economia mondiale e guerra



 dal manifesto
04 Novembre 2005

La discesa di Keynes negli atelier della guerra globale
ENZO MODUGNO
 
Un percorso di lettura per decifrare la «guerra misteriosa» in Iraq. All'origine del conflitto non ci sono le armi di distruzione di massa, ma la necessità di regolare militarmente l'economia mondiale. Un «keynesismo militare» che alimenta la produzione di insicurezza e la sua gestione attraverso il rilancio degli investimenti nell'industria bellica
ENZO MODUGNO
Alain Joxe, maggiore esperto francese di studi strategici e presidente di un centro di ricerche sulla pace, in un saggio apparso nel primo numero de rivista Conflitti globali (Shake Edizioni, pp. 150, € 15,00, presentata dal suo direttore Alessandro Dal Lago su queste pagine il 12/5/05), espone una interpretazione della guerra in Iraq più volte discussa su questo giornale. Joxe non utilizza criteri militari ma identifica nella spesa pubblica per gli armamenti il metodo adottato dalle amministrazioni Usa per «regolare» il sistema capitalistico in presenza di una crisi economica: «si scatena con il governo Bush una nuova fase di rilancio attraverso la corsa agli armamenti e la guerra». E' ciò che Joseph Halevi ha chiamato «Keynesismo (militare) in un paese solo» (il manifesto del 28/9/2005. Ma la spesa militare deve essere giustificata da una minaccia esterna, e poiché Iraq e Corea del Nord, secondo Joxe, «sono casi rari, risulta necessario, e si procede in tal senso, produrre continuamente zone di intervento per creare una regolazione militare globale permanente» dell'economia capitalistica. Per verificare questa tesi, possiamo rifarci ad un'osservazione di John Keegan, il maggiore storico militare inglese, che ha definito il conflitto in Iraq «una guerra misteriosa», cioè militarmente priva di senso, nella quale la «grande armata della stampa» è diventata più importante degli uomini e donne in armi veri e propri. Una valutazione che, superando i criteri militari, permette di porre una prima questione: se la giustificazione della guerra sia più importante della guerra stessa.

Fucilati per un lapsus

Proviamo quindi a considerare la guerra nei paradigmi dell'industria culturale e della produzione capitalistica di informazioni. La guerra ci appare allora come un evento endemico, retorico, seriale, riproducibile, confezionato dai comandi militari Usa e dagli embedded per coinvolgere spettatori già predisposti ai resoconti ufficiali, che non debbono esercitare nessuno sforzo intellettuale per capirne di più - per questo vengono perseguitati i giornalisti indipendenti. Gli spettatori vengono incalzati quotidianamente da un'ininterrotta serie di effetti, dal caos organizzato dai servizi, dallo stillicidio di una minaccia esterna che si riproduce con caratteristiche sempre uguali.
Ma avere paura «significa essere d'accordo», far parte di un sentire collettivo, che è però la parodia della «difesa della patria». Da una parte una minaccia diluita deve far presa di continuo, non si deve poter pensare che sia svanita. Dall'altra, come ha scritto il filosofo tedesco Theodor Adorno, si può essere «fucilati per un lapsus»: la gestione militare dell'economia, che non può funzionare senza limitare i diritti fondamentali, è la vera ragione dell'attacco alla democrazia. Per questo, più che al rapporto guerra-potere, il conflitto militare in Iraq rinvia al rapporto guerra-economia.
La sicurezza viene dunque presentata dall'amministrazione statunitense come una condizione che può essere garantita con l'ingente spesa pubblica militare, ma nello stesso tempo viene organizzata preventivamente perché eternamente minacciata. La sicurezza, come qualsiasi altra merce, deve quindi consumarsi rapidamente perché se ne possa produrre sempre di più. Il riarmo illimitato rivela così la sua affinità con i profitti capitalistici. La sicurezza, a cui l'amministrazione Usa promette di provvedere, si riduce ad una promessa indefinitamente prorogata, fatta di giorno e disfatta di notte.
Si producono così sicurezza e condizioni per produrre sicurezza, per evitare le lunghe depressioni tra una guerra e l'altra come avvenne dopo la crisi del `29, in attesa che le spese militari della seconda guerra mondiale rilanciassero finalmente l'economia Usa. A questo fine sono state eliminate le attese, abolite le pause, colmati gli interstizi, attenuate le differenze tra pace e guerra.
Ma la produzione di occasioni per intervenire militarmente - la produzione del nemico - costituisce anche il risultato più avanzato della produzione capitalistica di informazioni, in qualche modo il suo «lato magnifico», perchè si ottengono gli stessi effetti benefici sull'economia che ebbero le guerre mondiali, ma in tempi brevi, in qualsiasi momento, con una diversa dimensione del massacro.
Per verificare le tesi di Joxe c'è una seconda questione che non si ferma ai criteri militari e può fondare materialisticamente questo tipo di approccio: l'analisi della spesa per la sicurezza. Qualcosa come 800 miliardi di dollari, calcolando tutte le voci, che col moltiplicatore al 2,5 assicurerebbero un quinto del Pil degli Stati uniti. Si vedano i recenti dati Ocse sul business dell'antiterrorismo in forte crescita (Anna Maria Merlo, il manifesto del 12 ottobre 2005) e il documentatissimo saggio di Vladimiro Giacchè nel volume collettivo Escalation (Derive Approdi). Anche Karl Kraus - ci ricorda Giacchè in un altro saggio su questo autore - ha trattato del rapporto tra militarismo ed economia: «fanno quadrare i propri bilanci con le bombe». Per Frederic Lane è l'«industria produttrice di protezione».

