flessibile o precario? Viaggio nel mondo dell'insicurezza alla ricerca di diritti negati



 da  il manifesto 06 Aprile 2006
 
Un catalogo per i non addetti al lavori e qualche suggerimento alla politica
Flessibile o precario? Viaggio nel mondo dell'insicurezza alla ricerca di diritti negati.
 
Tra partite Iva e parasubordinati, contratti a progetto e lavori a chiamata, o ripartiti. Per non parlare dei contratti a tempo determinato la cui estensione spropositata produce effetti intollerabili. In realtà, flessibilità e competitività si potrebbero garantire evitando la precarietà e, dunque, l'insicurezza
ALBERTO PICCININI *
Capita periodicamente che l'opinione pubblica mostri interesse, per un breve arco di tempo, per temi specifici in precedenza trascurati, sui quali in molti sentono il bisogno di prendere posizione. Accade così che l'attenzione per questi temi, solitamente trattati dai soli addetti ai lavori, si «allarghi» a un uditorio più ampio, con l'indubbio vantaggio di una loro maggiore diffusione, con il rischio di una certa approssimazione. E' quindi necessario, per orientarsi tra concetti quali flessibilità e precarietà, fare uno sforzo di catalogazione.
Bisogna in primo luogo distinguere le figure giuridiche «precarie» con contratto di lavoro subordinato da quelle con contratto para-subordinato (quindi, giuridicamente, lavoro autonomo), come i co.co.co., i contratti a progetto e le cosiddette «partite Iva», oltre ad altre figure di lavoro più o meno autonomo (si pensi, ad esempio, alle molteplici forme di collaborazioni giornalistiche spesso compensate «a pezzo», che costituiscono oggi l'asse portante delle redazioni di molti quotidiani). Tali figure talvolta corrispondono a forme di lavoro effettivamente autonomo, sono cioè genuine, mentre altre volte sono utilizzate fraudolentemente per mascherare rapporti sostanzialmente dipendenti. Esse presentano infatti, per i datori di lavoro, soprattutto tre vantaggi, rispetto ai contratti di lavoro a tempo indeterminato: 1) il primo è il minor costo, dato a) dai minori oneri contributivi (ed è su questo che il programma dell'Unione promette di intervenire, per equipararli) b) dal fatto che non esistono tabelle salariali che impongano compensi minimi mensili; 2) il secondo riguarda le minori garanzie in materia di ferie, malattia, maternità, diritti sindacali ecc.; 3) il terzo è dato dall'inesistenza di regole che disciplinino la cessazione del rapporto. Ai corrispondenti svantaggi per il prestatore di lavoro, si aggiunge quello della minor tutela del credito, con le seguenti conseguenze negative in caso di insolvenza del datore di lavoro: 1) i crediti dei collaboratori non dipendenti hanno un privilegio di grado inferiore; 2) nei loro confronti non interviene alcun fondo di garanzia (che per lavoratori subordinati copre integralmente il pagamento del Tfr e parzialmente quello delle ultime tre mensilità); 3) se prestano attività per una società che lavora con appalti, l'appaltante non garantisce il mancato pagamento dei compensi.
I subordinati
Ma quando si parla di precariato ci si riferisce spesso anche a figure di lavoro subordinato e in particolare al contratto a tempo determinato (tralasciando quelle introdotte dal decreto legislativo attuativo della legge 30 del 2003, addirittura folkloristiche, come il lavoro a chiamata o il lavoro ripartito). Si è infatti solo oggi «scoperto» che - ad esempio - circa la metà dei giovani che hanno trovato un impiego nel 2005 sono stati assunti con contratto a termine. Questo fenomeno viene giustificato, da alcuni commentatori, con la necessità di «provare» i neo assunti, ma ciò in realtà rivela un uso distorto dell'istituto (rammentiamo che, con la proroga, il contratto a tempo determinato può durare tre anni). La legge, infatti prevede una durata massima del periodo di prova di sei mesi, la cui misura viene fissata dai contratti collettivi: è in questa sede, eventualmente, che si potrebbe intervenire, tenendo comunque conto che - come insegna l'esperienza francese di questi giorni - quando si tenta di dilatare spropositatamente tale termine, l'istituto assume effetti perversi ed intollerabili.
La ragione profonda della preferenza per i rapporti a tempo determinato risiede nella facoltà del datore di lavoro di scegliere, alla scadenza del termine, se stabilizzare il rapporto o estromettere il dipendente, senza dover fornire alcuna giustificazione : ciò condiziona fatalmente l'esercizio di tutti gli altri diritti individuali e sindacali formalmente riconosciuti, compreso quello di sciopero.
C'è poi un terzo gruppo di lavoratori precari, che ricomprende tutti coloro che prestano la loro opera con contratto di lavoro subordinato ma il cui datore di lavoro non coincide con l'utilizzatore della loro prestazione lavorativa: sono i lavoratori somministrati e i dipendenti di imprese che lavorano in appalto. Si tratta di un tema del tutto centrale, che tuttavia non può essere approfondito in questa sede.
Le domande di fondo che si affacciano con sempre maggior insistenza nel dibattito politico sono di due ordini: ci si chiede in primo luogo se il fenomeno del lavoro precario sia effettivamente funzionale alle esigenze di flessibilità; in secondo luogo se e in che misura esso possa, realisticamente, essere ridimensionato e/o meglio garantito.
