provinciale mi sembra particolarmente rilevante.

In che modo – questo è il punto che vorrei adesso affrontare – si è giunti in Italia ad attribuire alla provincia la competenza della pianificazione d’area vasta? Il percorso non è stato breve, ma un presagio della soluzione cui si è pervenuti possiamo scorgerlo già alle origini. Ma procediamo con ordine.

Lo strano decennio

Della pianificazione d’area vasta si cominciò a parlare e a discutere, e a lavorare, in quello strano decennio del XX secolo (grosso modo dalla fine degli anni Venti all’inizio dei Quaranta) che separa tra loro la grande crisi esplosa a Wall Street e la Seconda guerra mondiale. E si cominciò a farlo non solo negli USA e in Gran Bretagna, ma anche in Italia. (Fabrizio Bottini, Sovracomunalità - Elementi del dibattito sulla pianificazione territoriale in Italia: 1925-1970, Franco Angeli, Muilano)

Tra le esperienze italiane vorrei ricordare la bonifica delle Paludi pontine e la conseguente realizzazione di città e paesi, di canali, strade e ferrovie, di zone industriali e di parchi.

Certamente gli autori della legge urbanistica del 1942 avevano in mente questa esperienza, quando inventarono il Piano territoriale di coordinamento: un’esperienza nella quale si applicarono le tecniche e gli strumenti della “bonifica integrale” e quelle della pianificazione dell’urbanizzazione (numerose città, borghi, strade e ferrovie, zone industriali) di un’area vasta, che oggi coincide precisamente con l’area di una provincia.

Per molti anni non se ne parlò più. Alcuni generosi tentativi compiuti negli anni Cinquanta (il piano del canavese promosso da Adriano Olivetti, quello piemontese del gruppo coordinato da Giovanni Astengo, il manuale per la pianificazione regionale commissionato dal Ministero dei Llpp ad Astengo) restano isolati episodi. È solo nel corso degli anni Settanta che si tenta di riprendere, in modo generalizzato, la sperimentazione di una dimensione d’area vasta nella pianificazione.

Si ricomincia negli anni Settanta

Molte sono le soluzioni che furono tentate quando l’esigenza di pianificare il territorio riemerse, dopo gli anni devastatori della ricostruzione postbellica, abbandonata nelle mani dell’edilizia selvaggia che oggi si vorrebbe ripristinare, con il cosiddetto “piano casa” di Berlusconi, e in quelle della motorizzazione individuale,.

Superate le resistenze della DC si istituirono finalmente le regioni. Ci si rese conto subito che il livello regionale della pianificazione non è sufficiente: troppo ampia è la forbice tra le decisioni che la Regione può governare con efficacia, e quelle proprie del livello comunale. Occorre un “livello intermedio” della pianificazione.

Si sperimentarono varie strade. Quella che fu tentata più a lungo, è quella dei “comprensori”: enti elettivi di secondo grado (i membri dei consigli comprensoriali vengono eletti dai consiglieri comunali), oppure emanazione delle regioni, oppure costituiti a mezzadria tra regione e comuni. Leggi regionali (Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto), a volte coraggiose, precisano caratteristiche, poteri, competenze dei comprensori. Si tentò, durò pochi anni. L’esperienza dei comprensori fallì.

Il fallimento dei comprensori
e la nascita della pianificazione provinciale

Perché il fallimento? Una ragione sostanziale fu individuata nel fatto che i comprensori non avevano poteri propri. I soggetti che componevano gli organi decisionali non erano investiti direttamente dall’elettorato, ma rappresentavano in primo luogo il comune, o la regione, che li aveva eletti come “suoi” rappresentanti nei governi comprensoriali.

Poiché gli interessi dei diversi livelli possono essere, e spesso sono, in contraddizione tra loro, i contrasti interni provocavano la paralisi di ogni decisione.

Fu negli anni Settanta che emerse la posizione più ragionevole, un vero e proprio principio della pianificazione: a ogni livello di pianificazione deve corrispondere un livello di governo autorevole, e perciò eletto direttamente dai cittadini.

