i limiti della crescita ( repetita juvant )



da  greenreport.it
 
 I limiti della crescita (repetita iuvant)
 
LIVORNO. Il carbon coke alle corde, in termini di produzione, ha fatto salire alle stelle il prezzo sul mercato e potrebbe creare non poche difficoltà al settore siderurgico mondiale.
Sia l’Australia che la Cina, che rappresentano i maggiori produttori sia di carbon coke che di quello termico, hanno avuto difficoltà sia nell’estrazione che nel trasporto di questa materia prima e, in penuria di offerta, è schizzato il prezzo sino a 350 dollari la tonnellata.

Più in generale, i dati dell’outlook economico di primavera del Fondo monetario internazionale indicano che il boom dei prezzi delle materie prime, aumentato di circa il 75% dal 2000, ha avuto un effetto favorevole e anche più duraturo rispetto al passato, sulle economie dei paesi emergenti. Un fenomeno che ha portato alla crescita economica e ad un aumento della ricchezza, intesa come Pil anche in quella parte di emisfero storicamente ai margini nell’economia globalizzata.

Tutto bene, quindi? Se rimaniamo nell’accezione comune e generalizzata che questo comporta, ovvero se limitiamo il termine “ricchezza” alla definizione che si ritrova anche sui dizionari come “tutte le proprietà che hanno un valore monetario o di scambio”, certamente sì. Altrettanto se si limita il fenomeno a quanto universalmente accettato che la crescita rappresenti un obiettivo cui tendere anche per poter combattere la povertà e fondare quindi su di essa la potenza di una nazione.

In effetti sarebbe difficile negare che la crescita economica abbia enormemente accresciuto la disponibilità di beni e servizi, fornendo storicamente ad una vasta fetta della popolazione opportunità di realizzazioni personali e che questo sia desiderabile anche da parte di chi non ne ha avuto invece accesso, sino ad ora.

Ma sappiamo altrettanto bene, e i dati ce lo testimoniano sempre di più, che la crescita dell’economia si è realizzata sino ad ora a discapito (sempre più accentuato) del capitale naturale, scaricando sugli ambienti, sulla collettività, e sulle generazioni future gran parte dei costi economici, ambientali, sanitari e sociali che dalla stessa crescita economica (così impostata) derivano.

«In pochi decenni ipotechiamo millenni di avvenire all’umanità che verrà» scrive Piero Bevilacqua nel suo ultimo libro, Miseria dello sviluppo, in uscita oggi e di cui La repubblica anticipa il primo capitolo.

Osservando che «la crescita economica e il benessere si stanno divaricando» e che si sta diffondendo la consapevolezza, almeno nella parte del pianeta che più ha beneficiato di questa crescita, che «l’idea della perenne aspirazione umana a migliorare la propria condizione potesse essere catturata definitivamente nella ricerca senza fine della ricchezza materiale si è dissolta».

Una consapevolezza, potremmo obiettare che era assai ben presente e argomentata sin dagli inizi degli anni ‘70 nel gruppo del Club di Roma di Arturo Peccei che scrisse “I limiti alla crescita” (era il 1972). Ma che in realtà stenta a divenire altro dalla consapevolezza, più o meno acquisita, e che fatica ad uscire da un dibattito culturale ristretto e a trasformarsi in un nuovo modo di concepire l’economia. Campagna elettorale docet!

«Non esiste rapporto tra una nuova idea dello sviluppo umano e l’economia» scrive oggi Alfredo Reichlin sulle pagine de l’Unità e ne dà immediatamente conferma quando poco dopo pone il quesito su «cosa succede se il consumo diventa la cosa essenziale che definisce il bisogno di identità umana?» che è esattamente quello che sta succedendo già adesso con l’attuale modello economico che ha caratterizzato il mondo occidentale e che è preso a modello dalle economie emergenti.

Lo stesso modello che Bevilacqua descrive come «una grande pagina della storia recente del mondo giunta a termine» nonostante «il possente motore economico che ha generato e sostenuto la corsa allo sviluppo lavori a pieno ritmo, così come la rutilante campagna ideologica, che sin dall’inizio, ne fiancheggia l’opera».

In verità ciò che è giunto al termine è la capacità del pianeta di sopportare questo modello, non certamente l´ossessione con la quale chi lo abita continua a valutare la crescita come talmud per qualsiasi idea di benessere.

“Crescere” è infatti l’imperativo categorico che da tutte le forze politiche viene conclamato, perché un sistema che cresce al tasso più alto può permettere di ripartire le risorse con più giustizia, si dice.

Raramente, invece, si rappresenta la necessità di far crescere il capitale naturale, di migliorare l’offerta e la disponibilità, per tutti, di beni che non siano solo materiali e che non leghino esclusivamente il benessere al Pil e alla disponibilità di merci.

Una cosa è certa: l´obiettivo del nuovo secolo non può essere scambiato con quello del secolo scorso. Per assicurare alle future generazioni un ritorno “morbido” dal già avvenuto superamento dei limiti, la crescita è uno strumento, al minimo, insufficiente.