sviluppo sostenibile una teoria controversa



da altronovecento.it

"Sviluppo sostenibile". Riflessioni attorno ad una teoria controversa.

Marino Ruzzenenti

1."SVILUPPO SOSTENIBILE" E TEORIA ECONOMICA.
Anche l'economia, nella recente fase dell'insorgenza dell'allarme ecologico,
ha dovuto in qualche modo  fare i  conti con la questione  ambientale.
Molto spesso male, in verità, ed in modo alquanto  affannoso. D'altronde il
concetto di "sviluppo sostenibile", ormai largamente usato nell'ultimo
decennio, rinvia innanzitutto al discorso sull'economia e pone in
discussione alcuni fondamenti della stessa teoria economica.
L'avvio di  un  rovesciamento concettuale nella  teoria economica va
collegato alla pubblicazione, nel 1971, di The Entropy Law and the Economic
Process  di Georgescu-Roegen. In  realtà,  come  ha  puntigliosamente
ricostruito nelle sue  ricerche  l'economista spagnolo Juan Martinez-Alier,
da oltre un secolo numerosi studiosi si sono occupati delle relazioni tra la
teoria  economica e  lo  studio  dei  flussi di energia nelle società umane.
Il  grande  problema  che  autori  come  Podolinskij, Clausius,
Popper-Lyncheus,  Neurath e altri hanno cercato  di  affrontare è quello
delle  fonti  esauribili  di  energia,  nel  tentativo di elaborare una
teoria economica dell'uso di questo tipo  di risorse. Il caso delle risorse
energetiche esauribili è infatti esemplare per rivelare i limiti
epistemologici  dell'economia classica. Questa teoria economica dimostra
clamorosamente di non essere attrezzata per  affrontare  il problema della
loro  allocazione intergenerazionale. Infatti,  ogni modello di uso di
combustibili fossili e altre risorse non rinnovabili implica una scelta
distributiva tra la generazione presente e le  generazioni future (se si
ritiene non  accettabile che l'umanità attuale si appropri in esclusiva
dell'intero patrimonio di risorse esauribili!).
Il mercato, invece, come regolatore dei prezzi e dei flussi delle merci
presuppone  un  radicale  individualismo  metodologico che prescinde da ogni
principio morale.  "Lo sforzo uniforme ed ininterrotto di ogni  uomo per
migliorare la propria condizione, questo principio dal quale scaturisce  la
ricchezza pubblica e nazionale come quella privata, è spesso abbastanza
forte per dirigere il  naturale  corso delle cose  verso  il progresso...",
scriveva nel 1776  Adam Smith nella sua Inchiesta sopra la natura e  le
cause  della  ricchezza  delle  nazioni.
L'individualismo egoistico del consumatore  viene così posto a fondamento di
un  mercato autoregolantesi e capace  di rispondere contemporaneamente sia
agli interessi del singolo che dell'intera umanità.  In questo contesto
anche l'allocazione delle risorse è l'esclusiva risultante di  transazioni
fra individui.  Ma "quando si tratta  di risorse  esauribili,  il principio
secondo il quale
l'allocazione  delle risorse deve  corrispondere  alle preferenze degli
agenti economici si scontra con una  difficoltà ontologica: molti  degli
agenti  economici interessati non sono  ancora nati, per cui non possono
esprimere le loro preferenze e la loro disponibilità a pagare"  ( Ma questo
assunto potrebbe valere anche per tutti quegli uomini e quelle donne che
sono oggi fuori dal mercato, perché non solvibili essendo sostanzialmente
privi di reddito). E' evidente che per dare a queste domande future una loro
ponderazione (pesante? leggera?) è necessario fuoriuscire dalla teoria
economica  classica  ed  ancorarsi  a  principi  morali per stabilire ad
esempio se la domanda futura  di risorse esauribili debba essere
sopravvalutata piuttosto che  sottovalutata (e quindi debba  essere
fortemente  limitata  la  domanda  attuale).
