non per amore (del clima) ma per soldi



 da liberazione novembreb 2007

Economia e ambiente
Non per amore (del clima) ma per soldi

Carla Ravaioli

«Stiamo consumando il Pianeta. A metà secolo avremo esaurito le risorse». L’allarme lanciato dal Wwf il 25 ottobre scorso, vistosamente ripreso dalla stampa mondiale, ha avuto larga eco. Ma i politici, non solo italiani, non hanno fiatato in proposito, attenendosi agli impegni consueti, quasi quell’allarme in nessun modo li riguardasse. Anzi come d’abitudine rilasciando convinte dichiarazioni sulla necessità di aumentare produzione e consumi, di sostenere lo sviluppo, di rilanciare la crescita, serenamente inistendo su una linea economica che, a giudizio dalla comunità scientifica internazionale, ci sta portando alla catastrofe. Piero Sansonetti, lucidamente quanto coraggiosamente commentando la cosa, ha parlato di schizofrenia (Liberazione, 26 ottobre). E davvero solo parole normalmente usate per indicare gravi malattie mentali sembrano adeguate a descrivere le posizioni del mondo politico nei confronti del problema ambiente.
La cosa non è nuova d’altronde. Allarmi simili a quello del Wwf, recanti firme di indiscussa fama, da tempo si susseguono sempre più frequenti e motivati, nella drammatica accelerazione della crisi ecologica planetaria, ma nulla sembra scalfire la solida indifferenza alla materia di quanti hanno responsabilità del nostro domani. Non era dunque azzardato prevedere che una volta ancora, magari dopo qualche annoiato commento sul solito catastrofismo ambientalista, tutto sarebbe ricaduto nel silenzio. E invece no. Passano cinque giorni, e questa volta è The Observer (29 ottobre) a rilanciare la questione, con un vistoso titolo di prima pagina, immediatamente ripreso dalla grande informazione del mondo. Che succede? Subitanea conversione verde della politica? In realtà, osservato da vicino, il fatto si può leggere in molti modi, e non proprio tutti positivi ai fini del futuro ecologico.
Di positivo c’è che l’oggetto del servizio in questione, un documento di ben settecento pagine, è stato redatto su richiesta di Tony Blair da Sir Nicholas Stern, illustre economista già dirigente della Banca Mondiale, oggi consulente economico del governo britannico, dotato cioè di tutti i requisiti per farsi ascoltare in alto loco. Dunque la scienza economica, fino a ieri del tutto disinteressata alla questione ambiente, o al massimo infastidita dai disturbi arrecati da impreviste bizzarrie climatiche al “normale” andamento produttivo, sembra rendersi conto che il problema non solo esiste, ed è grave, ma ha anche molto e direttamente a che fare con l’economia, nel suo progettarsi quanto nel suo operare quotidiano.
Non meno positivo è che il rapporto confermi analisi e previsioni elaborate dalle principali agenzie ambientali, finora puntualmente snobbate. Riconosce infatti sia il rischio connesso al guasto già in atto, sia l’inevitabilità di un grave ulteriore deterioramento in mancanza di interventi decisivi. Proprio come Wwf, Epa, Ipcc, ecc. parla infatti di crescente estremizzazione dei fenomeni meteorologici e climatici, di progressiva desertificazione, di sciolgimento dei ghiacci e di innalzameno del livello dei mari, di 200 milioni di profughi, ecc. E nemmeno a proposito del “che fare” dice gran che di nuovo: le misure indicate sono soprattutto quelle intese a ridurre la produzione di “gas serra”, cioè impegno nella ricerca di energie rinnovabili e di massima l’efficienza, messa a punto di una politica globale, magari ripartendo da Kyoto, ecc. L’ambientalismo dunque non è quella cosa inutile e seccante che i politici fermamente ritenevano e con granitica coerenza ignoravano.
Ma una novità, non da poco, nel rapporto Stern non manca. E il modo stesso della sua divulgazione lo dice. “3.68 trilioni di sterline” è, in grossi e vistosi caratteri, la prima riga del titolo strillato in copertina da The Observer. Cifra che - le due righe seguenti precisano - corrisponderebbe al “prezzo di un mancato intervento sul mutamento climatico”. 
 
