dopo il terremoto,prima del prossimo



da Eddyburg
 
Dopo il terremoto abruzzese, prima del prossimo
Data di pubblicazione: 21.04.2009

Autore: Bevilacqua, Piero; Salzano, Edoardo

Nell’intervista a un urbanista e nell’articolo di uno storico dell’ambiente alcuni suggerimenti per il futuro. Liberazione, 18 e 21 aprile 2009

«Non solo rinvii, si rinunci al ponte»
intervista di Angela Mauro a
Edoardo Salzano

Edoardo Salzano, urbanista da sempre contrario al ponte sullo Stretto di Messina, non è per niente impressionato dal dibattito che, dopo il terremoto in Abruzzo, si sta sviluppando intorno alla Grande opera promessa dal governo Berlusconi. «I politici italiani ragionano sempre nell'ottica immediata, mai sul lungo termine», dice Salzano a proposito di chi, anche nel Pdl, comincia a pensare che per favorire la ricostruzione in Abruzzo sarebbe meglio rinviare il Ponte sullo stretto. L'ultimo in ordine di tempo è stato il deputato del Pdl Giuliano Cazzola, imprenditore, che proprio ieri diceva a Repubblica Tv : «Se ci sono delle priorità, credo che anche il ponte possa passare in seconda fila». Meglio che niente, è il pensiero di Salzano. Ma non basta.

Sarebbe meglio rinunciare all'opera. Ma il terremoto in Abruzzo non ha portato il dibattito così lontano...
Il ponte non è una priorità e non è utile. Per il bene della Sicilia, andrebbe potenziato il trasporto via mare. Con il ponte, l'isola diventerebbe un "cul de sac", la fine di un percorso di terra. Se si potenziassero le vie d'acqua diventerebbe una cerniera di collegamento con i porti d'Europa e con quelli dell'Africa settentrionale.

Oltre che considerazioni di carattere paesaggistico e ambientale, la sua valutazione comprende anche il rischio sismico della zona del ponte.
Oltre che essere sbagliato dal punto di vista funzionale, il ponte è sbagliato dal punto di vista della sicurezza. La faglia passa proprio da quelle parti, sarebbe una struttura a rischio, i terremoti in quell'area non sono una novità. Per non parlare dell'abusivismo in zona...

Dopo il sisma in Abruzzo, il Corsera ha lanciato l'idea di rinviare la costruzione del ponte. Anche molti del Pd, prima favorevoli, ora suggeriscono di far slittare i lavori per recuperare fondi per la ricostruzione. E cominciano a pensarla così anche nel Pdl. Manca ancora però una valutazione seria e ad ampio raggio sui rischi di un'opera del genere.
I nostri politici ragionano a seconda dell'immagine immediata che le loro dichiarazioni possono avere. Non ci sono più politici che studino problemi e soluzioni nel lungo periodo. Intorno al ponte hanno messo in giro speranze e affari. Una cosa è dire: rinviamo. Un'altra è dire: non se ne fa più niente, dichiarazione che farebbe perdere voti. Le forze legali e illegali entusiasmate dal progetto sono consistenti, capisco che i politici preferiscano parlare di rinvio. In qualche modo sono schiavi degli interessi che si agitano intorno al ponte.

L'Mpa di Lombardo, governatore della Sicilia, insiste sul ponte. Mentre il presidente della Regione Calabria, Loiero del Pd, insiste sul fatto che l'opera non è una priorità. Forse Lombardo ha maggiori interessi anche elettorali, visto che alle europee debutta nell'alleanza con Storace.
Probabile. Il punto è che alla gente non si raccontano le cose giuste. C'è un immaginario collettivo per il quale il ponte è il collegamento facile tra la Sicilia e il continente, fonte di benessere per la Sicilia. Questa è una follia: la Sicilia non è solo appendice dell'Italia. Potrebbe essere cerniera verso altri continenti. C'è un municipalismo di fondo, una chiusura dialettale, una incapacità di guardare al ruolo strategico dell'isola in relazione a un territorio più vasto. Eppure la Sicilia storicamente è stata un luogo con rapporti con il mondo arabo o con la Grecia: c'è un'eredità storica che va recuperata e per farlo non ti serve certamente il ponte.