Fu così che maturò, negli anni successivi, la proposta di attribuire potere di pianificazione del “livello intermedio” alle province. Ricordo un articolo di Vezio De Lucia su Urbanistica informazioni, nel quale emerse lo slogan che avevamo coniato: “il recupero delle istituzioni esistenti”. Perchè sforzarsi di inventare un nuovo organismo quando c’è già la Provincia, prevista dalla Costituzione come una delle istiituuzioni della Repubblica?

Nate sulla scia dell’ordinamento statuale napoleonico come emanazione dei poteri del governo nazionale, trasformate in organi elettivi e articolazioni dell’ordinamento repubblicano con la Costituzione del 1948, le province avevano poteri debolissimi: caccia e pesca, assistenza psichiatrica, scuole superiori, strade di livello intermedio, e pochissimo altro.

Dopo un lungo dibattito, è nel 1990 che, con la legge 142, più tardi riformulata nella 265 del 1999, si assegna alle province il ruolo e le competenze in merito alla pianificazione d’area vasta.

Due domande intrecciate

Oggi sembra esserci un largo consenso sulla proposta di abolire la provincia. Perché vogliono abolire questo istituto? La domanda si intreccia con un’altra: perché vogliono abolire la pianificazione?

La risposta è politica. Anzi, è ideologica. Ha prevalso, a destra ma anche sinistra, quella ideologia che ha come suoi slogan “meno stato e più mercato”, “privato è bello”, “basta lacci e lacciuoli”, “ridurre i controlli che fanno perdere tempo”, “individuale significa libertà e collettivo significa comunismo”. Ha prevalso un modo di fare politica che privilegia il presente e s’infischia del futuro, che ambisce al massimo di discrezionalità nelle scelte per poter premiare volta per volta questo o quest’altrol soggetto, che ha sostituito la miopia alla lungimiranza e ha sacrificato la democrazia alla governabilità.

Al fondo, questa ideologia ha separato la libertà dall’equità, quindi non ci si domanda più “libertà per chi” e si è relegato l’equità nell’armadio degli scarti.

Con la consapevolezza che questo è, in Italia, il quadro entro il quale agiamo, e che quindi nuotiamo controcorrente, dobbiamo continuare – come fate fruttuosamente a Lodi – a praticare la pianificazione territoriale. Poniamoci allora alcune questioni sulle pratiche che discendono da questo metodo applicato al territorio, e all’istituto, dellla provincia.

Il principio di sussidiarietà

La prima domanda è questa: come distinguere le competenze della pianificazione provinciale da quelle del comune e della regione? Il principio al quale ci si può riferire è quello “di sussidiarietà”. Poiché se ne parla spesso a sproposito, vediamolo nella sua interpretazione più autorevole. Esso è stato definito compiutamente nell’articolo 3b degli Accordi di Mastricht, che regolano i rapporti tra l’Unione europea e gli stati membri, e poi ripreso nei successivi testi regolamentari:

“Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”.

Sulla base di questo principio, sono quindi di competenza della pianificazione provinciale quegli interventi, e quelle azioni, che “a causa della loro scala o dei loro effetti” possono essere compresi e governati meglio al livello territoriale della Provincia che a quello del singolo comune.

È chiaro quindi che “appartengono” alla pianificazione d’area vasta provinciale due grandi campi di decisione.

Da un lato, quelli che attengono ai sistemi ambientali: alla tutela e all’uso delle risorse naturali e culturali, al paesaggio, alla tutela del suolo e dell’acqua e agli interventi volti alla prevenzione dei rischi. Quindi il contrasto allo sprawl e al consumo di suolo, Quindi l’organizzazione a rete delle aree urbane.

E perciò, dall’altro lato, quelli che riguardano la grande attrezzatura del territorio visto come sistema insediativo: come insieme di infrastrutture, attrezzature, servizi, centri i quali sono funzionali non alla vita di questa o quella unità di vicinato, di questo o quel comune, ma del sistema insediativo provinciale nel suo complesso.

Provincia e comuni

Il rapporto tra provincia e comuni pone comunque problemi complessi e impegnativi, soprattutto in situazioni, come quella attuale della Lombardia (e di molte altre regioni) in cui, a differenza che in altri paesi europei, la pianificazione provinciale non ha efficacia diretta, ma agisce esclusivamente attraverso i comuni.