Il limite della teoria  classica è che considera l'economia un sistema
chiuso in sé, di cui ignora  del  tutto le implicazioni sul lungo periodo
(le generazioni  future), perché sostanzialmente incapace di  previsione: i
bisogni delle generazioni future (sia in termini di risorse esauribili  che
di quantità  di  rifiuti  per loro accettabili, ad es. scorie radioattive)
sono del tutto incommensurabili perché sono esterni al mercato e quindi  non
possono rientrare  nel  conto economico .
Ma l'economia classica era un sistema chiuso  anche perché non considerava
il  fattore natura  come  decisivo  non  solo  per il funzionamento,  ma per
la  stessa  sopravvivenza  di un'economia umana.  L'economia classica  ha
considerato la  produzione della ricchezza come un fattore esclusivo
dell'attività umana per cui l'unica  preoccupazione era l'incremento della
produttività di quello che  era  ritenuto  il  fattore  limitante  (capitale
costante e capitale  variabile).  La natura,  a cui si attingevano risorse e
materie prime,  era ritenuta una fonte inesauribile e  quindi non rientrava
nelle preoccupazioni e nella contabilità degli economisti. L'economia era
una scienza esclusivamente sociale del tutto separata dalle scienze
naturali. Anche  per  questo dal punto di vista epistemologico l'economia
classica era incapace di comprendere nei propri calcoli il fattore natura.
In questo senso e' significativo notare come molti dei precursori
dell'economia ecologica provenissero dall'area delle scienze naturali
(Podolinskij,   Clausius,  Popper-Lynkeus...).
Tuttavia gli effetti dell'economia umana sulla natura (sia in termini di
prelievo di risorse che di scarico  di rifiuti), chiamati dagli ecologisti
esternalità, sono spesso difficilmente valutabili  anche  con il  supporto
delle scienze  naturali. Emblematico è l'esempio dell'effetto  serra e dei
calcoli sul riscaldamento globale: gli scienziati sono stati a lungo divisi,
sia sulle previsioni climatiche, sia sui possibili effetti positivi o
negativi dei fenomeni descritti . E' anche per questo che il punto di  vista
ecologico ha  accentuato i temi della complessità,  della casualità, della
non linearità e non prevedibilità di alcuni fenomeni naturali, ponendo anche
seri interrogativi di epistemologia delle scienze.
In conclusione, molti elementi dell'economia che un punto di vista ecologico
evidenzia come centrali (allocazione intergenerazionale delle risorse
esauribili, esternalità) risultano difficilmente commensurabili .
"L'economia di mercato da sola non è in grado di essere la chiave di volta
razionale per  la  distribuzione intertemporale di risorse e rifiuti" .
L'economia ecologica,  allora,  non  può che chiedere soccorso alle  scienze
naturali,  ma anche  all'etica  e  soprattutto alla politica,  nel  cui
ambito  si  possono  definire  scelte  dalle implicazioni  estremamente
complesse,  non sempre prevedibili con certezza e tuttavia  di
straordinaria  rilevanza  per  il futuro dell'umanità.
Il compito è particolarmente complesso perché sembra non possa essere di
grande aiuto neppure la critica all'economia classica e neoclassica che ha
segnato l'intero novecento e che si è proposta come  alternativa di sistema
al capitalismo: il marxismo e l'economia socialista. Anche il  marxismo in
ultima analisi considera l'economia come un sistema chiuso i cui attori
fondamentali sono gli uomini  e i prodotti  del loro  lavoro.
E' pur vero che Marx ha scritto che i fattori elementari del processo di
lavoro sono: l'attività personale dell'uomo, ossia il lavoro in sé,
l'oggetto di questo lavoro e i suoi strumenti.  Tuttavia di questi  tre poli
del processo produttivo (uomo,  natura e attrezzi), l'analisi di Marx
considera quasi esclusivamente il primo e l'ultimo.  La natura è
sostanzialmente ignorata e la sua esistenza è sempre  considerata come un
dato elementare e invariabile. Il pensiero  marxista  è incentrato  sulla
forza  lavoro  umana come merce soggetta  alle  leggi del  mercato  e  sul
produttore come soggetto  dello  sfruttamento . In sostanza la
contraddizione principale del  modo di produzione capitalistico era
individuata da Marx fra  forze produttive e  rapporti  sociali  di
produzione, cioè fra la  progressiva socializzazione della vita  economica e
la  spinta  di  massa al consumo e alla produzione da un canto e la
proprietà privata della terra,  delle industrie e  dei  profitti  da  esse
ricavati dall'altro.
