bhopal: la globalità del male



Bhopal: la globalità del male
di Claudio Gallo
La Stampa 02/12/04

I granelli di sabbia della notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 stavano
per precipitare nella clessidra della storia: Bhopal era ancora soltanto una
città a Sud di Delhi, circondata da giungle rigogliose, conosciuta per le
acque argentine del suo lago e per il Taj-ul-Masjid, una delle più grandi
moschee dell'India. In quella terra sprofondata nel passato e nella miseria
sibilava un mostro di 290 metri quadrati venuto per annunciare il futuro:
«la scienza aiuta a costruire una nuova India», diceva allora la pubblicità
della Union Carbide, la multinazionale americana che aveva impiantato lo
stabilimento per la produzione di pesticidi. Poco dopo la mezzanotte la
poderosa corsa del progresso inciampò nel serbatoio E610 dove si conservava
a temperatura costante il micidiale gas metil-isocianato. L'indicatore della
pressione sul pannello di controllo prese a schizzare in alto fino a
superare il rosso del limite massimo. Un sabotaggio, disse poi senza poterlo
dimostrare l'Union Carbide, una maldestra operazione di pulitura degli
impianti dissero altri. La reazione esotermica dovuta al contatto fra gas e
acqua squassò la cisterna che fu sbalzata fuori dal suo letto di terra. Gli
apparati di sicurezza erano guasti oppure disattivati, neppure la sirena di
allarme funzionò mentre decine di tonnellate di gas (da venti a quaranta,
nelle varie ricostruzioni dei fatti) si sparsero sulla città sotto forma di
una coltre di nubi lattiginosa.
Un alito velenoso intrappolò in poco tempo un'area di venti chilometri
quadrati prima che la gente potesse accorgersi di quanto stava succedendo e
cercare di fuggire. Quelli presi nel primo abbraccio tossico morirono per lo
più nel sonno, molti ancora sotto le coperte. Fotografie color seppia
mostrano bambini uccisi, ciascuno con un foglio di cartone sul petto a
catalogare con un nome e pochi numeri una vita svanita: le bocche
spalancate, un doloroso stupore in volto. I dati sui morti e sui fatti di
quella notte sono discordanti, sembra che il gas opalescente si sia posato
sull'intera vicenda come un potere maligno volto a corrodere la verità. Le
cifre comunque variano da 8 a 10 mila vittime, quest'ultima forse più
realistica.
Racconta il giornalista e scrittore indiano Indra Sinha, uno degli animatori
della «Campaign for Justice in Bhopal»: «Quando scattò l'allarme, tutti
cominciarono a scappare portandosi dietro vecchi, bambini nelle culle,
ammalati, vacche e cani. Si riversarono in strada, gli stretti budelli della
città vecchia subito si intasarono. Ci furono scene di panico, gente
calpestata, bambini smarriti. Intorno ai lampioni non ronzava alcun insetto,
una cosa irreale». Per quelli nei fatidici venti chilometri quadrati fu una
morte orribile. Continua Sinha: «La gente moriva mentre gli escrementi
colavano loro dalle gambe, il gas lacerava le pupille, ulcerava i polmoni.
Per terra corpi aggrovigliati si contorcevano presi da convulsioni». Il
giorno dopo cominciava ufficialmente il calvario di Bhopal con i
sopravvissuti negli ospedali che sputavano i polmoni, relitti ciechi che
esprimevano soltanto dolore.
Sono passati vent'anni da allora e secondo le stime di Greenpeace per le
conseguenze del disastro continua a morire una media di venti persone al
giorno. Qualche settimana fa Paul Vickers della Bbc è andato a Bhopal con
una provetta per fare analizzare l'acqua dei pozzi: «Presenta livelli di
contaminazione 500 volte maggiori del limite massimo raccomandato dalla
Organizzazione Mondiale della Sanità», ha detto. Fa sorridere che sul sito
web della Bbc il paragrafo dove si illustrano i dati dell'analisi abbia un
titolo comicamente prudente: «Risultati controversi». Infatti nel 1998,
l'anno in cui cedette lo stabilimento, la Union Carbide sostenne «di non
aver trovato tracce di contaminazione nelle falde acquifere», anche se un
altro studio commissionato dalla multinazionale americana espresse qualche
dubbio.