Bisogna che la provincia faccia il massimo sforzo per coniugare autorità e consenso: per esercitare cioè un’egemonia, in senso gramsciano: cioè un potere nel quale l’autorità nasca dal consenso alle idee e alle proposte che la provincia è in grado di fornire.

L’impresa è realmente molto difficile. Il Ptcp è necessariamente portatore di una “visione d’area vasta” dei problemi del territorio e del suo futuro. Questa visione può configgere con quella di questo o di quell’altro comune. Non c’è da stupirsi di questo: il territorio è il luogo dei conflitti, e non ci sono ricette da adoperare per risolverli.

Una buona carta che la provincia puà giocare è quella del servizio che può offrire ai comuni.

Una provincia ben attrezzata è una miniera di informazioni utili, può su questa base fornire scenari alternativi che illustrano vantaggi e svantaggi delle diverse soluzioni proponibili per ciascuno dei comuni e delle realtà sociali che nei comuni esistono.

Una provincia è più forte d’un singolo comune nel confronto con la regione e con lo stato, e in generale con i poteri sovracomunali. Anche questa è una potenzialità che consente di svolgere un ruolo importante per i comuni.

Sono comunque sempre più convinto che occorre concepire l’attività di pianificazione anche come un forte contributo al processo di apprendimento, da parte di tutti i soggetti (istituzioni e cittadini) che partecipano alla pianificazione. La pianificazione deve diventare strumento della crescita della consapevolezza critica da parte di tutti.

Eppure, il problema della precettività delle scelte della pianificazione deve restare un obiettivo cui tendere. La responsabilità di ciascun livello di governo deve conferire a ciascuno di essi il potere di decidere, in ultima istanza, se il consenso unanime non si riesce a costruire. Altrimenti,, la tendenza di sostituire lì espressione gerarchica del potere a quella democratica diventa invincibile.

Quattro impegni

Credo che siamo tutti consapevoli che lavorare nella direzione cui questo coinvegno si riferisce, e di cui ho provato a sviluppare alcuni aspetti, è del tutto controcorrente. É controcorrente anche solo affrontare in termini positivi temo come la pianificazione e la democrazia, e il loro necessario intreccio.

Se è così, diventa decisivo porsi quattro obiettivi per la nostra azione, assumere quattro impegni per l’attività di ciascuno di noi.

Bisogna resistere. La difesa degli spazi pubblici deve essere al centro della nostra attenzione. E parlo di spazi pubblici in un senso molto ampio: gli spazi fisici, a partire dagli standard urbanistici, dai parchi, dall’uso aperto e libero delle piazze e degli altri luoghi; e gli spazi virtuali, gli spazi come diritti: il diritto di sciopero, il diritto a una scuola pubblica e uguale per tutti, il diritto a riunirsi, a discutere insieme, a manifestare insieme.

Bisogna far crescere lo spirito critico, spiegare le mille trappole mediante quali l’informazione inganna chi se ne nutre, gli strumenti mediante i quali si sostituisce al buon senso (che alberga in ciascuno di noi) un senso comune formato sugli interessi dominanti. Bisogna svelare l’ideologia che tende a unificare in un unico sentire il pensiero, e quindi l’azione, di tutti. A cominciare dalle parole, dallo svelamento dei loro significati reali.

Bisogna far comprendere a tutti, e soprattutto ai giovani, che la storia non è già scritta: che un’altra storia è possibile, diversa da quella che le tendenze in atto ci preparano. Se non c’è questa convinzione, se la storia è considerata un evento inevitabile, lo spirito critico si traduce in cupo e disperato pessimismo.

E bisogna attrezzarsi per un lavoro di lunga lena. La soluzione – a meno di eventi imprevedibili, che possono sempre accadere – non è dietro l’angolo. Maturerà attraverso una successione di eventi che saranno tanto più rapidi quanto più sapremo allargare il campo di quanti ragionano insieme a noi, occupano lo spazio pubblico per comprendere insieme e per lavorare insieme.