il disastro della soia ogm argentina



il manifesto - 17 Novembre 2004


Il disastro della soia ogm argentina
FRANCO CARLINI

I coltivatori italiani, inglesi o francesi ansiosi di coltivare anche loro
la soia geneticamente modificata farebbero bene a studiare con molta
attenzione come sono andate le cose in Argentina. E con loro anche i
professori indignati che hanno firmato un appello in favore delle sementi
Ogm, contro il decreto del ministro Alemanno. La storia comincia nell'ormai
lontano 1997, quando quel paese latino americano fu il primo ad autorizzare
l'uso della soia Roundup Ready della Monsanto nelle sue coltivazioni. E'
questa una soia resistente all'erbicida Roundup, prodotto e venduto dalla
stessa Monsanto e il suo vantaggio dichiarato è quello di permettere meno
diserbante. E l'Argentina ne aveva davvero bisogno, dato che i suoi terreni,
delle pampas ma non solo, erano da tempo soggetti a erosione; con la soia
Monsanto, invece, si poteva seminare senza dissodare il terreno,
semplicemente buttando i semi sul campo e poi spruzzandoli di Roundup due
volte soltanto. Ai contadini veniva proposto un pacchetto particolarmente
favorevole: semi, attrezzature e pesticidi, oltre tutto a prezzo scontato
perché il brevetto Monsanto allora era valido solo negli Usa e dunque la
Monsanto aveva il timore della concorrenza di prodotti similari e
«generici». La soia, come noto, è ormai l'alimento principale degli animali
da allevamento, di cui l'Argentina è gran produttore. Da qui una grande e
frenetica espansione delle coltivazioni: c'erano 37.700 ettari a soia nel
1971 e diventarono 11,6 milioni nel 2002. E con le estensioni crescevamo
clamorosamente anche i raccolti, aumentando in soli 5 anni del 173%.
Spostiamoci adesso al febbraio 2003, in un piccolo villaggio del nord
dell'Argentina, chiamato Colonia Loma Senes. Quel giorno una nube tossica
invase case e campi e nei giorni successivi animali abortirono e raccolti
vennero persi. Era successo che nella vicina fattoria dove si coltivava soia
genetica avevano deciso di effettuare una fumigazione d'emergenza con
poderose quantità di erbicidi perché, malgrado il Roundup della Monsanto,
non riuscivano più a liberarsi delle erbe nocive. Lo scoprì una rapida
indagine dei ricercatori dell'università di Rosario e successivamente una
sentenza del giudice inibì che simili azioni venissero ripetute, dato che
«danneggiavano i raccolti e la salute delle persone». Comunque, le
coltivazioni successivamente ripresero, non appena arrivarono dei nuovi
proprietari, cui legalmente non si applicava quella sentenza. Sembra proprio
che si fosse avverata una delle infauste ma fondate profezie avanzate nel
2001 da Charles Bembrook dell'organizzazione «Northwest Science and
Environmental Policy Center» di Sandpoint nell'Idaho. In un saggio ormai
famoso egli aveva cercato invano di mettere in guardia i coltivatori
argentini dall'uso spinto della soia Ogm. Il rapporto è tuttora disponibile
in rete all'indirizzo www.biotech-info.net/troubledtimes.html. In
particolare Bembrook segnalava come il consumo di Roundup fosse in Argentina
il doppio che nelle coltivazioni convenzionali, per effetto della comparsa
di erbacce ormai resistenti agli erbicidi. Consigliava dunque di ridurre la
percentuale di terreni coltivati a soia Ogm e aggiungeva: «La storia ci
mostra che l'affidarsi eccessivamente a una singola strategia per
fronteggiare le piante e gli insetti nocivi, a lungo termine si rivela un
fallimento per effetto delle risposte ecologiche e genetiche» Fu un appello
inascoltato: il consumo argentino di glyphosate (la sostanza chimica su cui
è basato il Roundup) che era di 13,9 milioni di litri nel 1997,arrivò a 150
milioni di litri nel 2002. Intanto,all'università di Rosario un gruppo di
studiosi documentava che l'abuso di Roundup aveva prodotto l'emergere di
erbe resistenti - come da facile previsione. Commenta Bembrook (citato da
New Scientist, 17 aprile 2004): «L'Argentina ha adottato la tecnologia Ogm
più rapidamente e più radicalmente di ogni altro paese. Non ha preso le
opportune precauzioni per gestire la resistenza e proteggere la fertilità
dei suoli. Sulla base di questi risultati non penso che questo tipo di
agricoltura sia sostenibile per più d'un altro paio di anni»