Cosa servirebbe per portare la discussione su una rinuncia al ponte?
Va detto che è meglio sentir parlare di rinvio piuttosto che di"facciamolo e basta". Serve a guadagnare tempo, ma è insufficiente. Servirebbe rendersi conto che il suolo non ha come destinazione ottimale l'ospitare case, fabbriche o autostrade. Il suolo ha un valore in sè che dipende anche dalla sua naturalità. Rinunciare a questo si può se serve a cose socialmente più utili. Ogni ettaro sottratto alla natura, lo sottraiamo agli usi indispensabili per la sopravvivenza dell'umanità. Inoltre le trasformazioni del territorio devono essere viste e decise nel loro insieme. E' profondamente sbagliato dividere in compartimenti stagni tra prevenzione, espansione delle città, mobilità, difesa dell'agricoltura, ecc. Tutte queste cose devono essere viste insieme e lo strumento per farlo è la pianificazione territoriale e urbanistica che purtroppo in Italia è considerata un impaccio, soprattutto per gli interessi immobiliari che vengono sempre favoriti a dispetto di tutto. In Italia più la città cresce, più il sindaco è contento; più le cubature aumentano, più il pil cresce. Finchè restiamo dentro questa logica, siamo fottuti.

Si può dire che il terremoto in Abruzzo abbia fermato l'ultimo scempio annunciato dal governo: il piano casa.
Sperando che l'abbia davvero fermato. In realtà, ancora prima di pensare di introdurre nelle nuove norme sull'edilizia una maggiore attenzione per i criteri antisismici, si è pensato a norme più severe per gli sciacallaggi. Questo la dice lunga... E poi la protesta dei governatori regionali prima del sisma non ha migliorato il piano.

Nel senso che le Regioni si sono limitate a difendere le proprie competenze legislative in materia?
Esatto. Non hanno migliorato il tutto, hanno solo reso possibile quello che sembrava obbligatorio. Hanno difeso le loro competenze e ora il risultato è che ogni regione potrà fare il bello e il brutto e sono poche quelle che vogliono fare il bello, privilegiando gli interessi dell'ambiente e della sicurezza sugli interessi dei gruppi edili. Una cosa su cui tutte le Regioni sono d'accordo è svincolarsi dal rispetto della pianificazione paesaggistica nazionale: stanno ottenendo di ridurre il potere delle soprintendenze, riconosciuto all'articolo 12 della Costituzione. Per questo sul piano casa parlerei di vittoria delle Regioni, non di vittoria del popolo.

21 aprile 2009
Il terremoto e la catastrofe della cultura dominante
di Piero Bevilacqua

Il piano casa del governo Berlusconi (nella sua annunciata prima versione)e il terremoto del 6 aprile, che ha sconvolto l’Aquila e i paesi vicini, sono due “eventi” in diversa misura esemplari della storia dell’Italia contemporanea. E‘ “esemplare”, drammaticamente e dolorosamente, il terremoto, perché esso è un fenomeno consueto e direi funestamente familiare nel nostro Paese. Ogni cento anni, in media, l’Italia viene colpita da circa 100 terremoti di magnitudo compresa fra 5 e 6, nonché da 5- 10 sismi di magnitudo superiore a 6. Questo ci dicono, con ricerche ponderose condotte negli ultimi decenni, gli storici italiani del terremoti, tanto stimati nel mondo quanto negletti e inascoltati in patria.

Il nostro, infatti, è un territorio geologicamente giovane, gran parte del quale è emersa da non più di 1 milione di anni. E’ sufficiente ricordare che l’Italia, unica in Europa, ospita ben 4 vulcani attivi : il Vesuvio, l’Etna, lo Stromboli e Vulcano. E vulcanismi e terremoti sono paresti stretti. Ma occorre ricordare che la giovinezza geologica della Penisola non si esprime solo con gli eventi improvvisi e imprevedibili dei terremoti.La catena dell’Appennino, che attraversa l’intera Penisola, costituisce un immenso campo di forze in movimento, perché lì l’azione delle acque e degli eventi meteorici tende a trascinare i materiali erosi alle montagne e alle colline verso le valli sottostanti e le cimose litoranee dei due opposti mari. Quelle montagne scendono.L’Italia, infatti, non soltanto è terra di terremoti, è anche un Paese di frane.Una indagine ministeriale, condotta dopo la sciagura di Sarno del 1998, ha calcolato che oltre il 45% del territorio è da considerare a rischio idrogeologico elevato o molto elevato