Quanto al primo punto, va premesso che oggi, anche nel nostro paese, si sta registrando un'inversione di tendenza: un eccessivo turn over della manodopera, infatti, non consente il consolidarsi della conoscenza e della professionalità, con conseguenze nocive per la qualità dei prodotti e dei servizi resi, per cui le imprese più avvedute si stanno industriando per favorire forme di «fidelizzazione» della manodopera, anche al fine di rendere più motivati i propri collaboratori. Quando si parla di flessibilità occorre distinguere. La flessibilità in entrata è oggi la massima immaginabile: qualunque datore di lavoro può assumere chiunque voglia, senza intermediari pubblici, con la sola eccezione delle categorie protette (come i portatori di handicap) per le quali esiste in tutto il mondo civile una legislazione di sostegno. La flessibilità in uscita non è affatto collegata - come vorrebbe certa propaganda - alle presunte rigidità imposte dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che regolamenta solo il licenziamento individuale vietandolo se ingiustificato (e quindi arbitrario), ma comunque consentendolo per inadempienze del lavoratore o «per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Del resto, le riduzioni di personale significative (a partire da cinque dipendenti) alle quali si fa ricorso in caso di ristrutturazioni o chiusura di aziende, vengono disciplinate da una diversa legge (la 223 del 1991) che prevede una particolare procedura sindacale, che ha trovato pacifica e non contestata applicazione da parte delle imprese nel corso degli ultimi quindici anni. Per via di questa legge esiste una grande mobilità (e conseguente flessibilità in uscita) della forza lavoro.
La flessibilità in costanza di rapporto è, invece, altra cosa. Essa si lega all'esigenza, alimentata dal portato dell'innovazione tecnologica e dall'ingresso in produzione di fattori come il linguaggio e la comunicazione, di disporre di una forza lavoro duttile e polioperativa, capace di adattarsi alle rapide trasformazioni che attraversano le nuove realtà produttive, o ancora all'esigenza di rispondere alle oscillazioni della domanda esposta alle turbolenze del mercato. Se a questa seconda esigenza si può far fronte con strumenti già presenti nell'ordinamento giuridico (concordando una rimodulazione dell'orario di lavoro, ricorrendo al lavoro straordinario o, ancora, alle assunzioni a tempo determinato motivate da precise esigenze di carattere temporaneo), la prima richiede soprattutto maggiori investimenti sul terreno prezioso della formazione, da riconoscere sia dentro che fuori dai rapporti di lavoro.
Dunque, a ben vedere, non c'è un nesso logico tra le condizioni di precariato in cui viene tenuta, per un tempo spropositato, la maggioranza dei giovani in cerca di lavoro e le reali esigenze produttive: c'è solo un vantaggio, economico e di potere, per quei datori di lavoro che praticano la cosiddetta via bassa alla competitività, cui fanno da contrappunto non solo le condizioni di vita di tanti lavoratori impossibilitati a progettare un futuro, ma anche le condizioni, altrettanto «precarie», in cui versa la stessa economia italiana.
Rispondendo al secondo degli interrogativi da cui si sono prese le mosse, va detto che ci sono più strade per contrastare il fenomeno del lavoro precario, che non possono limitarsi a maggiori e più moderne tutele nel mercato del lavoro, certo necessarie ma insufficienti.
Per contenere il ricorso al lavoro a termine si potrebbe intervenire innanzitutto limitandone la durata, fissando per legge una percentuale massima di tali lavoratori in proporzione rispetto agli altri occupati nello stesso luogo di lavoro, o ancora prevedendo un costo contributivo aggiuntivo finalizzato a disincentivarne l'utilizzo, in alcune ipotesi.
I diritti minimi
Quanto ai lavoratori autonomi, sia quelli falsi che quelli veri - i quali, pur svolgendo la propria attività in regime di relativa autonomia esecutiva, tuttavia lavorano a favore di un committente unico o prevalente in condizioni di dipendenza economica - va detto che la soluzione, opportuna, di aumentare il costo dei contributi lascia comunque aperto il problema delle tutele, vecchie e nuove, che i collaboratori reclamano. Bisognerebbe, perciò, riconoscere anche a loro una serie di diritti minimi inderogabili (dal diritto alla formazione ai diritti sindacali), incluso il diritto alla stabilità del rapporto, seguendo la strada imboccata oggi in Spagna per il «trabajo autònomo dependiente». Diversamente, quando il titolare di un'impresa può sciogliere il rapporto senza motivo e con una manciata di giorni di preavviso, diritti e tutele sono tali solo sulla carta perché nessuno può in concreto esercitarli.
Una seconda via, forse più ambiziosa, suggerirebbe di metter mano al codice civile del 1942, ripensando il concetto stesso di lavoratore meritevole di tutela, oggi stretto nel recinto, troppo angusto, della subordinazione tecnico-giuridica, per giungere a una tutela di tutti coloro che non lavorano per sé ma per qualcun altro, indipendentemente dal fatto, solo contingente, che siano o meno soggetti a sorveglianza e direttive continue e puntuali in ordine a come svolgere il lavoro. Esistono in cantiere interessanti proposte di legge che evocano la figura del lavoratore economicamente dipendente, o lavoratore per conto altrui, individuando il soggetto da proteggere in colui che presta un'attività, materiale o intellettuale, in via continuativa a favore di un datore di lavoro unico o prevalente. A questo lavoratore, al di là della forma del contratto e delle modalità di esecuzione del lavoro concordate (eventualmente molto autonome ed elastiche), andrebbe riconosciuto l'intero universo delle tutele previste dalle leggi e dai contratti collettivi, ad eccezione di quelle norme intimamente legate alla condizione di lavoratore dipendente ed «eterodiretto».
In conclusione, è possibile immaginare un nuovo compromesso sociale che tenga conto delle trasformazioni intervenute nel sistema produttivo e dell'esigenza di garantire competitività e flessibilità, ma che nel contempo, senza arroccarsi su modelli obsoleti, non crei inutili insicurezze in chi vive solo del proprio lavoro. Basterebbe volerlo.
* giuslavorista