crescita contro sobrietà, uno scontro di civiltà



 
da carta.org
settembre 2008

Uno scontro di civiltà: crescita contro sobrietà
di Guido Viale
Pubblichiamo un'anticipazione dal nuovo libro di Guido Viale, «Azzerare i rifiuti. Nuove frontiere per un sistema di produzione e consumo sostenibile» [Bollati Boringhieri, 224 pagine, 12 euro], che sarà in libreria dai primi giorni di ottobre. Il libro sarà presentato domenica 28 settembre, alle ore 17, alle Porte Palatine, a Torino, nell'ambito della manifestazione Torino spiritualità. Un libro intelligente e documentato, utile per approfondire sulla «questione rifiuti», magicamente scomparsa dal palinsesto dei media.
l problema dei rifiuti non può essere isolato dal suo contesto, che è costituito dalle produzioni e dai prodotti che li generano e dal modo in cui questi prodotti vengono distribuiti e consumati. Visto alla luce del loro contesto si può senz'altro affermare che il tema rifiuti si colloca all'interno di uno «scontro di civiltà» in atto; o, se si preferisce, di una contesa tra culture diverse. In questa contesa, le posizioni delle parti in causa si radicano entrambe, con apporti esterni di misura e natura differente, nell'ambito della modernità; ma con esiti sempre più diver-
[Allo sviluppo tecnologico viene delegato l'incarico di rimediare ai guasti che la tecnica produce: alla superiorità nella tecnologia bellica si affida il compito di garantire l'ordine mondiale messo in forse dalla disseminazione di armi; al nucleare o all'idrogeno il compito di neutralizzare i cambiamenti climatici. genti. Ritroviamo infatti la stessa contrapposizione tanto sulle grandi questioni che decidono del destino dell'umanità, come le guerre o i cambiamenti climatici, quanto in quelle minute, che caratterizzano la nostra vita quotidiana - compresa la produzione e gestione dei rifiuti urbani - ma il cui effetto cumulativo va poi a comporre quel destino.
Da una parte vi è la cultura della crescita, con la sua fiducia nelle risorse della tecnica e nel funzionamento dei mercati, più o meno corretti con interventi «politici», ma anch'essi di natura tecnica; interventi che non a caso vengono sempre più spesso chiamati «manovre».
In questo quadro concettuale, allo sviluppo tecnologico - o, meglio, alle aspettative su di esso - viene delegato anche l'incarico di rimediare ai guasti che la tecnica produce: alla superiorità nella tecnologia bellica si affida il compito di garantire l'ordine mondiale messo in forse dalla disseminazione di armi e marchingegni micidiali; all'energia nucleare, o alla cattura del carbonio, o alla produzione di idrogeno, si affida la neutralizzazione dei cambiamenti climatici provocati dai combustibili fossili, il cui utilizzo non deve però essere frenato, per non ostacolare la crescita.
L'assunto è semplice: la tecnologia ci ha dato il benessere [ma a chi? a quanti? e per quanto tempo?]; la tecnologia ci darà il rimedio dei suoi «danni collaterali». È la negazione radicale del cosiddetto principio di precauzione. Alla verifica storica nulla si rivela tanto utopico - nel senso deteriore del termine -quanto questa cultura. Basta ricordare che cinquantanni fa, quando il 2000 sembrava un orizzonte lontano, ci erano state promesse per quella data macchine volanti al posto delle automobili e una quantità illimitata di energia da ricavarsi dall'acqua con la fusione nucleare. Nell'ambito della vita quotidiana la cultura della crescita è promozione del consumo per il consumo; del consumo per sorreggere e mandare avanti la macchina produttiva; del consumo per sostenere occupazione e redditi. Consumo di beni inutili mentre miliardi
di uomini - molti dei quali sempre più spesso vivono accanto a noi - mancano del minimo necessario.
Il «danno collaterale» del consumo è costituito dai rifiuti, perché, in questo quadro concettuale, tutto ciò che viene prodotto è destinato a trasformarsi in rifiuto in un tempo sempre più breve. E se tutto va a finire nei rifiuti, tanto vale produrli direttamente: l'approdo finale di questa metafisica della distruzione è la produzione e vendita di articoli usa-e-getta [nel cui novero rientrano tutti gli imballaggi «a perdere»], cioè la fabbricazione di rifiuti che per un tempo brevissimo sono chiamati a svolgere una qualche effimera funzione. Ma la cultura della crescita ha sempre una «tecnologia» pronta per rimediare a tutto: quindi, anche per far fronte al problema dei rifiuti.
Prima era la discarica, più o meno «controllata», poi l'inceneritore [il sogno di «mandare in fumo» tutto ciò che non ci serve], quindi il «termovalorizzatore» [un termine in uso solo in Italia per indorare l'amara pillola di un marchingegno inefficiente che semina inquinanti micidiali e manda in fumo non solo quello che brucia con un rendimento energetico che è meno di un terzo delle centrali termiche più efficienti, ma anche tutta l'energia consumata per produrre quei materiali che gli servono da combustibile e che potrebbero invece venir riutilizzati riciclandoli: il tutto a spese degli incentivi pagati dal contribuente, senza i quali il termovalorizzatore lavorerebbe in perdita] e infine il «ciclo integrato» dei rifiuti [che significa inframmezzare tra la pattumiera e l'inceneritore altre macchine per separare il secco dall'umido, e «un po'» di raccolta differenziata da mandare a riciclo - ma non troppa, altrimenti il termovalorizzatore si spegne]. Ma
che ognuno di noi debba continuare a vomitare sul suolo pubblico un chilo e mezzo di rifiuti urbani al giorno [o tre, quattro chili contando anche quelli «speciali», generati dalle imprese per produrre e distribuire i «beni» che noi trasformiamo in rifiuti urbani], questo non può venir messo in discussione. Nemmeno in Campania, dove il ritmo con cui vengono prodotte ogni giorno migliaia di tonnellate di rifiuti ha ridicolizzato gli sforzi degli otto commissari straordinari che si sono avvicendati in cerca di sempre nuovi spazi dove sotterrarli, in attesa dei termovalorizzatori.