Industria della protezione

Anche il movimento operaio, analizzando la funzione economica del militarismo, aveva sostenuto che le spese per gli armamenti non servono solo per il dominio di classe all'interno e per le guerre di rapina all'esterno, ma anche per assicurare un mercato addizionale alla produzione capitalistica sempre sull'orlo della crisi di sovrapproduzione. E che qualunque rallentamento di questo flusso di domanda aggiuntiva avrebbe aumentato l'incidenza della crisi per l'intero sistema.
Oggi ogni funzionario dell'amministrazione Usa sa bene - e lo si legge nei Reports presidenziali al Congresso - che aumenti o diminuzioni della spesa militare determinano la crescita o il rallentamento di tutta l'economia. Una leva importante per la politica economica Usa. Il ciclo economico, ha osservato in passato lo studioso Paul Mattick, è diventato un ciclo di guerre.
Questa gestione militare dell'economia, che si avvale di numerose istituzioni, coinvolge soprattutto i generali del Pentagono, che per assecondare il mondo degli affari conducono guerre interminabili o guerre di rapina alla rovescia - dopo aver rapinato tutto, sottraggono al mercato grandi riserve di petrolio per triplicarne il prezzo. Interventi che li espongono al sarcasmo degli storici militari: «incapaci, incompetenti» scrive sul Washington Post (luglio 2005) Eliot Cohen che insegna Studi strategici alla Johns Hopkins University. E John Keegan, che ha insegnato alla Royal Military Academy Sandhurst, ha ironizzato sugli strateghi del Pentagono come solo un inglese poteva fare. Anche il comandante dell'aggressione Usa in Vietnam, Westmoreland - ironia dei cognomi - fu definito dallo storico Arthur Schlesinger «il nostro generale più disastroso dai tempi di Custer».
Una terza questione dunque - il ricorrente «impantanarsi» dei marines - se letta semplicemente con criteri militari, appare da un lato agli analisti militari come indeterminazione di generali incapaci. Ma appare d'altro lato come vittoria della resistenza ad una parte della sinistra che considera la lotta antimperialista soprattutto come una questione militare. È difficile determinare - e perfino ammettere - il grado di manipolazione e di utilizzazione delle lotte di resistenza dei popoli aggrediti con i quali si solidarizza.
Michael Hardt invece, sulla rivista «Posse» (manifestolibri, maggio 2005, pp. 150, € 15,00), ritiene che il mancato cambiamento della disastrosa strategia militare Usa in Iraq sia «l'elemento di maggior interesse e il più meritevole di analisi». Mancato cambiamento che Hardt attribuisce a motivi non militari ma «ideologici o di altro genere».
Ma se, ritenuti insufficienti i criteri militari, diamo anche una risposta al perché di queste guerre - volte non solo al mantenimento di un impero facilmente sfruttabile ma ormai soprattutto, come sostiene Joxe, alla «regolazione» del sistema economico - diventa possibile accorgersi che gli Usa non tendono alla vittoria ma al prolungamento dei conflitti. Continuano a devastare con metodo interi paesi - utilizzando i conflitti interetnici o la resistenza dei popoli aggrediti - per alimentare ciò che Seymour Melman ha chiamato permanent war economy, cioè la dipendenza dell'economia Usa dalla produzione dell'industria bellica.
Dal terrore nucleare al terrorismo, dall'anticomunismo all'antislamismo - il film di George Clooney arriva a proposito - si ripete lo stesso copione.