Bhopal è una saga della tenacia del male, ma il bene? I «nostri» non
arrivano mai? Bhopal è anche una saga dell'amarezza e del disincanto. Oggi,
così com'era, la Union Carbide non esiste più, è stata assorbita dalla Dow
Chemical Co (Ricordate il suo «Agent Orange», uno dei più famigerati
defolianti usati in Vietnam?) che rifiuta ogni coinvolgimento nella vicenda.
Nel 1989 La Union Carbide fece un accordo extragiudiziario con l'Alta corte
indiana e versò un'una tantum di 470 milioni di dollari da destinare alla
vittime. Finora, vent'anni dopo, i circa 500 mila che hanno dimostrato di
aver diritto al risarcimento hanno ricevuto circa 345 dollari, sebbene
recentemente un tribunale indiano abbia intimato di distribuire 345 milioni
di dollari dell'accordo che ancora giacciono nelle casse dello Stato a
maturare interessi. La Union Carbide si è sempre difesa dicendo di avere
aiutato le vittime e di aver anche costruito nel 1996 un ospedale da 90
milioni di dollari a Bhopal. Dice Satinath Sarangi, uno dei leader della
protesta: «l'ospedale è un centro a pagamento dove i poveri non potranno mai
entrare. Oltrettutto la specialità principale è la cardiologia». Una delle
prime e principali richieste del movimento che si è creato nella città
martoriata del Madhya Pradesh è che l'allora direttore generale della Union
Carbide, l'americano Warren Anderson, finisca davanti a un tribunale insieme
ad altri dirigenti, tra cui alcuni indiani. Ha scritto Sundana Deshpande,
attrice teatrale e regista indiana: «A Bhopal ci sono state molte, molte più
vittime che nell'11 settembre. Per quel crimine, sul suolo degli Stati
Uniti, migliaia di innocenti hanno dovuto pagare nel lontano Afghanistan. I
colpevoli di Bhopal sono invece tutti liberi sul suolo degli Stati Uniti. I
sopravvissuti di Bhopal non dimenticano questa ingiustizia. Per questo nelle
manifestazioni che commemorano il disastro ci sono cartelli che dicono:
volete Osama, dateci Anderson». Lo scorso anno New Delhi chiese
l'estradizione di Anderson, ora ottantenne e in pensione, per processarlo a
Bhopal con l'accusa di omicidio. Come in un brutto giallo dove fin
dall'inizio si capisce come andrà a finire, le autorità americane hanno alla
fine respinto la richiesta (legittima perché tra i due paesi esiste un
trattato di estradizione) per «motivi tecnici».
Al di là delle vite distrutte o spezzate (diceva il santo tabaccaio di
Bombay che con noi muore il mondo intero), la strage di Bhopal rappresenta
la cattiva coscienza della globalizzazione. Nel trasferimento di tecnologia
da Occidente al Terzo Mondo, il tarlo del profitto a tutti i costi divorò la
qualità dei macchinari, la solidità dei progetti. Lo stabilimento di Bhopal
non avrebbe mai potuto eistere in Occidente. L'abbassamento dei parametri di
sicurezza era finalizzato al taglio dei costi: era uno dei motivi
principali, oltre al mercato emergente, per fare uno stabilimento laggiù.
Già alla fine dell'800 si disse che in India le ferrovie fatte costruire
dagli inglesi avrebbero evitato le carestie ma poi, in piena carestia, si
scoprì che i treni servivano a portare il grano destinato all'Inghilterra,
come ha raccontato Mike Davis. E la giustizia? Vent'anni dopo per Bhopal
nessuno ha ancora pagato di persona ed è facile prevedere che nessuno
pagherà mai.