Di soldi dunque si tratta, di possibile bancarotta, di probabile crollo per il 20% del Pil mondiale, forse di una catastrofe economica più grave di quella del ’29. E tutti i potenti della terra rizzano le orecchie. Quelli che fingevano di nulla se il deserto va conquistando il pianeta, che restavano indifferenti quando venivano a sapere di alluvioni con migliaia di morti e centinaia di migliaia di evacuati, che accettavano tranquillamente la messa a tacere della notizia che la Corrente del golfo sta cambiando percorso, che facevano al massimo un gesto di noia quando sentivano dire che la specie umana (insieme a varie altre del tutto incolpevoli specie) ha ormai gli anni contati, tutti ora si preoccupano.
Come stupire? La centralità dell’economico nella società attuale è un dato di fatto, da nessuno (eccetto pochissimi inascoltati) messo in duscussione. Il ruolo assunto dall’economia, assai più vasto e determinante di quello, peraltro di basilare rilevanza, di necessaria funzione a garanzia del benessere e della stessa continuità vitale della collettività; il suo sistematico porsi come termine di riferimento di ogni questione, addirittura come misura di ogni valore, che puntualmente condiziona e sopraffà l’agire politico, che si impone come predicato culturale, come determinante antropologica, come “forma” della collettività stessa; in una parola il suo oggi incontestato prevalere nella dialettica produzione/riproduzione, non poteva non risultare determinante anche nella lettura dello squilibrio ambientale e nelle scelte conseguenti. Era dunque inevitabile che le prime preoccupazioni di economisti e politici rispetto alla crisi ecologica nascessero solo qualche anno fa, di fronte alla minaccia di esaurimento delle riserve petrolifere. Così come è inevitabile che gravissime preoccupazioni si impongano ora, di fronte ai conti firmati da Sir Nicholas Stern: un cambiamento climatico da 3.68 trilioni di sterline (5,5 trilioni di euro) se non si provvede a tempo.
Ma il guaio è che, anche nel provvedere, inevitabilmente sarà la logica economica imperante a dettare scelte e strategie. Che mai si parlerà di necessario contenimento dei consumi, di limiti da porre a un iperproduttivismo fine a se stesso, di possibili alternative a un paradigma socioeconomico in cui convivono 854 milioni di persone denutrite e distruzioni di enormi derrate alimentari regolarmente previste dai paesi occidentali a sostegno dei propri mercati. Che mai verrà sollevato qualche dubbio riguardo a quella clamorosa aporia che chiamiamo sviluppo, mai verrà posta l’ipotesi di una diversa idea di futuro.
Nulla di simile è infatti previsto, almeno a quanto ne dicono i resoconti giornalistici, dal rapporto Stern. Oltre a un cospicuo finanziamento per la ricerca di energie rinnovabili, e a un complesso sistema di tassazioni, destinato a colpire le attività e i prodotti più gravemente inquinanti, ciò che si propone e raccomanda alla cittadinanza non sembra andare molto oltre la vulgata verde più banale: ricordarsi di spegnere le luci uscendo la sera, non dimenticare rubinetti aperti, acquistare case costruite secondo regole ecologiche, scegliere auto “ibride”, cioè ad alimetazione combinata tra benzina e elettricità, magari usare treni e navi in luogo di aerei, e simili. Ignorando che la produzione di un’automobile, anche se “ibrida”, inquina gravemente, così come gravemente inquina la rottamazione della (magari non tanto vecchia) auto che va a sostituire; ignorando che anche i nuovi edifici costruiti secondo le migliori regole ecologiche concorrono a quel processo di cementificazione che è tra le principali cause dei fenomeni alluvionali; ignorando che anche treni e navi inquinano la loro parte, ancorché meno degli aerei. Eccetera. Ciò che si propone insomma non è (quando mai?) contenere produzione e consumi, ma spostarli da un settore all’altro, puntando su quel clamoroso ossimoro rappresentato dalla “crescita economica ecocompatibile”, su cui l’intera economia occidentale, forse impressionata dalle cupe previsioni del rapporto Stern, sembra lanciatissima.
Con un ampio servizio annunciato in prima pagina ce ne informa il Corriere della Sera (1 novembre 06), raccontandoci “I nuovi verdi”, cioè petrolieri, finanzieri, assicuratori, e dettagliatamente descrivendo i mille modi in cui la tutela dell’ambiente stia diventando “il business del futuro”. Assicurazioni scottate da Katrina e analoghe sciagure americane, che tentano di recuperare offrendo polizze scontatissime per auto e abitazioni ecologiche, finanzieri che investono miliardi in ipotesi di biocarburanti agricoli, grandi magazzini che - quali meriti vantando non è detto - si pubblicizzano come “verdi”, potenti potrolieri che si mettono a produrre metanolo o a perfezionare pannelli solari, candidati alle elezioni mid-term che promettono tasse più pesanti per tutti i prodotti petroliferi, ecc.
Il tema di questo attivismo verde, entusiasticamente esploso in Usa, viene ripreso anche dall’Economist, il quale nota come con l’occasione si stia producendo una curiosa e del tutto inedita coalizione di interessi, in cui ambientalisti della sinistra radicale siedono a fianco di falchi conservatori, interessati ad un’America non più dipendente dal petrolio arabo. Il Financial Times (2 novembre) si occupa del rischio prospettato dal rapporto Stern, ma per riprendere un’idea dell’Agenzia energetica internazionale e proporre - guarda un po’ - un rilancio planetario del nucleare.
Scienziati di larga fama e indiscussa attendibilità (oggi legittimati perfino da un illustre economista, ex dirigente della Banca Mondiale e attualmente consigliere economico del governo britannico) hanno indicato il 2050 come l’anno “X” dell’esaurimento delle risorse terrestri: ma nessuno sembra ricordarlo. Scongiurare il collasso economico è il solo obiettivo che va motivando l’“attivismo verde” del mondo. Non c’è dubbio, ha ragione Sansonetti, le parole più adatte per dire tutto questo vanno cercate in un manuale di psichiatria.