Lo sfruttamento dell'ambiente naturale e la sua appropriazione da parte dei
privati o dello stato non ha ricevuto uguale attenzione. Questo limite
teorico del marxismo appare evidente nell'esperienza dei paesi del
socialismo reale e nei disastri ecologici provocati da quei sistemi
economici (Cernobyl e non solo): la proprietà statale dei mezzi di
produzione non ha per nulla rappresentato una garanzia contro  lo  spreco
delle risorse e la distruzione della natura.
In verità vi sono stati anche alcuni "eretici" del marxismo che hanno messo
in guardia da una lettura linearmente progressista ed evoluzionista della
teoria di Marx. Walter Benjamin, in particolare, cogliendo alla radice la
tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale, non come "stato d'
eccezione" ma come "regola", irride agli oppositori che la affrontavano "in
nome del progresso".
E aggiungeva: "Non c'è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto
la persuasione di nuotare con la corrente. Per loro lo sviluppo tecnico era
il favore della corrente con cui pensavano di nuotare. Di qui era breve il
passo all'illusione che il lavoro di fabbrica, che si troverebbe nel solco
del progresso tecnico, rappresenti un risultato politico.Questo concetto
volgarmarxistico di ciò che è il lavoro, non si sofferma sulla questione di
come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non
possono disporne: vuol tener conto solo dei progressi del dominio della
natura, non dei regressi della società. Esso mostra già i tratti
tecnocratici che più tardi s'incontreranno nel fascismo. A questi tratti
appartiene anche un concetto di natura che contrasta malauguratamente con
quello delle utopie socialiste prequarantottesche. Il lavoro, come ormai
viene inteso, ha per sbocco lo sfruttamento della natura, che viene
contrapposto, con ingenua soddisfazione, allo sfruttamento del proletariato.
Al concetto corrotto di lavoro appartiene, come suo complemento, quella
natura che, come ha detto Dietzgen, <è là gratuitamente>" . Riflessioni
profetiche, quanto ampiamente ignorate.
Più  recentemente, alcuni studiosi  di  formazione marxista hanno cercato di
superare questo limite teorico.  Da questo sforzo, condotto in particolare
da James O'Connor, è nato l'ecomarxismo. Il punto di partenza di questa
elaborazione  teorica è la contraddizione tra i rapporti di produzione (e le
forze produttive) capitalistici e le  condizioni  della  produzione  stessa.
La cosiddetta "seconda contraddizione"  ( la prima è quella classica della
teoria marxista poco sopra richiamata).
Marx stesso aveva definito tre tipi di condizioni di produzione, senza
peraltro svilupparne l'analisi e approfondirne  le implicazioni. Il primo
tipo riguardava le "condizioni fisiche esterne" o gli elementi naturali,  il
secondo la "forza  lavoro", il terzo le "condizioni comunitarie". Oggi le
"condizioni fisiche esterne" emergono sotto forma di variabilità degli
ecosistemi, adeguatezza dei livelli atmosferici di ozono, qualità del suolo,
dell'aria e dell'acqua ecc.. La "forza lavoro" emerge sotto forma di
benessere fisico e mentale dei lavoratori, tipo e livello di
socializzazione,  tossicità dei rapporti di lavoro. Le "condizioni
comunitarie" emergono sotto forma di servizi  sociali, infrastrutture . In
questo contesto una trasformazione ecologica dell'economia e della società
richiede di aggredire come nodo centrale i rapporti sociali di riproduzione
delle condizioni di produzione (e cioè lo stato e le istituzioni
sovranazionali come strutture responsabili dei rapporti sociali e quindi
delle condizioni di produzione;  ma anche gli stessi rapporti di produzione
in quanto influenti sulla salute mentale e fisica della forza lavoro).