Ciò che non si vuole ammettere è che nella situazione della Campania si può vedere, come in uno specchio, quello che sarà il futuro di tutte le città e dell'intero pianeta, se il tempo concesso alla sua sopravvivenza sarà sufficiente. Recente è la notizia che cento milioni di tonnellate di rifiuti di plastica galleggiano nel mezzo dell'Oceano Pacifico, formando una specie di nuovo continente che uccide intorno a sé ogni forma di vita acquatica.
All'altro polo della contesa vi è la cultura della sobrietà. Non è organizzata, né sponsorizzata, né roboante come la sua antagonista; ma in qualche modo si radica in ciascuno di noi quando realizziamo che la rincorsa ai consumi non conosce traguardi e ci rende tutti più poveri, perché è soprattutto una corsa alla produzione di rifiuti e all'intasamento del mondo con il loro accumulo; mentre ad arricchirci e a creare benessere - nel senso di «stare bene» e non di «comprare tanto» - sono soprattutto la qualità e la varietà dei nostri rapporti interpersonali e la ricerca di una sintonia con un ambiente naturale meno inquinato e stravolto.
Anche la cultura della sobrietà è figlia della modernità: non è frutto della penuria, né della nostalgia per il passato, né di una volontà di espiazione, bensì di saperi che ci mettono in grado di usare in modo sensato e ragionevole le risorse della Terra in cui viviamo. Non ha inventato le macchine volanti, ma il deltaplano, che permette all'uomo di realizzare il sogno di Icaro sfruttando i mo-
vimenti dell'aria che lo sostiene; o la bicicletta, che moltiplica il rendimento dello sforzo che facciamo per camminare; o il trasporto flessibile che combina velocità, comodità e risparmio di spazio, di risorse e di energia nella mobilità urbana.
Non ha realizzato la fusione a freddo - la pietra filosofale che un tempo trasformava il piombo in oro e oggi dovrebbe trasformare l'acqua in energia - ma i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche, che sono in grado di fornire all'intero pianeta tanta energia quanta ne basta per una vita moderna e decente. Ma si tratta di tecnologie che possono avere un ruolo fondamentale solo in un quadro di contenimento e di perequazione dell'utilizzo delle risorse naturali e che non potranno mai sostenere un aumento illimitato della produzione e del consumo come quello perseguito dalla cultura della crescita [obiettivo peraltro irraggiungibile anche con i combustibili fossili o con l'uranio, che sono risorse prossime al picco del loro sfruttamento].
Meno consumi producono meno rifiuti; ma è soprattutto la scelta di quello che si consuma e il modo in cui lo si fa [le scelte di acquisto] che possono ridurre drasticamente la produzione di rifiuti. Meno imballaggi superflui [oggi il 40 per cento dei rifiuti urbani in peso; il 70-80 per cento in volume], cominciando dal cau-zionamento di bottiglie e flaconi a rendere. Meno prodotti usa-e-getta [un altro 10 per cento]. L'usa-e-getta ha sostituito, per una frazione di secolo, prodotti che prima si usavano fino alla consunzione; ma oggi ci sono sostituti dei prodotti usa-
e-getta che costano e inquinano meno e sono più comodi e igienici dei loro predecessori, a partire dai nuovi pannolini lavabili, o dalle lavastoviglie rapide per evitare il ricorso a piatti e bicchieri di plastica nelle mense.
Poi, più prodotti venduti sfusi [«alla spina»], a partire dai detersivi e da alcuni generi alimentari; meno sprechi di cibo, per lo più frutto di una spesa fatta senza programma; più compostaggio domestico dei rifiuti organici [ovunque si disponga di spazi adeguati: anche un balcone] ; adozione di prodotti tecnologici modulari [computer, hi-fi, cellulari, elettrodomestici], in modo che per adeguarli ai progressi della tecnologia non sia necessario cambiare tutta l'attrezzatura, ma solo i componenti logori od obsoleti; una moderna regolazione e incentivazione del mercato dell'usato, per non mandare in discarica o in fumo quello che milioni di persone sono ancora disposte a usare.
E poi - ma solo dopo che tutti questi accorgimenti siano stati messi in atto -raccolta differenziata porta-a-porta, responsabilizzando gli addetti a intrattenere un rapporto diretto con gli utenti per migliorare di continuo il servizio; impianti decentrati di compostaggio e di recupero dei materiali; incentivi al «green procurement* per enti pubblici e imprese private, per fornire un mercato ai materiali riciclati.
Sono cose semplici, gran parte delle quali è alla portata di qualsiasi cittadino, di qualsiasi amministrazione locale, di qualsiasi impresa di produzione o di distribuzione - grande o piccola - che mette in circolazioni delle merci. E sono cose tanto più urgenti da realizzare - anche ricorrendo a misure straordinarie come divieti e obblighi - quanto maggiore è l'emergenza rifiuti che soffoca un territorio. L'indicazione più nuova nel campo dei rifiuti è quella di intervenire alla fonte, in base alla gerarchia delle priorità, che tuttora corrisponde a quella proposta oltre trent'anni fa dall'Ocse e dall'allora Comunità europea: riusare, ridurre, riciclare, e poi smaltire - inceneritore e discarica - solo quello che rimane. Ma se si fanno tutte queste cose, che cosa resta da bruciare in un inceneritore?