All’interno di un abitat così fragile, così esposto agli imprevisti della natura è ospitato un patrimonio artistico e monumentale fra i cospicui e preziosi al mondo.Si tratta, di chiese, monasteri, palazzi, piazze, fontane, statue, interi centri cittadini che custodiscono la nostra storia e la nostra identità. E al tempo stesso, non dimentichiamolo, testimoniano una cultura delle società del passato non ancora devastate dalla furia dell’economicismo insensato del nostro tempo.

Ebbene, a fronte di questo quadro naturale e storico, le classi dirigenti italiane da decenni non riescono a esprimere una consapevolezza culturale, prima ancora che politica, all’altezza della drammatica originalità del nostro caso.Esiste una cecità persistente di fronte al nostro paesaggio visibile, quello delle frane, ma anche di fronte a quello invisibile dei terremoti.Quest’ultimo – come ha scritto Emanuela Guidoboni, una delle maggiori studiose del fenomeno - «risulta nascosto da un abito culturale che tende a consolidarsi nelle fasi lunghe e delicate delle ricostruzioni: è allora, infatti, che progettualità e razionalità dovrebbero delineare i termini del successivo appuntamento con il terremoto, quando un’altra generazione dovrà raccogliere l’eredità della ricostruzione». Chi governa tende a dimenticare che ci sarà un altro terremoto, che la vita di migliaia di bambini, donne, uomini, alcuni ancora non nati, dipende da come noi ricostruiamo oggi.

E’ proprio la memoria storica e la lungimiranza di questo costruire per il futuro che latita nel comportamento delle classi dirigenti italiane. Ma il primo progetto per la casa del governo in carica, sepolto dalle critiche delle regioni e dalle macerie del terremoto abruzzese, costituisce un segnale fra i più gravi e allarmanti del grado di irresponsabilità a cui è giunto il ceto politico nazionale degli ultimi decenni. Nel nostro Paese chi dovrebbe rappresentare i cittadini italiani, continua a obbedire a una stagione del capitalismo contemporaneo ormai morta, finita nell’infamia del tracollo finanziario e del disastro industriale. Il ceto politico, sia di governo che di opposizione, per ubbidire agli imperativi di una crescita che nessuno sa a quale traguardo sia diretta, è pronta a consumare il nostro territorio come una qualunque altra merce nel mercato universale nei beni. I comuni italiani sono presi da una furia costruttiva e si vanno mangiando la campagna per edificare centri commerciali, ipermercati, seconde e terze case, capannoni industriali. Ma il territorio è una risorsa finita, in Italia particolarmente scarsa. Non solo: come abbiamo visto essa è costituita da un habitat di speciale vulnerabilità. Più che in ogni altro Paese d’Europa esso dovrebbe essere considerato, tutto intero e indivisibilmente, un bene comune. Perché lì è la sede delle nostre abitazioni, della nostre attivtà produttive, del nostro vivere quotidiano. Lì è la sede delle risorse e della vita delle generazioni dei nostri figli e nipoti. Eppure il governo Berlusconi, per il fine strumentale di accrescere il proprio consenso elettorale, per una breve stagione di dominio, si mostra pronta a dare in pasto agli appetiti disordinati dei singoli, valutati solo come eterni elettori, il bene più prezioso e più fragile del nostro Paese.

Non dimentichiamo che il governo oggi in carica non solo intende dilapidare immense risorse per finanziarie le cosiddette grandi opere, come il ponte sullo stretto, mentre manca la sicurezza abitativa in tante nostre scuole ed edifici pubblici.Il Parlamento italiano si appresta a ridiscutere il disegno di legge urbanistica Lupi, che mira a considerare il diritto di edificabilità come intrinseco alla proprietà delle aree.Si vuole aprire una nuova fase di consumo disordinato di suolo dentro e intorno alle nostre città. Il cancro dell’ideologia neoliberista, storicamente sconfitta, in Italia si appresta a dare altri colpi irreversibili al nostro territorio, a compromettere le possibilità di vita delle generazioni che verranno.