Dunque anche per questa via si  ritorna comunque alla politica  come luogo
privilegiato in cui forse è possibile  superare i limiti di  tutte le
teorie  economiche  rispetto  alle tematiche ecologiche, limiti che appaiono
ancor  più  invalicabili quando l'economia si suppone scienza
autosufficiente e si rinchiude in un orizzonte crematistico (studio della
ricchezza). Da questo punto di vista si avverte allora quanto mai stonato il
coro pressoché unanime che negli ultimi tempi si leva da tutte le parti (da
Ovest a Est, dal Sud al Nord) ad esaltare il Mercato e le  sue mirabili
leggi finalmente riconosciute anche dai più riottosi. Mentre, invece, appare
su questo punto significativa la riflessione del filosofo Emmanuele Severino
che in diversi suoi saggi  rileva come il capitalismo  si starebbe avviando
verso il tramonto proprio perché costretto a darsi un fine diverso dal
profitto che è la sua ragion d'essere. E ciò deriva dal fatto che si sta
diffondendo nel mondo la consapevolezza che la produzione capitalistica
della ricchezza potrebbe portare in breve tempo alla distruzione delle
condizioni della vita umana sulla terra.
In questa direzione va considerata la ricerca dell'economista italiana
Mercedes Bresso che ha tentato, dopo anni di  lavoro, una prima
formulazione sistematica di un progetto di economia ecologica che
raccogliesse i diversi contributi prodotti in giro per il mondo, facendo il
punto sullo stato dell'opera e cercando di delineare una prospettiva . Viene
qui ripreso il rapporto tra economia ecologica e bioeconomia su  cui ha
portato per primo  l'attenzione  il  già citato Georgescu-Roegen: applicando
all'economia i principi  della termodinamica,  in  particolare il  secondo
principio,  la legge dell'entropia (processo irreversibile   della
materia/energia da uno stato  di  ordine  ad  uno  di  disordine
degradato), viene evidenziato come l'uso di risorse energetiche fossili e
minerarie ordinate (ed in generale di risorse non  rinnovabili) riduca
irreversibilmente le risorse disponibili per  il  futuro, aumenti cioè
l'entropia della terra.
Ebbene,  l'economia  umana dell'era  industriale è esattamente nata  e
fondata  sull'uso  di  energia  concentrata, prodotta in milioni di anni
dalla terra, cioè di stock di energia, per definizione finiti e che
dovrebbero  appartenere a tutte  le generazioni, non solo degli ultimi  due
secoli,  ma  anche dei prossimi millenni. E' un'economia ad alta entropia a
differenza di quella preindustriale che utilizzava sostanzialmente un flusso
di energia (sole) e che era a bassa entropia. Viene  qui posto sul piano
teorico il grande problema, che come abbiamo visto, scardina i paradigmi di
tutto il pensiero economico precedente.
Quindi, rifacendosi all'impostazione dei fondatori della rivista "Ecological
Economics", (Costanza, 1989) tre sarebbero le questioni principali su cui
occorre lavorare nel rapporto fra sapere economico, sapere scientifico e
sapere ecologico: il concetto di limite, la considerazione dell'incertezza,
il trattamento della complessità. La Bresso, però, non si sofferma solo sui
fondamenti dell'economia ecologica: utilizzando in particolare gli studi di
H.E. Daly , cerca di costruire una nuova  contabilità economica-ecologica
che tenga conto di tutte le "esternalità" da sottrarre in negativo al PIL
(ma la questione verrà ripresa in dettaglio più avanti).
Bresso conclude con una suggestiva "riflessione per un nuovo inizio":
qualità, lentezza e contemplazione sono le nuove parole d'ordine, in
particolare "l'economia dello sviluppo sostenibile deve riscoprire e
valorizzare la dimensione contemplativa delle relazioni tra gli esseri umani
e il mondo" .  Sul piano delle proposte concrete vengono offerte alcune
indicazioni operative per una politica ecologica, che oggi potremmo definire
classiche: le tasse ambientali, diverse forme di incentivi, le ecoetichette
o ecolabel, gli ecobilanci e l'Audit o autocertificazione di conformità
ambientale...